Ivano Porpora
La conservazione metodica del dolore
Io sono epilettico. Eà eà eà eà eà è il mio urlo di battaglia. L’ho urlato tanto forte da spaccarmici la testa, una cicatrice sopra l’occhio sinistro; la bocca prima spalancata, poi serrata a mordere la lingua finché non diventava viola e nera. Sono epilettico e sono un fotografo. E come fotografo sono stato chiamato al mondo, da quando scaldavo con l’accendino la chiave del Ciao perché entrasse in una serratura congelata, e nel camminare mi spostavo sul marciapiede per cercare una prospettiva piú tagliata dei balconi o delle auto, o semplicemente una parte assolata per sfuggire al freddo dell’inverno; e come epilettico sono a non poter garantire di scrivere nemmeno questo foglio, o rileggerlo, senza avere una crisi. Ogni foto, un’immagine partorita dalla mia camera oscura.
Spero vivamente che queste pagine non le legga nessuno, e non so nemmeno perché o per chi le stia scrivendo. Forse le scrivo solo per ricordare; per dare un senso a quei dieci anni di vita che avevo cancellato e ora premono. O forse perché Margherita è morta. E la sua immagine mi sfarfalla davanti a ogni immagine che veda; tutte le foto di volti rimandano al suo, le foto d’immobili diroccati al corpo di lei, le foto di lampade e auto rugginose e yogurt si sciolgono e rapprendono nel suo stesso volto. E in quel ricordo, anch’io.
Spero di non tramandare, scrivendo, il dolore che mi porto dentro. C’è un coltello, in cucina, nel quarto cassetto da sinistra; quel coltello me lo porto in ogni trasloco; c’è stato un giorno in cui ho detto: «Dovessi avere un’altra crisi me lo pianterò in corpo». Ma un coltello è come la famiglia dalla quale vieni, può essere usato nel bene o nel male; da quella volta, grazie al Cielo, ha solo tagliato verdura.
Dopo un attacco epilettico non riesco a fotografare per una settimana; non ho la forza nemmeno per alzare una Reflex, un flash. Mi trema la mano e mi dolgono i muscoli del collo, delle spalle, quelli delle cosce; ho male persino a muscoli che non sapevo di avere.
Mario sa. Una volta, in studio, eravamo soli, ha anche assistito a una crisi. Gli altri no: per gli altri che lavorano con me, da Elena a Donata a chi capita, le mie settimane di eclissi erano dovute a emicrania. O chissà , avranno pensato fossi depresso.
Alla finestra. Angela è al lavoro, Rachele all’asilo. Con la coda dell’occhio vedo in strada il solito ragazzo grasso sul suo scooter. Peccato non avere una macchina in mano, ora. È un ragazzo grasso, talmente grasso che è il doppio dello scooter stesso. Lo incrocio di continuo per le vie di Viadana. Lo scooter arranca, scivola lungo le curve, cigola; le ruote sono sempre sgonfie, e non so se sia colpa del peso o di cattiva manutenzione. Il ragazzo ha lo sguardo rigidamente dritto davanti a sé; la traiettoria sembra del tutto casuale. Glielo dovrebbe chiedere qualcuno, qualche volta: «Dove stai andando?» Immagino risponderebbe con un mugugno, o qualcosa del genere. Si muove, quel ragazzo, mattina e sera, pioggia o sole. È ritardato; non c’è logica dietro ai suoi comportamenti; non fa altro che girare, allora.
Io sono fatto allo stesso modo. Il mio pensiero è uno scooter portato in giro da un ragazzo grasso, lento nel comprendonio ma non nel correre per la città . Ho cominciato a fotografare per questo; per questo lavorio ininterrotto, simile al continuo mordicchiare e smangiare e sminuzzare d’un sorcio.
È successo a Bologna, ai tempi dell’università . Chiuso in casa, studiavo un manuale di Storia del cinema di seconda o terza o quarta mano. Gli altri, fuori a cercare di dimenticarsi chi erano stati; proprio mentre io provavo a ricordare. In quei giorni avevo l’alito che sapeva di prugne o di strisce di liquirizia, o se ero fortunato d’anice; annusavo l’aria che era di Natale, come l’aria di oggi, e mentre scorrevo le pagine immaginavo come sarebbe stata la carne di Alice, mi chiedevo se Alice m’avrebbe voluto ancora, se Alice avrebbe voluto far parte un’altra volta di me. Alice che aveva questo alito meravigliosamente adorno di tabacco; la sua lingua sembrava una serpe fatta di Merit; attorno al suo collo una sciarpa verde trifoglio.
Leggevo di cinema appoggiando libro e gomiti su un tavolino metallico, bianco scrostato, che avevo rubato in un bar assieme alla sedia dello stesso colore. Mi passavo tra le dita della destra il portachiavi del Ciao, mi grattavo la nuca con la sinistra, guardavo ogni tanto il poster di Frank Zappa che un compagno di casa aveva appeso al muro di fronte con puntine instabili; pensavo alle antenne trasmittenti, poi alle antenne che dai tetti spuntavano come dita di strega, poi ad altro. Le immagini della Bologna di fuori, coperta da uno strato sdrucciolo di neve anche ammonticchiata in mucchi bianchi e sporchi agli angoli delle piazze e nei cortili; le immagini del mio nero di dentro, e poi di Alice, e poi di quegli amici che differivano per nome, accento, mai faccia. Parevano intercambiabili, come una parete di biblioteca che ruoti su se stessa e ne riveli un’altra quasi identica, con i medesimi titoli in diverse edizioni: prima portavano tutti le basette, ora sembravano tutti usciti da una copertina degli Style Council. Eravamo tutti usciti da una copertina degli Style Council. Io fumavo, masticavo liquirizie; quando faceva freddo m’incagnavo dentro il giaccone marrone a toppe marroni, nei guanti, in un doppio paio di calze di spugna comprate il venerdà mattina alle bancarelle di Viadana. Pensavo, leggendo di quel che leggevo, che là dove c’era la parola, scomparivo io.
Fumetto di me stesso; come ora.
Prendo in mano le bozze del volume di fotografie che Angela mi ha fatto comprare. «Se non curi tu il tuo lavoro, qualcuno dovrà pensarci», mi ha detto, allungandomi il pacco per il quale aveva appena firmato. Le sfoglio; guardo una o due immagini; chiudo gli occhi, avvicino il volume alla faccia e annuso l’odore degli inchiostri. Di solito queste sono le azioni di cui mi nutro. Ma Margherita è morta, morta definitivamente, e giace in un angolo buio di me; stavolta l’odore di stampa nuova non mi solleverà .
Vado alla porta d’ingresso, chiudo con il chiavistello, prendo una sedia e la accosto all’armadio che sta nell’andito; tiro fuori da dietro il fregio un sacchetto di plastica arrotolato, e dal sacchetto una panettina di fumo e una busta di tabacco, cartine che devo aver comprato in qualche tabaccheria in giro. Scendo dalla sedia, controllo ancora il chiavistello, fabbrico la canna con l’imperizia dovuta ai diversi anni in cui non ho fumato; la accendo, tiro, sistemo la cartina che evidentemente ho chiuso male.
«È cioccolato, questo, – mi aveva detto Mario, mesi fa, regalandomi la busta. – È buono; non sprecarlo da solo». Immagino che s’includesse in quel non da solo; le sue cortesie, a volte fitte come spaghi di pioggia. Mi metto con la sedia a dondolo davanti alla finestra, il libro sulle ginocchia; tiro forte, chiudo gli occhi concentrandomi sul sapore, sull’espansione interna del fumo.
Mi sembra che la sedia si muova, o è il pavimento?, apro gli occhi; guardo al libro.
Lo aveva comprato on-line Angela perché, diceva, «un professionista deve anche nutrirsi». Aveva detto: «Sei un professionista, cazzo», in una delle sei o sette parolacce che le ho sentito uscire dalla bocca finora.
«Sei un professionista, cazzo»; a me un po’ di tempo fa.
«Non voglio sentir parlare di quella troia»; a me relativamente a sua sorella, l’anno scorso.
«Che filmetto del cazzo»; a me dopo aver visto Il messia di Rossellini, tre anni fa.
«Porca puttana!» partorendo Rachele, tre anni e mezzo anni fa; «cazzo», due minuti dopo.
«Vaffanculo», due volte di seguito a me durante un litigio, venti giorni fa. Sette. Strano come, a trascriverle, tutte le parolacce si facciano banali; inutili fotocopie pure loro.
Sono epilettico, e il mio male urla in me come Mangiafuoco disegnato da Mussino – gli stessi occhi sgranati. Credo di poter dire che, fossi stato Mussino, mi sarebbe caduta ogni tanto la boccia della china a coprire interamente il disegno, gocciolare giú dal tavolo a terra. Ha cancellato immagini, la boccia. E sta pure in un sogno, ricorrente come sempre sono stati i miei sogni: io che tuffo la testa in un secchio di china nera, ne escono migliaia di rivoli d’inchiostro, che sono topi, e si diramano nelle trentadue direzioni della rosa dei venti. Non ricordo una discussione da bar, dei miei anni precedenti all’80 e successivi al dicembre del ’69; non ricordo una predica in chiesa, un furto, una piena. Niente dai sei ai sedici anni. Non ricordo l’omicidio Pinelli, né l’omicidio Calabresi; intendo: non ricordo un giornale che ne parli, un momento di raccoglimento, un «che succederà ora». Ho fotografie di me al mare che volteggio in aria un pallone, mio fratello Achille dice che una volta sono riuscito a fare centonove palleggi con la testa; io di questo non ho memoria. Ho provato a prendere un pallone, una volta, dopo; Achille m’ha visto; mi ha visto lanciarlo in aria dopo averlo tenuto ai lati con pollici e mignoli, fare tre palleggi; al quarto è caduto a terra, ha sbattuto contro la porta della stalla.
Intere parti della mia memoria si sono cancellate, da quel dicembre del ’79; si sono cancellate dopo una crisi epilettica; di questo devo parlare per non usare il coltello. Me l’ha detto Angela. Ha detto: «Devi cominciare a parlarne». Cosà ha detto.
Cosà ha detto. «Devi sistemare il tuo lavoro, Benito», ha detto; ha sempre avuto la delicatezza di chiamarmi per nome, Angela.
«Omissis è là che ti aspetta. Devi sistemare il tuo lavoro».
«Mi hai sempre detto il contrario», le ho risposto.
«Te le sei scelte tu, quelle foto. Le hai volute proporre tu all’esposizione del Forma. Ora è il momento».
Lei, di Margherita non sa.
Le sue parole sono gentili, e per questo entrano; so che mi sono disabituato a parlare al punto che le parole altrui si devono scavare un cunicolo nei miei campi, talpe che entrano da non so dove e non so dove sbuchino. A volte mi sembro un burattino di legno, e quelle parole sono il filo che tiene insieme le mie membra. Ride al paragone, Angela, ed è bella quando ride e ride di questo; dice che ho il fisico di un cavalletto, che i miei capelli paiono uno scopettone, che le mie dita sono sottili come i bastoncini dello shanghai. È bella quando ride, e anche se adesso qualche capello mi rimane sul cuscino il fisico resta proprio quello che ha descritto, i capelli quelli. Ma sono cavo, dentro. Sono cavo, io, dentro. Una volta avrei detto: sono una miniera. Era l’ottimismo dei miei trenta.
Oggi dico: sono cavo, io, dentro.
Mi alzo dalla sedia; vado alla libreria, sposto una pila di libri dalle copertine colorate.
Sotto tutto, Omissis. «È là che ti aspetta, – recita la voce di Angela. – Il Forma è la tua occasione, e tu hai proposto quelle. Te le sei scelte tu». Lo sfilo dalla pila, lo piazzo sul tavolo. Fuori nevica, forse: c’è lo stesso silenzio di quando forse nevica. Omissis è un libro mai stampato che abbiamo rilegato io e Angela, fogli di cartoncino nero sui quali ha incollato col Vinavil le foto e segnato in oro titoli provvisori. L’intestazione ce l’ha scritta un amico, e pure quella è provvisoria; Angela l’ha copiata su un foglio di velina, si è messa a trascriverla con accuratezza mentre Rachele accanto disegnava Babbo Natale, faceva palline dell’albero grandi quanto la testa del vecchio. Il disegno l’abbiamo appeso vicino a un altro in cui la bambina è malata; la mamma le allunga un regalo.
La galleria senza nome: in copertina solo quell’«Omissis». Il nome l’ha scelto Angela. «Che nesso hanno le foto tra loro?» aveva detto guardandole. Si leccava la punta delle dita per sfogliare le pagine piú facilmente; aveva un raffreddore che le faceva rosso il naso e bianca la faccia, la faceva respirare con la bocca.
«Nessuno», le avevo risposto. Un albo di dodici foto senza alcun nesso metodologico, o d’indagine, o di contatto tra i soggetti raffigurati. «Omissis», aveva scritto allora lei al posto del titolo, chiudendolo tra due parentesi quadre.
Omissis. Quando mi sono accorto che a causa della mia malattia avevo cancellato un decennio di vita, e ho realizzato che in quel decennio dovesse esser successo qualcosa d’importante, di cui no...