Underground
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Underground

Racconto a più voci dell'attentato alla metropolitana di Tokyo

  1. 456 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Underground

Racconto a più voci dell'attentato alla metropolitana di Tokyo

Informazioni su questo libro

L'attentato del 1995 alla metropolitana di Tokyo - nel quale alcuni adepti del culto religioso Aum diffusero nei treni un potentissimo veleno, il sarin, causando dodici morti e migliaia di intossicati - ha scosso violentemente la coscienza collettiva dei giapponesi, prefigurando le nostre attuali paure. Attraverso una serie di interviste, sia agli affiliati della setta che ai superstiti, Murakami cerca di chiarire i motivi di un gesto cosí assurdo, e di comprendere che cosa possano aver provato e provino ancor oggi le vittime di quella tragedia: gente comune, che ha vissuto un incubo impossibile da dimenticare.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806206581
eBook ISBN
9788858408179
Argomento
Storia

Parte Prima

Underground

Prefazione

Un pomeriggio ho preso in mano una rivista che si trovava sul tavolo e ne ho sfogliato a caso le pagine. Letti sommariamente alcuni articoli, ho dato un’occhiata alle lettere che l’editore aveva scelto di pubblicare tra quelle inviate dai lettori. Non ricordo perché l’abbia fatto. Una semplice curiosità, credo. O forse avevo del tempo da perdere. Mi succede raramente di interessarmi a una rivista femminile, o di leggere la rubrica della corrispondenza.
Una delle lettere era di una signora il cui marito aveva perso il lavoro a causa dell’attentato al sarin1 nella metropolitana di Tōkyō. L’uomo si stava recando in ufficio, quando per sfortunata coincidenza era rimasto intossicato dal gas. Trasportato privo di sensi all’ospedale, era stato dimesso dopo alcuni giorni, ma per colmo di sventura l’intossicazione gli aveva lasciato dei postumi che non gli permettevano di svolgere il suo lavoro come prima. All’inizio tutti avevano chiuso un occhio, ma col passare del tempo superiori e colleghi avevano incominciato a mostrare irritazione e insofferenza. Incapace di sopportare oltre l’ostilità dell’ambiente, il marito della lettrice aveva finito col dare le dimissioni, ma praticamente – riteneva – era stato cacciato via.
Non avendo piú sottomano la rivista non ricordo le parole esatte, ma grosso modo il succo del discorso era questo.
Per quel che mi ricordo, non c’era nella lettera un pathos particolare. E nemmeno rabbia. Direi piuttosto che il tono era tranquillo, o forse ‘querulo’ rende meglio l’idea. Vi si avvertiva un senso di smarrimento, «perché mai è accaduto tutto questo?» sembrava chiedersi la lettrice. Quasi fosse ancora incredula, incapace di accettare quell’improvvisa, drammatica svolta del destino.
La sua lettera mi ha molto turbato.
Com’era possibile che fosse successa una cosa del genere?
Inutile dire che la ferita morale di quella signora mi addolorava profondamente. «Mi dispiace davvero», pensavo in tutta sincerità, pur rendendomi conto che le espressioni di rammarico non bastavano a risarcire nessuno.
Ma cosa potevo fare lí per lí, su due piedi? Con un sospiro ho chiuso la rivista e sono tornato alle mie occupazioni quotidiane e al mio lavoro. La reazione che avrebbe avuto la maggior parte della gente, presumo.
Passato qualche tempo, tuttavia, quella lettera mi è tornata in mente a proposito di non so piú cosa. Quel «perché mai…?» non se ne voleva andare dalla mia testa. Era una domanda cruciale.
Non bastava che le sfortunate vittime del sarin avessero subito le conseguenze pure e semplici dell’attentato? Perché dovevano anche patire ingiuste sofferenze ‘di secondo grado’ (in altre parole, la violenza generata dalla nostra iniqua società, che vediamo ovunque intorno a noi)? Nessuno poteva impedire che questo accadesse?
Ecco quanto sono venuto a pensare riguardo alla doppia violenza inferta a quel giovane e sfortunato impiegato: suppongo che la distinzione tra ciò che appartiene al mondo della normalità e ciò che non vi appartiene, che la gente di solito è in grado di fare, non significhi piú nulla per lui. Probabilmente non riesce a distinguere i due generi di violenza e a considerarli in termini di ‘estraneità’ e ‘appartenenza’. Anzi, piú ci pensa, piú si convince che i due episodi differiscono nella forma esteriore, ma sono in realtà della stessa natura, nascono entrambi da radici sotterranee.
Mi è venuta voglia di conoscere la donna che aveva scritto quella lettera – tutte le donne che avevano scritto delle lettere. Di incontrare personalmente suo marito – tutti i mariti. E di capire meglio come funzioni questo nostro sistema sociale, capace di infliggere una doppia ferita di tale gravità.
Poco dopo ho preso la decisione di intervistare le vittime dell’attentato al sarin nella metropolitana. Ovviamente la lettera di quella lettrice non è la sola ragione che mi ha indotto a scrivere questo libro; alcuni gravi motivi personali già mi inducevano a farlo. È stata solo l’occasione determinante. Ma di questo vorrei parlare con calma in seguito. Per il momento, vi lascio alla lettura.
Queste interviste sono state effettuate nell’arco di un anno, tra l’inizio di gennaio e la fine di dicembre del 1996. Ho incontrato personalmente le persone che hanno accettato di rispondere alle mie domande e ho parlato con loro per un’ora e mezzo o due, registrando la conversazione. Questa era la durata media delle interviste, anche se in alcuni casi esse si sono protratte fino a quattro ore.
Ho poi affidato i nastri registrati a un tecnico che li ha sbobinati e trascritti su un computer, parola per parola, eliminando solo il materiale inutile al nostro obiettivo. Naturalmente a volte il testo risultava troppo lungo. Oppure, come accade nella maggior parte delle conversazioni quotidiane, il filo del discorso saltava di palo in frasca e si perdeva per strada, per ritornare all’improvviso al punto di partenza. Una volta raccolto tutto questo materiale, l’ho selezionato, riordinato, tagliato e incollato. L’ho reso piú leggibile e ne ho ridotto opportunamente la lunghezza. Quando dal solo sbobinamento non riuscivo a cogliere qualche sfumatura, riascoltavo la registrazione e verificavo i punti in questione. Tre volte mi è successo di trascrivere alla lettera le parole del mio interlocutore.
Solo una persona ha rifiutato che l’intervista venisse registrata. Per telefono avevo spiegato che era mia intenzione farlo, ma quando, arrivato sul luogo, ho estratto dalla cartella il magnetofono, l’uomo mi ha detto che non gli avevo mai parlato di registrazioni. Ho dovuto rassegnarmi a prendere nota volta per volta delle cifre e dei nomi, per quasi due ore. Poi, appena tornato a casa, mi sono seduto alla scrivania e ho trascritto tutta la conversazione. Mi basavo soltanto sul mio ricordo e su alcuni appunti, ma sono rimasto sorpreso io stesso da quanto possa funzionare bene la memoria umana in caso di necessità. Ma forse per le persone che fanno interviste di continuo, per mestiere, è una cosa del tutto normale. Comunque è stata tutta fatica sprecata, perché poi non ho ottenuto il permesso di pubblicare quella fedele trascrizione.
Due ricercatori, Oshikawa Retsuo e Takahashi Hidemi, hanno collaborato al testo trovando per me le persone che sono poi riuscito a intervistare. In pratica i mezzi di cui si sono serviti sono due:
1) Scegliere a caso tra i nomi delle «vittime dell’attentato della metropolitana» riportati dai giornali e dagli altri media.
2) Chiedere in giro chi conoscesse «qualcuno che si fosse trovato coinvolto nell’attentato».
A dir la verità, l’impresa si è rivelata molto piú ardua di quanto avessi immaginato. All’inizio mi ero detto, ingenuamente, che non avrei avuto nessuna difficoltà a raccogliere commenti sull’accaduto, considerando che già solo nel mio quartiere il numero delle persone rimaste intossicate era elevatissimo.
Non esistevano elenchi esatti delle vittime dell’attentato, se non quelli in possesso degli organismi legali: la Procura e la Questura. Le quali, per ovvie ragioni di protezione della privacy, non li potevano mostrare a nessuno che fosse estraneo alle indagini. Lo stesso discorso valeva per la distribuzione delle persone in ogni ospedale. Tutto ciò di cui eravamo a conoscenza erano i nomi di quanti erano stati ricoverati, nomi pubblicati da tutti i giornali il giorno dell’attentato. Senza indirizzi o numeri di telefono però.
Tanto per cominciare, abbiamo stabilito una lista di settecento nomi e da lí, non conoscendo altro, abbiamo incominciato a muoverci. Di queste settecento persone, solo il venti per cento circa era identificabile con certezza. Perché nel caso di nomi molto comuni – «Nakamura Ichirō», ad esempio – era quasi impossibile risalire all’identità del soggetto. Comunque, delle centoquaranta persone con cui bene o male siamo riusciti a metterci in contatto, la maggior parte rifiutava di raccontare qualcosa. Con vari pretesti, del genere: «Non voglio piú ricordare quella faccenda», «non desidero aver piú nulla a che fare con Aum»2, «non ho nessuna fiducia nei mezzi di informazione». L’avversione e il sospetto nei riguardi dei media e dei loro tentativi di raccogliere testimonianze erano molto piú forti di quanto avessi immaginato, per cui succedeva di continuo che la gente mi sbattesse giú il telefono appena sentiva il nome di un editore. In conclusione, solo il quaranta per cento di quelle persone ha accettato di rispondere alle mie domande.
Col passare del tempo, man mano che i membri piú autorevoli del culto Aum venivano arrestati, la paura diminuiva, eppure molti rifiutavano ancora di essere intervistati. «Io non sono stato intossicato gravemente, – dicevano, – non ho molto da dire». Forse erano solo scuse per evitare di dare informazioni, ma non avevo modo di verificarlo. È anche successo, piú volte, che la persona in questione fosse piú che disposta a raccontare la sua esperienza, ma non potesse farlo perché i suoi familiari si opponevano. Volevano evitarle ulteriori coinvolgimenti. Se poi facciamo una suddivisione per settori professionali, è stato estremamente difficile avere la testimonianza di persone che lavorano nell’amministrazione pubblica o in campo finanziario.
La principale ragione per cui le donne intervistate sono poche è che risalire dal nome alla loro identità era difficilissimo. Inoltre – ma di nuovo è soltanto una mia supposizione – mi chiedo se tra le giovani non ancora sposate molte non fossero restie a rispondere a questo tipo di intervista. Alcune comunque hanno accettato, pur rivelandomi che lo facevano contro il parere della famiglia.
In conclusione sono riuscito a parlare con una sessantina di persone, dopo lunghe e faticose ricerche, benché, stando alle cifre ufficiali, circa tremilaottocento siano rimaste intossicate nell’attentato.
Dopo aver trascritto le interviste, ho inviato il testo agli interessati perché lo controllassero. Allegando un biglietto cosí concepito: «Se non ha nulla in contrario, abbiamo l’intenzione di pubblicare la testimonianza sotto il suo vero nome, ma nel caso lei non sia d’accordo, useremo un nome fittizio. Ci comunichi la sua scelta». Il quaranta per cento degli intervistati hanno optato per un nome falso.
Se nel testo c’erano delle parti che non volevano veder pubblicate – aggiungevo – che mi indicassero il piú dettagliatamente possibile in che modo dovevo riscriverle, o se andavano soppresse. Quasi tutti hanno trovato differenze piú o meno grandi con quanto avevano detto nel corso dell’intervista, ed espresso il desiderio di apportare modifiche o fare dei tagli.
Ho dunque modificato o tagliato secondo i desideri degli intervistati. In quanto scrittore me ne rammaricavo, perché le parti modificate o tagliate contenevano dettagli realistici che ben descrivevano la personalità o la vita della persona in questione. Ad ogni modo ho fatto come mi è stato chiesto, se non nei casi in cui le modifiche o i tagli avrebbero cambiato il senso del racconto.
Dopo aver apportato le modifiche concordate, per scrupolo ho rispedito il testo corretto agli intervistati perché effettuassero un secondo controllo. Se chiedevano altre rettifiche, e se c’era il tempo di farle, ho ricominciato da capo nella stessa maniera. Alcune persone mi hanno fatto ripetere l’operazione anche cinque volte.
Per quel che mi riguardava, non volevo in alcun modo irritare o amareggiare coloro che avevano accettato di portare la loro testimonianza. Anche per dissipare la diffidenza generale nei confronti dei media, nessuno doveva arrivare all’amara conclusione: «Non è cosí che doveva andare», oppure: «Io che ho avuto fiducia e ho collaborato, sono stato tradito».
Come ho già detto, alcune testimonianze sono state ritirate quando il testo era già pronto. Due erano importanti, avevano un significato profondo, e se devo essere sincero, eliminarle dal manoscritto già terminato per me è stato doloroso come effettuare un’amputazione sulla mia carne. Ma gli intervistati hanno detto no, e ho dovuto rassegnarmi. Fin dall’inizio, e per tutto il tempo, avevo raccolto le testimonianze nel rispetto assoluto della volontà degli interessati, anche se in alcuni casi avevo dovuto fornire molte spiegazioni e fare opera di persuasione. Davanti a un rifiuto netto però non restava che obbedire.
Questo per dire, in altre parole, che le testimonianze personali raccolte in questo libro sono del tutto spontanee.
A chi aveva accettato di figurare col proprio nome, a lavoro terminato ho chiesto conferma del suo consenso: «Rivelando la sua identità, deve attendersi una reazione maggiore da parte del pubblico, per lei non ci sono problemi?» Se la risposta era affermativa, sono andato avanti con la pubblicazione. A queste persone va tutta la mia riconoscenza. In un libro di testimonianze, di solito l’impatto è piú forte se chi parla usa il suo vero nome. Perché nel suo messaggio si sentono tanto piú forti le accuse, la collera, la tristezza, altri sentimenti ancora…
Non per questo però sono indifferente allo sforzo di coloro che hanno scelto un nome fittizio. Ognuno ha le proprie ragioni, ne sono perfettamente consapevole. Anzi, ringrazio ancora queste persone per aver risposto alle mie domande, nonostante i diversi problemi dovuti alle circostanze.
Riguardo alle interviste, la prima cosa che domandavo al mio interlocutore era il suo background personale. Dov’era nato, dov’era cresciuto, quali erano i suoi interessi, il suo lavoro, in che tipo di famiglia viveva… soprattutto sul lavoro chiedevo informazioni dettagliate.
Se ho dedicato tanto tempo e tanto spazio alla storia personale degli intervistati, è perché desideravo far emergere una loro immagine ben circostanziata, chiara e vivida. Non volevo che la persona in carne e ossa davanti a me diventasse una delle tante vittime senza volto – diventasse ‘uno di loro’. Le notizie sommarie e d’ordine generale, forse perché sono uno scrittore professionista, mi interessano poco. Mi affascina soltanto il modo di essere concreto, insostituibile, di ogni singolo individuo. Di conseguenza per tutta la durata delle interviste – un paio d’ore – mi sono concentrato nello sforzo di capire veramente, profondamente, quale tipo di persona mi stesse di fronte, e ho poi cercato di trasmettere fedelmente ai lettori le mie impressioni. In realtà spesso, per varie ragioni attinenti agli intervistati, di tutto questo nel libro non è emerso nulla.
Credo che la maggior parte dei media abbiano voluto focalizzare una sola immagine delle vittime: i «cittadini innocenti colpiti ingiustamente». Per spiegarmi meglio, se le vittime non hanno un’identità ben reale, è piú facile creare uno schema. Disegnare un quadro basato sul confronto classico tra il buon cittadino ‘vittima senza volto’ e il cattivo aggressore che invece un volto ce l’ha.
Per quanto mi è possibile, vorrei evitare queste formule stereotipate. Perché ogni singola persona che quella mattina si trovava in quelle carrozze della metropolitana ha la sua faccia, la sua vita, la sua personalità, la sua famiglia. Ha le sue gioie, i suoi drammi, le sue contraddizioni, i suoi dilemmi. E una storia che è la sintesi di tutti questi fattori. Il contrario non è concepibile. Avreste potuto esserci voi, lí, avrei potuto esserci io.
Questa è la ragione per cui innanzitutto volevo capire la personalità dell’uomo o della donna che avevo davanti. Indipendentemente dal fatto che volessi poi trasformare l’intervista in un testo o meno.
Una volta raccolte le informazioni personali, venivo al giorno dell’attentato. A questo punto, non c’è bisogno di dirlo, si entrava nel vivo della questione. Ascoltavo attentamente quanto raccontava il mio interlocutore, gli ponevo delle domande.
«Che tipo di giornata era quella per lei?»
«Che cosa ha visto lí, che cosa ha sentito, come lo ha vissuto?»
In alcuni casi: «Quali sofferenze fisiche e morali, le ha causato quell’evento?»
«Queste sofferenze si sono protratte anche in seguito?»
Nell’attentato, ogni persona è stata colpita in misura diversa. C’è chi non ha quasi riportato lesioni, altri disgraziatamente sono morti, altri ancora, gravemente intossicati, stanno seguendo un programma di riabilitazione. Molti sul momento non hanno avvertito nulla, ma in seguito hanno sofferto di postumi psicologici da trauma, e ne soffrono a tutt’oggi.
Ad ogni modo, nel raccogliere la testimonianza delle persone che il caso ha voluto si trovassero sul luogo dell’attentato e inalassero il sarin, non ho tenuto conto della gravità delle conseguenze che ne sono derivate loro. Ho semplicemente voluto riportare in questo libro la storia che mi hanno raccontato, per poco che potesse significare. Coloro che sono stati intossicati in maniera leggera ovviamente hanno potuto tornare piú in fr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Underground
  3. Parte Prima - Underground
  4. Parte Seconda - Nel luogo promesso. Underground 2
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright