Mentre correva Molly udà la madre dirle che era troppo presto dopo mangiato per fare del moto tanto faticoso. Appena aveva sentito il rumore delle porte di ferro che cadevano era schizzata fuori dalla sala dei banchetti infilando l’uscita piú vicina e da allora non aveva rallentato, correndo alla massima velocità lungo un monotono corridoio grigio che ogni pochi minuti si apriva su un’altra mirabile stanza, ma sapeva che sarebbe stato stupido, o addirittura fatale, fermarsi a guardare le meraviglie. Piú aveva mangiato e piú le era aumentata la fame, e anche se aveva salsa sulle labbra e sformato nei capelli, si sentiva leggerissima sulle gambe ed era sicura di poter correre per un chilometro, o nuotare per due, se fosse stato necessario. Correva con una bottiglia in mano, convinta di sentire la minaccia alle spalle sotto forma di una pressione e di un calore reali contro la schiena e il sedere. Quando infine si fermò per riprendere fiato, bevve un lungo sorso di vino.
Piú beveva e piú si sentiva lucida e piú diventava coordinata. Correndo, aveva avuto per la prima volta l’impressione che tutto acquistasse un senso: si era smarrita in un sogno catartico e istruttivo popolato dalle personificazioni delle sue nevrosi, e la minaccia mortale alle sue spalle era nientemeno che la massa torbida dei sentimenti che provava per il suo ragazzo morto che l’aveva abbandonata. Non sapeva né aveva bisogno di sapere perché quei sentimenti avessero assunto le sembianze di Pibo, cosà come non doveva piú preoccuparsi se quanto stava succedendo fosse reale o meno. Era abbastanza reale da costringerla a occuparsene, e fra pochissimo avrebbe dovuto smettere di correre e girarsi, ma non ancora. La lezione del pasto che aveva appena lasciato era che c’è sempre posto per il divertimento, e sempre qualcosa da apprezzare, perfino quando hai perso la testa e ogni speranza e sei scesa con le unghie e con i denti non solo nell’abisso dell’avvilimento ma ancora piú giú, fino agli abissi successivi della disperazione e del per-favore-uccidetemi-subito. Non aveva avuto intenzione né voglia di partecipare a quel banchetto inatteso, però lo aveva fatto, e nell’anima questo la faceva sentire grande, perché era capace di apprezzare la consistenza di un pezzetto di pelle di pollo croccante mentre si affliggeva per la perdita del ragazzo e del senno, e non era costretta a scegliere tra il piacere e la disperazione: poteva vivere appieno l’uno e l’altra contemporaneamente. Non sapeva se si trattasse di un progresso o soltanto di una deviazione lungo il suo percorso di recupero come sopravvissuta al suicidio di un congiunto, né se quella duplice capacità del sentire sarebbe svanita appena si fosse girata per farsi straziare dal mostro-Pibo. Comunque, aveva intenzione di godersela per un po’. Se era ubriaca, quella era la piú bella sbronza della sua vita, e avrebbe voluto che non finisse piú. Accelerò, sicura di poter sfrecciare sopra un asse d’equilibrio senza difficoltà come lungo un marciapiede, e fece una prova, mettendo agilmente un piede davanti all’altro, poi superando con un salto candele immaginarie sistemate lungo l’asse immaginario, e infine scavalcando copertoni disposti a intervalli tra le candele immaginarie sull’asse di equilibrio immaginario, chiedendosi, poco prima di inciampare e cadere, dato che riusciva a vederli tanto distintamente, perché i copertoni e le candele non apparissero e basta, lÃ, in quello che era l’imminente fondo e culmine della sua allegorica avventura onirica di recupero.
Aveva la sensazione di aver corso con la stessa velocità di un’auto, e capitombolò, ruzzolando e rotolando, a lungo e velocemente come se fosse caduta giú da un’auto, per infine fermarsi seduta a gambe divaricate talmente inclinata da una parte che i capelli sfiorarono il terreno prima che si raddrizzasse. A occhi chiusi si toccò la testa e le braccia e le gambe alla ricerca di fratture e contusioni, ma si sentiva le ossa e i muscoli piacevolmente intorpiditi, addirittura come se toccasse un’altra persona. Si ravviò i capelli e si raschiò la gola e aprà gli occhi, quasi aspettandosi di ritrovarsi al tavolo del banchetto o in un faccia-a-faccia con Pibo, invece era in un’altra stanza enorme, non completamente vuota ma stipata di ritratti.
Non vedeva da nessuna parte il corridoio per il quale era arrivata là : forse finiva in quel punto, però ricordava di averlo visto stendersi monotono e grigio all’infinito prima di inciampare. Ora l’oscurità era interrotta soltanto da pozze di luce che lambivano la parete a intervalli regolari illuminando ritratti di bambini maschi. I quadri si succedevano alla sua sinistra a perdita d’occhio, finché le pozze di luce si riducevano a puntini. Alla sua destra arrivavano fino a un muro lontanissimo, dove una luce piú forte cadeva su una specie di scultura. I musei non le piacevano; ne era sopraffatta e le mettevano sonno, e anche se pensò che nel suo sogno di ubriachezza trasformativa forse avrebbe potuto cambiare quell’effetto, non ci teneva a sentirsi in modo diverso e voleva solo andarsene. Si avviò in direzione della scultura nella speranza di trovare una via d’uscita lanciando occhiate ai ritratti mentre camminava.
«A qualcuno devono piacere molto i ragazzini», pensò mentre avanzava, perché nessuno aveva piú di undici, dodici anni, e alcuni erano paffuti bimbetti ai primi passi. I ritratti erano eseguiti negli stili piú disparati, e alcuni soggetti erano vestiti di perle o di piume o di brandelli di stoffa o di piccoli sciami di api, ma erano tutti molto carini, e avevano la stessa espressione: una certa ottusità nel sorriso che li faceva sembrare leggermente insoddisfatti e un po’ drogati. Nella sua genialità acuita dall’ubriachezza era sicura di sapere il perché di quei quadri e della galleria: erano un’installazione di ragazzi scomparsi, repliche dei suoi ragazzi scomparsi. Non sarebbe rimasta sorpresa di vedere là Pibo con un Gesú a 3D che sporgeva dal quadro. – Adesso stai diventando ovvio! – disse a voce alta al suo subconscio quando arrivò al ritratto del ragazzo abbronzato dai capelli a spazzola. Era Ryan, naturalmente. Ci mise un momento a capire chi era; non era sicura che lo avrebbe riconosciuto se non si fosse aspettata di vederlo. Quello che non capiva era perché il suo ritratto fosse semplicemente uno dei tanti, né l’ultimo della serie né messo in risalto in una posizione privilegiata, e perché il quadro accanto al suo – di un bambino castano dalle orecchie enormi – avesse una X nera dipinta sul viso. Tirò giú il ritratto di Ryan perché le sembrava giusto spostarlo piú avanti nella fila. Il quadro si staccò dal muro senza difficoltà ed era molto meno pesante di quanto la grossa cornice non facesse pensare. C’era circa una ventina di ritratti – ragazzi biondi e ragazzi dai denti in fuori e tipi lentigginosi alla Tom Sawyer e una minoranza di minoranze, un ragazzino di colore, uno indiano e un meticcio con le sopracciglia unite come Frida Kahlo e un unico bimbetto in lacrime – prima di arrivare in fondo alla stanza dov’era la scultura che, come riuscà a vedere adesso, ritraeva un bambino morto su un catafalco. C’era veramente una porta, dietro la scultura, ma aspettò a varcarla. Prima cercò di appendere il ritratto di Ryan, ma non c’erano chiodi e, anche se per un momento aderà al muro da solo, non rimaneva attaccato. Decise di metterlo sulla scultura poiché anche quello era una sorta di posto d’onore, che lo avrebbe contraddistinto dalle centinaia e centinaia di altri quadri. Ignorava quale potesse essere il significato, o se l’atto di spostare dei quadri in sogno le avrebbe reso sopportabili la vita reale e il mondo reale, ma le sembrava necessario e giusto, e mentre sistemava il quadro in bilico sulla scultura assai realistica del bambino disteso, quasi si aspettava di svegliarsi da un momento all’altro.
Invece udà una voce. – Che cosa fai? – C’era qualcuno nell’angusto spazio sotto il catafalco.
– Niente, – rispose lei.
– Sei la Bestia venuta sotto sembianze di fata per attirarmi fuori? Ti ordino di dire la verità .
– No, – rispose Molly. – E tu, chi sei? Sei rimasto bloccato? – Non le importava piú di tanto se lo era.
– Barboncino! Barboncino! È rimasto ancora un po’ di potere in questa parola, e in sua virtú io ti ordino! Sei lui? Sei il mio nemico, venuto per divorarmi? Rispondi!
– Sono solo una ragazza, – rispose Molly, – e non so di che cosa parli –. Invece lo sapeva. Aveva una certa logica che nel suo sogno nevrotico tutti avessero paura della stessa cosa. I sogni e le menti folli scialacquavano creatività , anche se la loro economia imponeva un solo cattivo per dramma. – Okay, – disse. – So a chi alludi. Al ragazzino di colore.
Da sotto il catafalco un piede spuntò dall’oscurità , seguito, con molta esitazione, da un altro piede, e poi da una minuscola figura che ballava il limbo strusciando le spalle e la testa contro il terreno. Quando si alzò, l’omino le arrivava appena a metà stinco. – Ragazzino di colore? Immagino di sÃ, se è cosà che lo vedi. Lui è tutto e di tutto, a patto che ti terrorizzi. Personalmente, di solito lo vedo come un grosso stivale marrone, tranne quando cerca di giocarmi qualche tiro –. Infilò una mano sotto il catafalco e tirò fuori un coltello di legno. Era lungo quanto lui era alto, ma se lo caricò agilmente in spalla.
– Non ferirti con qualche scheggia, – disse Molly chiedendosi chi potesse mai essere o rappresentare, quale messaggio lei avesse riposto per sé sotto forma di quell’omino con un grosso coltello. Quasi a mo’ di risposta, l’omino spiccò un salto e le sfiorò la pelle del ginocchio con la lingua.
– Mi volevo solo accertare, – disse poi leccandosi le labbra. – Solo una ragazza! Che ci fai qui, Solo-una-ragazza?
– Mi sono smarrita nel mio sogno, – rispose Molly perché le sembrava il modo migliore di descrivere tutta l’avventura. – Cosa hai intenzione di fare con quel coltello?
– È per la mia Signora, – spiegò lui, – perché leghi la Bestia nel sangue ancora una volta. Era convinta che non lo avrei trovato, ma io ero certo di sÃ. Lei nasconde qui tutte le cose importanti. Smarrita in un sogno?
– Proprio cosÃ, – confermò Molly. – Sono bloccata in un sogno o qualcosa del genere. Oppure sono pazza. Rinchiusa da qualche parte. In un sogno. In un’illusione. Drogata. Tu non sei che un parto della mia fantasia, però significhi qualcosa –. Quando Molly udà le proprie parole, il ragionamento non faceva una grinza. – Che cosa vuoi dire? Imbroglio se ti chiedo di spiegarmelo? – Scoppiò a ridere e bevve un altro sorso dalla bottiglia. Sentendo il sapore del vino le tornarono in mente i suoi commensali, Henry e Will. Di colpo sentà la loro mancanza. Erano illusioni di ottima compagnia, pensò. Delle illusioni molto avvenenti. L’omino la guardava di sottecchi.
– Avvicinati, – le disse, – e te lo dirò, perché non ho intenzione di gridare un segreto –. Molly piegò il busto in avanti, ma lui disse «di piú», e allora si inginocchiò, ma l’omino insisté «di piú, di piú», al che lei si distese sulla pancia e accostò il viso al suo. Le orecchie dell’omino erano coperte da un morbido pelo dorato, e l’alito odorava di rosmarino. – Adesso chiudi gli occhi, per ascoltare meglio, – le ordinò, e Molly obbedÃ; si sentiva quasi in dovere di fare boccuccia. Finalmente, pensò, questo sogno comincia a collaborare! Lui non la fece attendere a lungo, e con un piccolo, fievole strillo le ferà la guancia con il coltello. Lei si alzò di scatto in ginocchio portandosi un mano al viso e mandando l’omino a gambe all’aria con l’altra.
– Per poco non mi cavavi l’occhio! – gridò, la prima cosa che le venne in mente.
– La tua vista ci avrebbe guadagnato! – gridò lui di rimando. Si era già tirato su, e la minacciò barcollando con il grosso coltello. – I mortali! È sempre un sogno. Forse sei tu il sogno. Via! Via! Ho cose piú importanti da fare che parlare a vanvera con una stupida! – Si allontanò di corsa per il lungo corridoio con il coltello premuto contro il petto. A Molly vennero in mente diverse cose che avrebbe potuto gridargli dietro: «Piccolo pezzo di merda!» Oppure «Ti ferirò anch’io!» Oppure «Dovresti aiutarmi a uscire di qui!» Oppure «È ancora piú pericoloso che correre con un paio di forbici in mano!» Ma non le usciva nemmeno un filo di voce. Indugiò fissandosi la mano insanguinata, si toccò di nuovo il viso, poi guardò di nuovo il sangue. All’improvviso quella vista la fece sentire sbilanciata, come se fosse sul punto di scivolare e crollare dentro se stessa. Si aggrappò piú forte alla bottiglia per sostenersi e si appoggiò al catafalco di pietra e alla scultura del ragazzino.
– E tu, chi sei? – gli domandò, volendo dire «Cosa rappresenti» e «Come ti chiami» e «Che ci fai qui», ma era talmente difficile, guardandolo, pensare che rappresentasse qualcosa di diverso da un bambino morto. «Sembra proprio vivo», pensò, anche se non le sembrava la definizione giusta per un’opera d’arte che raffigurava con maestria la condizione della morte umana. Guardò un po’ piú da vicino – le luci della stanza parvero diventare piú forti mentre lo faceva – e capà perché sembrava morto, capà che non era il trionfo dell’arte di qualche scultore, ma di qualche impresario di pompe funebri. Una voce dentro la sua testa gridò «Non toccarlo!» Ovviamente, era una voce identica a quella che era solita dire cose terribili sul conto della sua famiglia – la udà nello stesso identico modo –, solo che ora aveva un tono sollecito e spaventato anziché stizzoso e sarcastico, e si chiese se avesse sempre cercato di proteggerla. «Non lo faccio», rispose, ma lo fece, poi scappò anche, e urtò contro i muri vacillando per la fretta. C’era davvero una porta dietro il catafalco.
Sbatté la porta alle sue spalle, e vi premette contro la schiena per tenerla chiusa, come se il ragazzino morto potesse inseguirla là dentro. Si guardò intorno. «Qualcuno ha distrutto la camera da letto di Cher», pensò tra sé, perché la stanza era completamente ridotta a brandelli e sembrava davvero il genere di stanza in cui avrebbe potuto dormire Cher se non fosse stata tutta lacera e in mille pezzi. Le pareti erano decorate con arazzi ornati di gemme, i mobili erano di un legno esotico lucente e uno spesso strato di folti tappeti dai motivi elaborati copriva il pavimento, ma la stanza dava l’impressione che la signora in preda a un accesso di collera avesse distrutto il lussuoso nido a colpi di martello e di forbici e d’ascia: gli arazzi erano tutti strappati e i mobili in frantumi. Molly si avvicinò al letto, ammirando attentamente il candore delle lenzuola e la morbidezza dei cuscini laddove non erano ridotti in mille pezzi: aveva attenzione in abbondanza per tutto tranne che per la cosa a cui si forzava con tutta se stessa di non pensare. Si sedette piegata sul letto – che si teneva su una gamba sola, quella anteriore destra – e sfiorò le lenzuola meravigliandosi della loro incredibile morbidezza, e chiedendosi perché finissero bruscamente a metà del letto. – Oh, no, – disse sottovoce sentendo uno spostamento sotto di sé, e anche l’ultima gamba cedette. Il letto si schiantò sul pavimento. Molly tese le gambe e rimbalzò una volta sul materasso. Allo stesso tempo ebbe la sensazione che qualcosa si spostasse e cadesse dentro di lei, e non poté piú ignorare quanto le fosse sembrata reale la ferita alla guancia, o che il corpo del ragazzino le era sembrato duro e morto in un modo che niente, nemmeno quell’imbrogliona della sua mente afflitta, avrebbe potuto simulare. Pianse perché quel bambino era morto e perché i bambini morivano di incuria e disgrazia e malattia e perché Ryan era morto e perché lei si era davvero smarrita nel tentativo di dare un qualche senso duraturo a quella morte, e si era smarrita inseguendo una forma qualunque di pace duratura nei confronti di quella perdita, ma a questo punto, se il bambino morto era reale, e l’orribile omino era reale, e gli elfi erano reali, e la magia era reale, e i mostri minacciosi dalle dimensioni e dalle sembianze di bambini erano reali, riusciva a indovinare che cosa ci facesse il ritratto di Ryan in quella galleria.
Molly organizzò una festa per i trent’anni di Ryan. Il progetto fu complicato un po’ dal fatto che apparentemente lui non aveva amici. Da parte sua, Molly ne aveva persi alcuni da quando stavano insieme, persone ipersensibili convinte che il silenzio potesse essere soltanto indice di antipatia e che non riuscivano a capire che quando eri innamorata eri autorizzata a ignorare tutti tranne l’amato, almeno finché durava la luna di miele. E se la luna di miele sembrava non finire mai, allora avrebbero dovuto essere solo contente per te. Lei non aveva abbastanza amici per riempire l’enorme villa di Ryan, ma se includeva Salome e qualche collega di Root and Relish ce ne sarebbero stati abbastanza per far sembrare pieno il giardino, e perfino per sistemare una persona qua e là sui balconi del pianterreno e del primo piano, pronte a lanciare manciate di coriandoli norvegesi compostabili al cento per cento che Salome le aveva regalato in un accesso di generosità . E c’era anche la strana sorella di Ryan che sembrava la sua gemella e si comportava come tale anche se aveva due anni piú di lui. Essere riuscita a farle accettare l’invito le sembrava un colpo maestro, perché aveva sempre l’aria a dir poco critica nei suoi confronti, e riuscire a farsi richiamare o farle rispondere a un’e-mail era stata una sfida, e durante le trattative le era stato ricordato tre volte che in quella famiglia non si dava grande importanza ai compleanni. – Ma hanno importanza per me, – aveva ribattuto Molly, rendendosi conto solo molto piú tardi quanto doveva essere sembrata idiota quella giustificazione. Voleva dire che erano importanti per noi, anche se sapeva che stava organizzando la festa tanto per farlo diventare vero quanto per dimostrare che era vero.
– Dove può essere andato? – domandò Salome quando Ryan era in ritardo di appena dieci minuti per la sorpresa. Secondo lei la mancanza di puntualità era maleducazione, ed era particolarmente imperdonabile arrivare in ritardo alla propria festa, anche se ne eri completamente all’oscuro.
– Sono sicura che sarà qui a momenti, – rispose Molly anche se lui non aveva risposto ai tre sms che gli aveva mandato. Aveva escogitato uno stratagemma tutt’altro che raffinato per farlo tornare a casa in tempo: una cena con Salome, che lui aveva preso in inaspettata e permanente simpatia. Diceva che gli piaceva starla a sentire perché gli faceva dimenticare i suoi problemi personali. Con gioia di Salome, finalmente Molly aveva scoperto che lui era una persona problematica (Adesso stai cominciando a conoscer...