Dopo cinque mesi di matrimonio, durante i quali era andato innanzi alla meglio con traduzioni e lezioni private, al principio dell’inverno lo sposo trovò un posto di maestro in un paesello di montagna. Era una fortuna, il pane assicurato per sé e per la sposina, e tutti e due, contenti e fieri, si prepararono alla partenza.
Le loro due età, sommate, facevano un’età giovane. Si chiamavano Giorgio e Isabella.
Il paese al quale Giorgio era stato destinato era tutto fatto a gradini di roccia e di tufo, e le case senza intonaco parevano di lontano un brullo pietrame sparso lungo il dorso del monte, fino alla croce nera della Chiesa, in cima. Gli abitanti che li osservavano, curiosi e come diffidenti, si rintanavano presso il muro al loro passaggio, chiudendosi nello scialle o nel mantello. Era una strana gente, sospettosa e selvatica. Isabella, salendo alla sua nuova casa, pensò al bambino che già cominciava a vivere in lei e che sarebbe nato in quel luogo, e si strinse allo sposo, spaurita.
La loro casa era posta di fronte al paese, sopra un picco del monte, e per giungervi fu necessario attraversare viottoli erti e fangosi, in cui s’incontravano maiali e galline, dinanzi a capanne che parevano fatte di terra. Qui alla sposa mancarono le forze, e allora lo sposo se la prese in collo, e la depose soltanto sulla soglia del nido.
Nel cielo, attraverso un ammasso di nuvole oscure e rossastre, filtrava un sole velato che, correndo lungo i dirupi fino ad un torbido fiume, spargeva sulla roccia e sull’acqua una luce obliqua e come riflessa; in quella luce i pini e gli abeti, immobili, acquistavano strani aspetti di fantasmi. Via via che si avanzava la notte, il paesaggio pareva prepararsi al giungere delle streghe o delle bufere.
Dormirono stretti, finché le campane dell’alba corsero da una cima all’altra. Dalle finestre della loro povera casetta si vedeva un infinito e pauroso scoscendere di pietre e di acque, e nell’aria silenziosa arrivava fino a loro lo scroscio dei torrenti e il grido roco dei galli.
Giorgio calzò un paio di stivaloni chiodati, indossò un ruvido e pesante vestito, e se ne andò alla sua scuola. Venne la donna per le faccende, e Isabella, nella sua solitudine, avrebbe voluto parlare con lei, dirle parole umane ed amiche, come chi cerca un rifugio. Ma quella camminava muta per le stanze, col volto racchiuso nel suo fazzoletto nero. Aveva un volto oblungo e serio, dagli zigomi forti e le orbite profondamente incavate, e la sua bocca incolore pronunciava solo le parole indispensabili, in un dialetto che la sposina, intimidita, non capiva bene.
La casa, grande e quasi vuota, la opprimeva. Il pavimento era fatto di mattoni sconnessi; sulle pareti, malamente imbiancate a calce, apparivano chiazze di un bigio sudicio. Dal cielo annuvolato entrava una luce livida e tempestosa.
Quando anche la donna si ritirò, Isabella, rimasta sola, tentò di dare alla casa un’apparenza familiare, deponendo qua e là sui mobili i ninnoli e i ricordi cari che aveva portato con sé; ma la casa rimaneva per lei fredda ed estranea. Tentò di cucire o di leggere, ma la dominava una triste pigrizia, un senso disperato di abbandono, e nelle lunghe ore di attesa chiamava Giorgio con lamenti teneri ed infantili. Le pareva che egli fosse partito per un lungo viaggio e la lasciasse ingiustamente sola.
Scese la precoce notte autunnale, e, mentre ella sedeva, ancora sola, presso la lampada, udí all’improvviso un lieve rumore fra i carboni. Si volse da quel lato, e vide apparire un topo, che esplorava quella mezza tenebra avanzando il muso aguzzo. Gettò un grido, e il topo scomparve nel suo buco; ma lei, tremando per il ribrezzo, restava accoccolata sulla tavola, e singhiozzava di paura e di abbandono. In un frangente simile, nella sua casa materna in città, i fratellini si sarebbero subito messi alla caccia della bestia che spaventava la sorella; ma ora, tutto era cambiato. Ella continuò a gemere piano: – Oh, Giorgio! Oh, mamma mia!
Cosí la trovò il marito. Egli saliva dal viottolo nella buia e fredda notte, e alcuni piccoli esseri incappucciati seguivano il maestro a distanza, e si fermarono, parlottando, a dieci passi dalla soglia, quando egli entrò, finché si decisero a ridiscendere il monte. Erano scolari. Giorgio, vedendo sua moglie che piangeva, si precipitò su di lei.
– Come sei venuto tardi! – ella sussurrò, già consolata, – c’è un topo, là, nel carbone. Che paura!
Ed egli le diceva: – Hai le mani fredde. Non si scalda, questo camino? – E si mise in ginocchio, stanco com’era, a riattizzare la legna.
Ma a lei ora l’incubo del giorno sembrava lontano; anche la casa le appariva piú allegra e piú bella. Il fuoco dava una calda luce rossa alla cucina angusta e oscura, e il letto matrimoniale di legno scricchiolante li fece ridere.
Cosí cominciò la nuova vita. Le ore del giorno passavano lunghe e spente nell’attesa, finché il marito ritornava, seguito da un drappello di scolari che ora, fatti piú coraggiosi, lo seguivano fino alla soglia. Si fermavano lí con gli occhi bassi, bramosi di rendersi utili in qualche modo: – Signor maestro, – dicevano, – vuole che faccia della legna?
Ella non si curava di guardarli, presa dai suoi pensieri.
In un pomeriggio sereno e gelido, mentre se ne stava presso la finestra chiusa, volgendo pigre occhiate alle montagne su cui piovevano fasci di luci rosse, verdi e arancio, udí uno scalpiccio presso l’uscio. Era troppo presto per il ritorno di Giorgio, e quando ella guardò alla soglia, vide uno sconosciuto, alto e sorridente, che faceva un leggero inchino.
Era abbronzato, aveva intorno al viso una corta barba bionda e in testa un ampio cappello. Vestiva una giacca di cuoio imbottita di pelliccia che gli arrivava fin quasi al ginocchio, e reggeva un cavalletto pieghevole.
– Permette, signora? – disse. – Vorrei presentarmi. Si è cosí in pochi, quassú! Sono pittore, abito nello studio, lí di fronte.
E le mostrò col gesto un’immensa vetrata, in alto, abbagliante nel riverbero solare. Poi mormorò un nome straniero, che ella non capí.
– Sarò troppo audace se chiedo la loro amicizia? – egli seguitava. – Qualche volta ci si smarrisce, soli sul vuoto dei precipizi.
– Fra poco, – ella bisbigliò confusa, – quando tornerà mio marito... – E, tutta vergognosa e agitata, offerse una sedia al bizzarro straniero.
Egli aveva occhi ampi e fondi, di un turchino scuro quasi viola, e le parole comuni, dette con quell’accento che faceva pensare ai viaggi, acquistavano un significato magico, incantevole e pauroso nel tempo stesso.
– Sono venuto per pochi giorni, – disse, – per dipingere la montagna, – e subito la montagna apparve, piú alta, bianchissima, con le sue fenditure nere.
In quel frattempo rientrò Giorgio, e il nuovo amico fu invitato a pranzo. Isabella, felice della novità, si mise in faccende, e preparò la tavola ponendo nel centro un vaso con un ramo di pino.
Quell’uomo conosceva tutta la terra: le foreste in cui dalle piante, esuberanti per il caldo umido, prorompono i succhi, e i colori si versano con violenza per il cielo, sui frutti e sulle piume degli uccelli. E i luoghi imprigionati da un’eterna notte d’inverno, e le città, e le isole, e i linguaggi. Spesso i due giovani avevano sognato una simile vita.
Cosí ebbe principio la nuova amicizia. Con poche tinte mescolate e un pennello, l’uomo sapeva ricostruire sulla tela, in piccolo, ogni montagna, coi ghiacciai lucenti dai riflessi azzurrastri e gli abeti pungenti ed oscuri. Egli volle inoltre fare un ritratto alla giovane sposa. Sedevano nella cucina, dinanzi alla grande luce del giorno, e il volto modesto di Isabella riappariva sulla tela, come in uno specchio.
– Con la sua piccola persona e il suo piccolo piede, signora, – consigliava lo straniero, – lei sarebbe assai bella vestita di un chimono nero a fiori color arancio e spilli d’oro in testa, come usa nel Giappone.
Le dava spesso consigli intorno ai suoi riccioli e alle sue acconciature. La sera, si raccoglievano tutti e tre nella stanza da pranzo, e mentre Giorgio correggeva i compiti degli scolari, lo straniero parlava dei suoi viaggi passati e di quelli che avrebbe iniziato appena partito di là. Egli viaggiava per scoprire i segreti dei colori, che sono diversi in ogni luogo, a seconda del cielo, delle acque e dei riflessi. Scoprire il segreto dei colori è come, diceva, scoprire il segreto delle cose. Anche le creature, diceva, portano il segreto della loro anima nel colore della pelle, degli occhi e delle labbra e nella strana armonia che ne nasce.
Isabella, attenta, si rinchiudeva in camera e si guardava allo specchio; si acconciava i capelli in due trecce attorte intorno al capo, e si compiaceva di studiare il contrasto che facevano i suoi capelli di un castano fulvo vicino alla sua pelle color avorio. Poi guardava fuori, ed immaginava se stessa nell’atto di valicare quei monti ed altri ancora, e di attraversare i fiumi e le foreste.
Giorgio invece diventava sempre piú silenzioso, quasi piú vecchio, e non ascoltava i racconti dello straniero con l’entusiasmo dei primi giorni. Una sera anzi egli disse, ritto in piedi contro il camino: – Signore, quando dunque sarà finito questo ritratto?
E aveva le sopracciglia corrugate, nel dir questo, e nei tratti la durezza dei suoi padri contadini che lavoravano i campi nel Mezzogiorno.
Per questo o per altri motivi, la mattina seguente lo straniero partí. Si vide scendere per il viottolo col cavalletto e la cassetta dei colori, seguito da un montanaro che portava i bagagli.
Presto i bei rami di pino scomparvero dai vasi, nella casa di Giorgio e di Isabella, ed egli trovò, al suo ritorno, la sposa che piangeva di noia e di solitudine. Al suo arrivare, ella gli volgeva le spalle, come se lo straniero, unica distrazione di quei luoghi solitari, fosse partito per causa di lui. Ora lo straniero non pensava piú alle montagne, camminava per un mondo di splendidi colori, mentre i due sposi rimanevano là, imprigionati fra i dirupi e il cielo tempestoso.
Di notte, ora, Giorgio non poteva dormire. Udiva il respiro di Isabella, lo scroscio attutito dell’acqua, i misteriosi scricchiolii e sospiri delle tenebre. Poi si alzava, pallido, con una ruga sulla fronte.
Una sera, stanco, si addormentò nel correggere i compiti; le conversazioni di un tempo non si svolgevano piú fra loro. Isabella che, pigra, fingeva di leggere, nel vederlo dormire, si accostò.
Lo guardò con una timida ansia. Le sue braccia giacevano rilasciate sulla tavola, e le dita stringevano ancora una matita rossa. Nel sonno pesante e torpido, la ruga sulla fronte pareva piú fonda e nelle labbra ancora fanciullesche si vedeva una piega inquieta. I fogli coperti di buffe e sbilenche scritture erano corretti con diligenza: «I vilani semano il grano», ella lesse, e, su queste parole, severi segni turchini e rossi.
La mano che reggeva la matita era scura, piuttosto ruvida, con le unghie ben disegnate: «È stata questa grande mano – ella pensò con uno strano rimorso – a correggere quelle piccole parole, tutti quegli strafalcioni».
A notte, Giorgio si svegliò di soprassalto. Sua moglie piangeva. Egli si sollevò, preso da uno stringimento al cuore: – Perché piangi, Isabella? – domandò. E gli parve che il buio fosse una prigione da cui non si poteva fuggire.
– Ho fatto un sogno, – ella disse piano.
– Raccontamelo, – disse lo sposo, con una voce in cui il comando si univa alla supplica.
– Mi pareva – ella mormorò, con la voce soffocata dalle coperte – di vedere il bambino. Batteva all’uscio e mi chiamava: «Mamma!» Era appena arrivato qui, vestito come i pellegrini, con un mantello lungo, un cappuccio, e un bastone per appoggiarsi. Aveva il viso pieno di rughe per il troppo piangere: «Sono arrivato, – diceva, – sono io, un maschio. Ed ecco qua. Per uno straniero che non era niente per te, tu cuocevi i dolci e appendevi i rami di pino. E per me che sono un povero pellegrino, il tuo primo, il maschio, e che vengo da un paese tanto lontano, non hai preparato con le tue mani neppure una cuffia, neppure un mantello. Non hai pensato a fare la casa bella, per me».
– Isabella... – chiamò piano il marito. E non seppe che cos’altro aggiungere. La sposa scivolò verso di lui, fra le coltri pesanti, e gli appoggiò la testa sul petto.
– Oh, mio caro, – bisbigliò, – come batte forte il tuo cuore.
Pareva impossibile che, cosí piccola e fragile, quella vecchia avesse potuto vivere per tanto tempo. Il nipote piú grande era già un uomo robusto, e fu lui che la sollevò e la portò sul letto, quando d’improvviso, con un tonfo leggero, ella scivolò dalla sua sedia ad occhi chiusi. La figliastra si voltò con un breve grido, ma, essendo oramai grassa e lenta, si alzò appena e con fatica, accennò al figlio maggiore di occuparsi lui della vecchia. Ed egli ebbe la sensazione di sollevare un uccellino implume, tanto quel mucchietto d’ossa era lieve a portarsi.
Per un giorno e una notte ella rimase immobile, simile a chi riposa, nel suo modesto letto di ferro. Né le rughe, né il pallore, né le occhiaie profonde potevano distruggere la grazia quasi infantile di quel volto. Ella era sola; ed essendo ebrea, non aveva neppure il Crocifisso fra le dita.
Il giorno dopo fu portata via senza lagrime.
Non lasciava niente che non fosse da buttar via. Dopo qualche tempo, la nipote fu incaricata di far pulizia nella camera; ella frugò nella piccola valigia. Ne estrasse la lunga e logora giacca di seta, la vecchia biancheria rammendata, adorna di ricami, il buffo cappellino nero. Fra tali cose già note, trovò un velo su cui restò un momento dubbiosa. Era lilla, con un disegno di giacinti, e si sfaceva a toccarlo come una ragnatela; per questo fu dato al cenciaiolo insieme agli altri indumenti.
Cosí se ne andò Beatrice; e la storia della sua lunga vita era stata semplice.
Quand’ella aveva quindici anni, la famiglia era caduta in miseria. Questo significava, per lei e per sua madre, un lento andare verso giorni sempre piú umilianti e tetri, nella piccola città di provincia; e, per lei, la rinuncia ad ogni speranza di trovare un buon marito. A questo, sua madre non sapeva rassegnarsi; e si ridusse a vendere i pochi oggetti che ancora le restavano affinché la sua bella figlia non cessasse almeno di apparire elegante. Se la portava alteramente a spasso, come se il crollo delle sue ricchezze non fosse avvenuto; per quelle strette vie su cui cresceva l’erba, fra i grandi palazzi merlati, la figliola camminava ad occhi bassi sotto l’ampia cuffia piena di fiori. Le balze della sua veste si sollevavano appena al vento rinchiuso fra le alte mura, l’ombrellino si dondolava un poco fra le mani guantate, il piccolo piede faceva un passo dopo l’altro, paziente e docile.
E la madre, simile a lei nella grazia, atteggiava ad un sorriso le labbra, che, nel suo sconsolato singhiozzare notturno, si era tormentata coi morsi. Cosí tutti i pomeriggi; il tramonto cadeva fiammeggiando su quei vecchi castelli, sulla fortezza, sulla nuda Chiesa di pietra. Allora tornavano a casa; la madre spiando attraverso le ciglia chine credeva di leggere in tutti i volti incontrati, che a lei parevano di nemici, il trionfo, o peggio, la pietà.
In tal modo passavano gli anni. Alla fine un ricco mercante vedovo, che avrebbe potuto essere suo padre, chiese Beatrice in isposa. Beatrice gli fu data; l’uomo aveva una figlioletta della sua prima moglie, una bella e robusta bambina dai grandi occhi neri, e fu questa che accolse la matrigna al suo entrare in casa. Con un ostile e sprezzante sorriso delle sue labbra infantili l’accompagnò con la cameriera per mostrarle i vari luoghi della casa, e poi si allontanò con un salto.
La casa volgare, piena di tappeti e di ninnoli, guardava sopra una pianura fumosa, in cui si levavano fabbriche basse dai camini fumanti e neri. La sposina pareva fredda ed estranea; in realtà, era timida, e lo mostrava col suo violento e frequente arrossire. Ma né il marito, beone ed egoista, né la bambina, superba e maligna, erano in grado di capire i suoi smarrimenti e il suo stupore.
La nascita di un bambino portò qualche mese di felicità simile a un sogno nella vita di Beatrice; ma, figlio dell’uomo non piú giovane e poco sobrio, esso morí quando appena la madre aveva cominciato a sentire dalle sue labbra il balbettare di quelle sillabe, piú semplici del cinguettío dei passeri, che le madri ascoltano come una musica sempre nuova. Fu il primo e l’unico figlio di Beatrice. E visse tanto poco che la madre non poteva neppure consolarsi col ricordare, nella solitudine che seguí.
Pure, ella non disperava. Per la strana fiducia dei giovani, a lei sembrava che questo non fosse che un preludio, una preparazione alla vita vera, che la vita vera dovesse ancora cominciare e portarle chi sa quali rivelazioni. Col passare degli anni, la sua sensibilità intima si affinava, nel chiuso della sua anima i sogni ingrandivano e sbattevano le ali come uccelli prigionieri.
Una notte suonarono all’uscio, e le parve che il campanello avesse un suono diverso, beffardo e piú squillante. Il marito, colto al tavolino di una birreria da un malore già previsto dai medici, rientrava a casa sua col volto livido e stravolto, gli occhi sbarrati e immobili. Per lunghi mesi egli rimase, semivivo, nella sua poltrona; fu allora che il rancore soffocato della figliastra scoppiò; ella trattava Beatrice come un’intrusa, ricevuta per carità, nuda e senza un soldo com’era, nella casa di suo padre. Questo faceva capire con gli sguardi obliqui e rabbiosi, con le crudeli e pungenti allusioni. Beatrice impallidiva, ma non sapeva trovare le parole per rispondere.
Alla morte dell’uomo, si scoprí che al posto della creduta ricchezza non c’era piú che un tragico vuoto, e Beatrice conobbe ancora, quando già la sua giovinezza era finita per sempre, la quotidiana umiliazione della povertà nascosta. Quando la figliastra si sposò, a malincuore fu accolta nella sua casa.
Per trent’anni, docile e taciturna come era stata sempre, rimase in questa casa dove nessuno l’amava. Diventata vecchia, se ne stava immobile in una sua sedia nel cantuccio della cucina, e quasi gli altri dimenticavano che era lí, viva. Ella pareva pensare a qualche cosa che la rendeva assorta, ma forse non era che un’apparenza; e forse anche la sua vita era soltanto apparente.
In tanti anni, nessuno le disse mai una parola d’affetto, nessuno cercò di capire che vita, quali pensieri si nascondessero dietro quel suo silenzio. Una sola volta una serva loquace ebbe da lei una confidenza; e fu cosí.
Beatrice era già vecchia, ma ancora sana, sebbene incurvata un poco, e pallida. Ella rimaneva quasi sempre in cucina, ad aiutare la cuoca nella preparazione dei cibi. Era stata assunta come cuoca una ragazza florida, piena di allegria e di speranze, che, come disse subito a Beatrice, faceva l’amore.
Parlava di questo suo amore come di una cosa non mai vissuta da alcuno, veramente indicibile e unica. Impallidiva e arrossiva nel parlarne, le sue mani si agitavano mentre mescolavano i pasticci. Veramente all’arrivo di questa ragazza, la cucina si era animata in modo nuovo e misterioso.
Perfino Beatrice sembrava meno rinchiusa in se stessa, e meno silenziosa. Forse anche perché la ragazza, nella sua felicità, era con lei piú affettuosa, ed ella, dopo la morte di suo padre e di sua madre, non era mai stata amata da alcuno. Questa ragazza, un giorno che erano sole in cucina, le disse:
– E lei, signora, prima di prender marito, quand’era piú giovane, non ha mai fatto l’amore?
Beatrice rimase un momento senza rispondere; poi arrossí come quando era giovane, e i suoi occhi brillarono un attimo. Infin...