REGISTA È malato di cuore lei?
GIORNALISTA No, no, facendo le corna!
REGISTA Peccato, perché se mi crepava qui davanti, sarebbe stato un buon elemento per il lancio del film. Tanto lei non esiste. Il Capitale non considera esistente la mano d’opera, se non quando serve la produzione. E il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio!
PIER PAOLO PASOLINI, La ricotta.
PROLOGO
Roma, una piazza non lontana dalla stazione Termini.
Un appartamento al terzo piano, soggiorno/studio molto «romano», divano e poltrone, un grande tappeto, scrivania ingombra di carte e libri.
Un uomo sui quarantacinque è seduto alla scrivania; sta guardando qualcosa alla televisione.
X (voce fuori campo dalla Tv) Come sempre poi, la persona ha influenzato il personaggio, e il personaggio, in qualche modo… si è fuso con la persona… e… e quindi, abbiamo iniziato a lavorare alla sceneggiatura e poi piano piano, a mano a mano che lui veniva coinvolto dalla storia, quasi inevitabbilmente, parlo soprattutto durante le riprese, in qualche modo diventava sempre meno attendibbile come sceneggiatore… Cresceva come attore, ma diventava sempre meno attendibbile come sceneggiatore… Forse si arrabbierà quando sentirà questa cosa. Però…
L’uomo preme un tasto sul telecomando; posa il telecomando sulla scrivania; è irritato; alla sua destra c’è una pila di libri; senza guardare, l’uomo prende il primo libro della pila, lo apre, legge muovendo le labbra1.
Pausa. Chiude il libro.
Schermo «a nero».
Posai i racconti di Poe sulla scrivania ingombra di libri. Tra tutti, perché proprio i racconti di Poe?, e, tra tutti i racconti di Poe, perché proprio Il barilozzo di Amontillado? Voi, che ben conoscete la natura del mio animo, non crederete mai che mi sia capitato in mano per caso. Eppure il libro era lÃ, sopra la sua scrivania, in mezzo ad altri libri, carte, giornali, riviste, matite, penne, quaderni, taccuini – quante parole per uno che a ogni momento afferma che le parole non sono importanti! E certo, per quanto mi riguarda, esso era là per caso, visto che essendo alla sua scrivania che ero seduto, era piú che probabile che fosse stato lui stesso a mettercelo; e quando, indignato per le sue parole, premetti il tasto «pausa», congelandolo in un’immagine fissa…
Curioso, pensai osservando attentamente il fotogramma, realizzando soltanto in quel momento che, com’è ovvio, si trattava della stessa scrivania: la stessa lampada, gli stessi libri, carte, giornali, riviste, penne, quaderni, taccuini, come in uno specchio. Della pila di libri accanto alla lampada accesa, voglio dire accesa sullo schermo, ma accesa anche nella realtà , potevo leggere chiaramente il dorso. Il terzo partendo dall’alto era appunto il primo volume dei racconti di Poe, lo stesso che ripresi in mano e di nuovo aprii, e di nuovo alla stessa pagina. Lo sguardo torna allo schermo: curioso anche che l’unica differenza apprezzabile consistesse esclusivamente in questo: nello schermo i racconti di Poe erano il terzo libro della pila accanto alla lampada, mentre nella mia realtà , ovvero nel presente, la mia mano li aveva trovati in cima alla pila. La mia mano, pensai, non la mia testa. Ma da quel momento in avanti, anzi da ora in avanti, sarà tutta un’altra storia.
Avevo sopportato come meglio avevo potuto le mille offese di X. Ma quando egli si spinse fino a insultarmi giurai vendetta. Non solo mi aveva insultato, ma l’aveva fatto pubblicamente. Di piú: l’aveva fatto pubblicamente e privatamente, direttamente e indirettamente. In quei cosiddetti contenuti extra, di cui sempre vengono corredati i film che escono in dvd, per una volta i contenuti extra c’erano davvero. Nell’epoca dell’opera d’arte riproducibile, anche gli insulti sono riproducibili: non solo mi aveva insultato a piú livelli, per cosà dire, ma l’insulto era a disposizione di tutti in ogni momento. Dietro le quinte, questo il titolo del contenuto extra. Materiale girato da un altro, com’è ovvio, ma montato da lui, e anche questo è ovvio. Il fatto che mi avesse tagliato quasi del tutto era già di per sé un messaggio. Poco male, non mi aspettavo nulla di meno. Nel cosiddetto mondo del cinema, ma anche in quello del teatro, se un attore dice qualcosa di diverso da «È un film che ho amato molto», e/o «Lavorare con il regista X è stata un’esperienza che mi ha arricchito come persona», e tutte le varianti possibili e immaginabili, di sicuro non lo dice in pubblico. Tutte quelle parole, che escono come code di rospo da quelle bocche attoriali, tutte quelle tirate sull’arte e sul mestiere, e le strette di mano, i baci, gli abbracci, tutto mira sempre a qualcosa, o a qualcuno. Le conferenze stampa, le interviste, i dietro le quinte, gli incontri col pubblico: tutto questo è lavoro d’attore. Cosa che non mi sento di essere. L’ho fatto, continuo a farlo, ma non lo sono. Ho fatto anche il geometra, il portiere d’albergo, il gelataio e una lunga serie di altri lavori, ma non mi sono mai sentito il lavoro che stavo facendo, non ho mai pensato: Ecco, sono un geometra, un gelataio, un portiere d’albergo eccetera. Mai usato il verbo essere. Facevo quel lavoro, lo facevo il meglio possibile, anche se non mi piaceva, anzi: da un certo punto in poi, da quando avevo capito che niente come fare al meglio, con tutti sé stessi come si dice, qualcosa che non ci piace, ci insegna qualcosa su noi stessi, cercavo di farlo il meglio possibile soprattutto quando non mi piaceva. CosÃ, posso dire di aver interpretato al mio meglio il ruolo di geometra, di gelataio, di portiere d’albergo e ora, di tanto in tanto, e con lo stesso atteggiamento, anche il ruolo d’attore. Gran bel lavoro, molto istruttivo per me. Il fatto che, per interpretare un personaggio, io mi ritrovi prima di tutto a interpretare l’attore che lo interpreta2, mi costringe a un doppio movimento estremamente interessante. Si tratta di liberarsi di se stessi, poi di essere se stessi, e di nuovo liberarsi di se stessi per poi di nuovo, davanti alla macchina da presa, o sulle tavole di un palcoscenico, essere se stessi. Chiaro come il cristallo. E non bisogna lasciarsi ingannare: malgrado le parole lo suggeriscano, non si tratta affatto di una ripetizione: il soggetto di cui ci liberiamo la prima volta, pur conservando una certa somiglianza di famiglia, non è lo stesso di cui ci liberiamo la seconda volta. L’attore prepara la presenza attraverso l’assenza3. La mia duplice assenza si traduceva dunque in un’altrettanto duplice presenza?, o ne rafforzava semplicemente l’apparenza? Quel che è certo è che ogni volta, set o palcoscenico che sia, mi ritrovo due volte assente. Forse per questo, come aveva detto X, a mano a mano che me ne rendevo conto, ero andato via via crescendo come attore, non certo perché mi fossi identificato in quell’essere disgustoso che non mi era mai piaciuto. Semplicemente, avevo cercato di dare a quel personaggio schifoso le sue ragioni. Non è forse questo che deve fare un attore? E che trasparisse dai suoi occhi quel «segreto potere dell’iniquità »4, quel male assoluto che, indipendentemente dalle motivazioni del soggetto che lo esplicita, risponde solo ed esclusivamente a se stesso perché esiste per se stesso. Il Male, alla cui presenza nel mondo io credo. Ma non c’era mai stata in me alcuna ambiguità : per quanto lo rendessi umano, e, in quanto essere umano, provassi nei suoi confronti una qualche vaga simpatia, tenerezza addirittura, lo stesso quell’uomo non mi piaceva, né c’era in lui alcuna traccia di genio. Era X a essere affascinato dalle sue azioni e dalla sua storia, non io. Per me era il solito cacciatore seriale disturbato. La specificità della sua perversione, il rapporto vittima/carnefice che instaurava con quella donna, peraltro consenziente, non mi interessava affatto, o comunque non mi interessava visto dalla parte di lui. X ne era profondamente ammaliato. Niente di strano: i registi sono tutti profondamente affascinati dal potere, altrimenti non sarebbero registi5. In piú, c’era che il carnefice agiva sulla sua vittima plagiandola al punto da farla cambiare fisicamente. Non parlano forse di questo tutti i suoi film? Non è quello che fa e che cerca di fare continuamente? Capisco. Conosco. È come una droga: dà assuefazione. In piú, c’era che la vittima era una donna. X odia le donne. Con quella storia tra le mani si era sfogato due volte: nella Realtà , vessando l’attrice, e sullo schermo, dove sembrava che fossi stato io a farlo. No, decisamente la cosa non mi piaceva. E ciononostante, malgrado non mi piacesse né la storia, che era una cosiddetta storia vera, basata su un altrettanto cosiddetto fatto di cronaca, né il personaggio, avevo accettato di collaborare alla stesura della sceneggiatura e, prima ancora di iniziare a scrivere, non appena X me lo chiese, avevo subito accettato anche di interpretare quel fastidioso personaggio; e naturalmente lo avevo interpretato nel corso delle riprese, altrimenti quando? E, altrettanto naturalmente, piú lo interpretavo, piú mi trovavo a mio agio a interpretarlo. Ma non mi ero mai minimamente identificato in lui. Le mie obiezioni non erano dunque dovute a una sempre maggiore immedesimazione della mia persona nel personaggio, visto che la mia persona due volte non c’era, bensà dalla mia interpretazione del ruolo di sceneggiatore – in questo caso un’assenza semplice per cosà dire, ruolo che interpretavo simultaneamente a quello di attore, con la sostanziale differenza che tanto mi piaceva il secondo, tanto detestavo il primo, e appunto per questo, fedele ai miei principî, cercavo di farlo ancor meglio. Ora, perché simultaneamente?, si chiederà qualcuno. In effetti, la logica vorrebbe che la sceneggiatura venisse prima del film. Non con X. Non necessariamente. Molto spesso ci trovavamo a «sceneggiare» direttamente sul set, cosa che mi impediva di adempiere al mio primo dovere in quanto attore, una delle prime cose, se non la prima, che avevo imparato, ovvero stare lontano dal set fino al momento dell’azione, e mi costringeva inoltre a entrare e uscire da me stesso in continuazione, e in tempi sempre brevissimi. E lo stesso non avevo mai minimamente confuso i ruoli. Anche X lo sapeva. Riguardai, ma soprattutto ascoltai di nuovo, lo spezzone di intervista che mi riguardava. Il fatto di elogiarmi in quanto attore, e di denigrarmi in quanto sceneggiatore, era stato un movimento molto astuto, una vera perfidia. Lo dico con ammirazione. Cresceva come attore. Diventavo bravo in quello che non era il mio mestiere, e naturalmente, anzi implicitamente, miglioravo grazie alla sua guida. Diventava inaffidabile come sceneggiatore. Venivo meno proprio là dov’era l’arte mia, non sapevo piú fare il mio lavoro, o quantomeno, se ero pur qualcosa come scrittore, non ero affidabile come scrittore di film. Ma c’è di piú: dicendo ciò che aveva detto, aveva rafforzato nello spettatore la tentazione di farsi delle opinioni su di me come persona, piuttosto che come attore, rischio sempre presente quando l’interprete è anche l’autore del testo, e ancora piú presente nel mio caso, visto che era la prima volta in assoluto che vestivo i panni di attore. Cosà facendo, a ben guardare, non mi aveva nemmeno elogiato come attore. Se lui, io, riesce cosà credibile come attore, è come se avesse detto, non è perché è un bravo attore, al contrario: è credibile proprio perché non interpreta, non ne ha bisogno: è lui. L’ho capito subito, appena l’ho visto. Certo, lui è uno scrittore; in effetti, all’inizio si doveva solo scrivere insieme, ma poi… Ah, il verbo scrivere, il modo in cui viene continuamente coniugato a vanvera. Un po’ come l’amore. Ci sono registi che scrivono, altri no. Fa una grande, grande e ancora piú grande differenza. Quelli che scrivono, da soli o in compagnia – la stesura di una sceneggiatura, e piú in generale la scrittura drammatica6, non è, come la prosa o la poesia, un tipo di scrittura che si pratica necessariamente in solitudine – sono in qualche modo risolti in quanto autori. Per i registi che non scrivono e si considerano, e pretendono di essere considerati, autori7, la cosa non è cosà semplice. E non è cosà facile distinguerli. Voglio dire: che scrivano o no, firmano comunque la sceneggiatura. Ma la cosa davvero grave è che molti di loro, e X tra questi, pur non avendo mai scritto una riga, sono convinti di aver scritto, altrimenti non potrebbero sentirsi pienamente autori. Quante volte, lavorando alla sceneggiatura, avevo sentito X usare espressioni come Sto scrivendo, Sono in fase di scrittura eccetera. E di quella sceneggiatura, né, come so, di tutte le sue sceneggiature, non aveva scritto una riga. Io stesso, inizialmente ingaggiato come sceneggiatore, avevo scritto ben poco,...