Don Chisciotte della Mancia
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Don Chisciotte della Mancia

  1. 1,328 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Don Chisciotte della Mancia

Informazioni su questo libro

Il primo grande romanzo dell'età moderna nella traduzione di Vittorio Bodini, considerata ancora oggi un modello di limpidezza per la linearità con cui restituisce il lucido smalto della prosa di Cervantes, e al tempo stesso di arguzia, per la resa esemplare di bisticci, battute e proverbi.
Il volume comprende un'introduzione di Vittorio Bodini, una biografia dell'autore, una bibliografia essenziale degli studi sul Chisciotte in Italia e all'estero, un'originale interpretazione di Erich Auerbach e un affascinante «commento per immagini» costituito da trentadue incisioni di Gustave Doré.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806177799
eBook ISBN
9788858408254

Seconda parte

DEL FANTASTICO CAVALIERE
DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA

DEDICA AL CONTE DI LEMOS1

Nell’inviarle, giorni fa, le mie commedie, che ho fatto piú presto a stampare che a rappresentare, le dissi, se ben ricordo, che don Chisciotte si calzava gli sproni per venire a baciare le mani all’Eccellenza Vostra; la informo ora che li ha già calzati e si è messo in cammino, e se arriva costà, credo che avrò reso un buon servigio a Vostra Eccellenza, tanta è la premura che da ogni parte mi vien fatta a spedirlo via, per eliminare la cattiva impressione e il disgusto che ha provocato un altro don Chisciotte, che sotto il titolo di Seconda parte s’è camuffato e ha girato per il mondo; e chi sopra tutti ne ha espresso il desiderio è stato il grande Imperatore della Cina che circa un mese fa mi ha mandato una lettera in lingua cinese, con un suo messaggero, per chiedermi, o per meglio dire: per supplicarmi che glielo mandassi, perché voleva fondare un collegio per farvi studiare la lingua castigliana, e il libro che voleva che vi si leggesse era appunto la storia di don Chisciotte. Oltre a ciò mi diceva che di quel collegio voleva che fossi io il rettore. Chiesi al latore se Sua Maestà gli aveva dato per me un contributo per le spese. Mi rispose che nemmeno per idea.
– Quand’è cosí, fratello – gli risposi io –, voi potete ritornarvene nella vostra Cina a tappe di dieci ore, o di venti, o a quante ve ne hanno ordinate al venire; perché io non sono in condizioni di salute da mettermi in un viaggio cosí lungo; e poi, oltre a star malato, non ci ho neanche un quattrino, e imperatore per imperatore, monarca per monarca, a Napoli ci ho il grande Conte di Lemos, che senza tante storie di collegi e di rettorati, mi mantiene, mi protegge e mi fa piú bene di quanto io possa desiderarne.
Con ciò lo congedai, e cosí mi congedo, offrendo all’Eccellenza Vostra i Travagli di Persile e Sigismonda, libro che terminerò entro quattro mesi, Deo volente, e che dovrà essere o il peggiore o il migliore che sia stato composto nella nostra lingua, beninteso fra quelli di svago; ma mi pento di aver detto il peggiore, perché, stando alla opinione degli amici, potrà toccare il culmine della perfezione. Possa l’Eccellenza Vostra godere la salute che le si augura; che Persile è già pronto a baciarle le mani, e io i piedi, servitore quale sono della Eccellenza Vostra. Da Madrid, ultimo di ottobre del 16152.
Servitore dell’Eccellenza Vostra.
MIGUEL DE CERVANTES SAAVEDRA
1 La dedica della parte prima al Duca di Béjar, ampollosa e retorica, non sortí l’effetto sperato dall’autore, che dopo quest’esperimento fallito non nomina mai piú il Béjar. Piú successo ebbe col Conte di Lemos (Don Pedro Fernández de Castro) che fu generoso mecenate e amico di letterati. Come si rileva dal tono di questa lettera, Cervantes gli scriveva con una cordiale deferenza e senza alcun bisogno di ricorrere alle frasi fatte e magniloquenti. Gli aveva già dedicato le Novelle esemplari e le Otto commedie e otto intermezzi.
2 A questa data il grande Cervantes non ha piú che sei mesi scarsi di vita. Farà tuttavia in tempo a vedere pubblicata la parte seconda del Quijote.

PROLOGO AL LETTORE

Con che impazienza, per Dio, starai ora aspettando, lettore illustre, o magari anche plebeo, questo prologo, credendo di trovare in esso polemiche, attacchi e improperi all’autore del secondo Don Chisciotte, di quello cioè che dicono generato a Tordesillas e partorito a Tarragona1! Ma questa soddisfazione non te la darò affatto, poiché, sebbene le offese sollevano la collera fin nei piú umili cuori, nel mio questa regola soffrirà un’eccezione. Ti piacerebbe, a te, che io gli dessi dell’asino, del mentecatto e dello sfrontato; ma non mi passa per l’anticamera del cervello: che lo punisca il suo stesso peccato, si cuoccia col proprio brodo e buon pro gli faccia. Ciò di cui non ho potuto fare a meno di addolorarmi è che mi si faccia colpa d’essere vecchio e monco, come se io fossi stato in condizione di poter fermare il tempo, perché per me non passasse mai, o come se la mia storpiatura avesse avuto origine in una taverna e non invece nella piú alta circostanza che abbiano visto i secoli passati, e i presenti, e che vedranno i futuri. Se le ferite mie non risplendono agli occhi di chi le guarda, godono almeno la considerazione di coloro che sanno dove furono ricevute; perché è meglio vedere un soldato morto in battaglia che salvo nella fuga, e questo è vero per me a tal punto, che se ora mi proponessero e mi rendessero possibile un miracolo, io preferirei piuttosto essermi trovato presente a quella leggendaria battaglia che non sanato ora delle mie ferite senza aver preso parte ad essa. Le ferite che mostra il soldato sul proprio viso e nel petto sono stelle che guidano gli altri uomini al cielo dell’onore e al desiderio della giusta lode; e si badi bene che non è coi capelli bianchi che si scrive, ma con l’intelletto, che suole perfezionarsi con gli anni. M’è dispiaciuto anche che m’abbia chiamato invidioso e che, come a un ignorante, mi venga a spiegare che cos’è l’invidia; di invidie ce n’è due, e in verità, io non conosco se non quella santa, nobile e indirizzata al bene; e se è cosí, com’è infatti, io non ci ho da perseguitare nessun sacerdote, tanto piú se per giunta è familiare del Santo Ufficio; e se l’ha detto per la persona per cui pare l’abbia detto, s’inganna completamente; perché di quella persona io adoro l’ingegno, ammiro le opere e l’instancabile occupazione al servizio della virtú.2 Ma tutto sommato, son grato a questo signor autore di aver detto che le mie novelle son piú satiriche che esemplari, ma che tuttavia son buone; e non potrebbero esserlo se non ci avessero di tutto.
Tu forse vorresti dirmi, o lettore, che mi contengo molto, e che sto troppo nei limiti della mia modestia, sapendo che non bisogna aggiungere mortificazione a uno che è già mortificato, e quella che deve avere questo signore è senza dubbio assai grande, poiché non osa mostrarsi a campo aperto e alla luce del sole, nascondendo il proprio nome e camuffando la propria patria come se avesse commesso un tradimento di lesa maestà. Se per caso ti capitasse di conoscerlo, digli da parte mia che non mi sento affatto insultato; che so bene quello che sono le tentazioni del demonio e una delle piú grandi è quella di mettere in testa a un uomo che può scrivere e stampare un libro con cui guadagnare tanta gloria quanto danaro e tanto danaro che gloria; e a conferma di ciò, voglio che tu col tuo spirito e la tua grazia gli racconti questa novelletta:
C’era a Siviglia un pazzo che fu preso dalla piú buffa e assurda mania che poté mai avere alcun pazzo al mondo: si fece di una canna un cannello aguzzo in punta e se acchiappava un cane per la via, o in un altro posto qualunque, con un piede gli teneva ferma una zampa, con la mano gli alzava l’altra, e come meglio poteva gli applicava il cannello in un certo posto, soffiando nel quale, lo faceva diventare tondo come una palla; quando l’aveva cosí combinato, gli dava con la palma della mano due colpetti sulla pancia e lo lasciava andare, dicendo ai circostanti, che erano sempre parecchi:
– E che si credono lor signori che è un lavoro da nulla gonfiare un cane? – E lei, crede forse che sia un lavoro da nulla scrivere un libro?
E se questo raccontino non gli andasse a genio, gli potrai riferire, amico lettore, quest’altro, che pure tratta d’un pazzo e d’un cane:
C’era a Cordova un altro pazzo che aveva l’abitudine di portare sulla testa un pezzo di lastra di marmo o un sasso non tanto leggero, e se incontrava qualche cane distratto, gli si metteva accanto e gli lasciava cadere a piombo quel peso; il cane s’arrabbiava e gettando latrati e guaiolii spariva lasciandosi dietro parecchie strade. Capitò che fra i vari cani su cui scaricò il suo peso ci fu il cane d’un berrettaio a cui il suo padrone era affezionatissimo. Piombò il sasso, lo colpí in testa, il cane colpito levò un urlo, lo vide e lo sentí il padrone, prese una bacchetta per misurare stoffe, si gettò sul pazzo e non gli lasciò un osso sano, e a ogni bastonata che gli dava, gli diceva:
– Cane assassino, al mio levriero? Non hai visto, canaglia, che era un levriero il mio cane?
E ripetendogli per diverse e svariate volte la parola levriero, lasciò il pazzo ridotto a salciccia. Il pazzo si spaventò e scomparve, e non si fece vedere per piú di un mese, ma dopo questo termine rispuntò di nuovo col suo giochetto e con un peso piú grosso. Si avvicinava dove c’era un cane, stava lí a guardarlo fisso, poi senza azzardarsi minimamente a scaricar la pietra, diceva:
– Attento, che è un levriero!
Insomma, tutti quanti i cani che incontrava, anche se erano alani o botoli, lui diceva che erano levrieri, e in questo modo non lasciò piú cadere il sasso. Lo stesso potrebbe forse accadere a questo storico, che non si azzarderà a scaricare il peso del suo ingegno in libri cosí cattivi da riuscire piú duri d’un macigno.
Digli inoltre che della minaccia che mi fa, di togliermi il guadagno con il suo libro, me n’importa assai poco, perché, come nel famoso intermezzo La Perendenga, posso rispondergli: «Viva il Ventiquattro mio signore e Dio sia con tutti»3. Viva il gran Conte di Lemos, la cui ben conosciuta umanissima generosità mi sostiene in piedi contro tutti i colpi della mia scarsa fortuna, e viva la somma carità dell’illustrissimo di Toledo, don Bernardo de Sandoval y Rojas, dopo di che possono anche non esserci piú stamperie al mondo, o stamparsi contro di me piú libri di quante lettere ci sono nelle strofe di Mingo Revulgo4. Questi due principi, senza che li solleciti alcuna mia adulazione né altra specie di lode, soltanto per la loro bontà, si son presa la cura di farmi del bene e aiutarmi; e in ciò mi considero piú fortunato e piú ricco che se la fortuna, per la via ordinaria, mi avesse innalzato al suo culmine. L’onore può averlo il povero, non il vizioso; la povertà può recar nuvole sulla nobiltà, ma non offuscarla del tutto; ma quando la virtú esprime da sé qualche bagliore, pur fra i disagi e gli spiragli della ristrettezza, viene subito stimata dagli alti e nobili spiriti e, conseguentemente, favorita. E altro non dirgli, né io a te voglio dire altro se non avvertirti di considerare che questa seconda parte del Don Chisciotte che ti offro è tagliata dallo stesso artigiano e dallo stesso panno della prima, e che in essa ti mostro don Chisciotte continuato e, infine, morto e sepolto, affinché nessuno si azzardi piú a produrgli nuovi testimoni, perché bastano i passati, e basta pure che un uomo rispettabile abbia dato notizia di queste ingegnose follie, senza volercisi di nuovo immischiare; che l’eccesso nelle cose fa sí che se anche son buone non si stimino piú, e il loro difetto fa che in certo qual modo si stimino, anche se cattive. Mi stavo scordando di dirti di aspettarti presto il Persile, che sto già terminando, e la seconda parte della Galatea5.
1 Nel 1614, nove anni dopo la pubblicazione della prima parte del Don Chisciotte, ne usciva una seconda parte apocrifa stampata a Tarragona, il cui autore si nascondeva sotto lo pseudonimo di Avellaneda. Nonostante tutto un infittirsi di ipotesi sulla sua identità, questa è rimasta tutt’ora avvolta nel mistero. S’è creduto che potrebbe essere stato Lope de Vega, o Ruiz de Alarcón; e s’è arrivato persino a sospettare dello stesso Cervantes. Infine Menéndez y Pelayo aveva indirizzato le sue ricerche verso il nome di Alfonso Lamberto. Ad ogni modo, chiunque ne sia stato l’autore, questo falso amareggiò moltissimo don Miguel, già avanti negli anni e con poco altro tempo di vita. Bisogna tenere presente che egli non era pei suoi contemporanei il sommo scrittore che è per noi, e questo rendeva incalcolabilmente piú grave il furto del suo personaggio, anche se ad opera d’uno scrittore che non poteva stargli certo alla pari. (Negli ultimi tempi c’è stata nei riguardi del Don Chisciotte di Avellaneda una corrente rivalutatoria).
2 II falso Avellaneda aveva perfidamente accusato Cervantes di aver voluto offendere un famoso autore ed ingegno spagnolo, e per giunta familiare della Santa Inquisizione. Sebbene non ne facesse il nome era fin troppo chiara l’allusione a Lope de Vega. Qui Cervantes, anche lui senza far nomi, respinge l’accusa, protestando con una sferzante e fondata ironia la propria ammirazione non solo per le opere e l’ingegno di Lope de Vega, ma anche per le sue virtuose occupazioni: quando si sapeva bene (e restano a dimostrarlo le sue lettere al Duca di Sessa) che oltre a vivere egli stesso una vita dissoluta, nonostante l’ordine sacerdotale, Lope de Vega prestava (non metaforicamente) servigi da mezzano presso i grandi.
3 La Perendenga è un intermezzo di cui la sola notizia rimasta è il titolo. I Ventiquattro erano i consiglieri della amministrazione civica.
4 Antiche strofe di autore sconosciuto che in forme di allegorie pastorali erano una satira del regno di Enrico IV di Castiglia.
5 La seconda parte della Galatea non vide la luce e andò perduta.

CAPITOLO PRIMO

Della conversazione che ebbero il curato e il barbiere con don
Chisciotte a proposito della sua malattia.

Racconta Cide Hamete Benengeli nella seconda parte di questa storia, e terza uscita di don Chisciotte, che il curato e il barbiere stettero quasi un mese senza vederlo, per non rinnovargli e riportargli alla mente le cose passate; ma non per questo cessarono di far visite a sua nipote e alla governante, raccomandando loro di trattarlo bene, di dargli da mangiare cibi ricostituenti e appropriati al cuore e al cervello, dai quali derivava, per buona logica, tutta la sua disgrazia. Esse assicurarono che era proprio quello che facevano, e avrebbero continuato a farlo, con la massima diligenza e buona volontà, perché si accorgevano che a sprazzi il loro signore dava segni di stare completamente in sé; dal che i due trassero una viva soddisfazione, sembrando loro che avessero fatto proprio bene a riportarlo incantato sul carro dei buoi, come si è narrato nella prima parte di questa cosí grande quanto autentica storia, nell’ultimo capitolo; e decisero quindi di fargli visita e di mettere alla prova il suo miglioramento, benché ritenessero quasi impossibile che migliorasse davvero, e si misero d’accordo di non toccarlo in nessun punto della errante cavalleria, per non mettersi a rischio di scucire quelli della ferita, che erano ancora freschi.
Infine, l’andarono a trovare e lo trovarono seduto nel letto, con una veste da camera di baietta verde e un berretto rosso di Toledo; e stava cosí magro e incartapecorito, da sembrare diventato carne di mummia. Furono bene accolti da lui, gli domandarono della sua salute, e lui li informò di sé e di essa con molta saggezza e con eleganza di termini; e nel corso della loro conversazione si misero a parlare di ciò che chiamano ragion di stato e modi di governare, e chi emendava un abuso, chi ne condannava un altro, chi riformava un malcostume, chi ne bandiva un altro, e ciascuno dei tre si poneva a novello legislatore, da Licurgo moderno o da nuovo Solone; e rinnovarono a tal punto lo stato, che pareva proprio che l’avessero messo in una fucina e ne avessero tirato fuori un altro completamente diverso da quello che vi avevano introdotto; e don Chisciotte parlò con tanta intelligenza di tutti quanti gli argomenti che toccarono, che i due esaminatori credettero senza il piú piccolo dubbio che ormai si fosse completamente rimesso e nel pieno possesso delle sue facoltà mentali.
Alla conversazione si trovarono presenti la nipote e la governante e non si stancavano di render grazie a Dio vedendo il loro signore ritornato in sé; ma il curato, abbandonata la prima intenzione, e cioè di non toccarlo su argomenti cavallereschi, volle fare una ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Don Chisciotte della Mancia
  3. Introduzione di Vittorio Bodini
  4. Nota biografica
  5. Bibliografia essenziale
  6. Nota alle illustrazioni
  7. Il fantastico cavaliere don Chisciotte della Mancia
  8. Al duca di Béjar
  9. Prologo
  10. AL LIBRO DI DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA URGANDA LA SCONOSCIUTA
  11. AMADIGI DI GAULA A DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA
  12. DON BELIANIGI DI GRECIA A DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA
  13. LA SIGNORA ORIANA A DULCINEA DEL TOBOSO
  14. GANDALINO, SCUDIERO DI AMADIGI DI GAULA, A SANCIO PANZA, SCUDIERO DI DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA
  15. DALLO SPIRITOSO, POETA INTERPOLATO, A SANCIO PANZA E RONZINANTE
  16. ORLANDO FURIOSO A DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA
  17. IL CAVALIERE DI FEBO A DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA
  18. SOLISDAN A DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA
  19. DIALOGO FRA BABIECA E RONZINANTE
  20. Prima parte - del fantastico cavaliere don Chisciotte della Mancia
  21. Seconda parte - del fantastico cavaliere don Chisciotte della Mancia
  22. INSERTO FOTOGRAFICO
  23. Il libro
  24. L’autore
  25. Dello stesso autore
  26. Copyright