Respiravo bene, non sentivo assolutamente nessun tanfo e la parete alla quale mi appoggiavo era asciutta. Una tomba sana, davvero la migliore del cimitero di San Benedetto.
Con la schiena contro la parete e la coperta sui ginocchi, mangiavo castagne bianche. Nello sciogliere il collo del sacchetto un po’ di castagne mi erano cadute in terra ma io m’ero guardato bene dal raccoglierle. Tanto non le potevo vedere, erano finite nel buio, fuori dell’alone del lumino perenne che ardeva nell’angolo alla mia destra. Faceva un chiarore debolissimo e questo era un bene perché altrimenti scopriva ai miei occhi quello che io non volevo vedere, i pezzi di legno e di zinco ed il mucchietto di immondizie che io pensavo essere tutto ciò che restava della maestra Enrichetta Ghirardi morta nel 1928.
Le castagne bianche facevano un rumore secco quando le spezzavo tra i denti. Io dovevo temere tutti i rumori che potevo fare ed inoltre avevo l’impressione che nel chiuso della tomba ogni rumore si ingrossasse maledettamente. Cosà mi concentravo ad aspettare il momento che chissà come giudicavo il piú sicuro, chiudevo decisamente i denti intorno alla castagna, la spezzavo, poi restavo per un attimo sospeso ed infine mi mettevo a masticare.
Masticando guardai sú allo spiraglio che Giorgio mi aveva lasciato tirandomi sopra la grande pietra sepolcrale. Vedevo una fettina di un qualcosa grigio scuro che poteva essere il cielo come la volta del tempietto. Mi dissi che prima di calarmi in quella tomba avrei dovuto guardarmi meglio il cielo. Questa era una scorta come un’altra, come il sacchetto di castagne bianche, il bottiglione d’acqua, il lumino e la coperta che mi ero portato giú con me.
Mi ricordai di come era il cielo alla fine della battaglia di Castino, due giorni avanti. Da Castino si alzavano diciotto torri di fumo nero e il cielo sopra il paese era come il cielo sopra una grande stazione ferroviaria.
Poi, io e Giorgio e Bob eravamo partiti alla buona ventura, ma per partire avevamo aspettato che il Capitano sparasse il razzo bianco che significava si salvi chi può. Avremmo dovuto essere in quattro, perché Leo era sempre stato con noi. Ma Leo l’avevamo lasciato nelle mani del curato di Castino che la battaglia si era appena attaccata. Sulla nostra trincea era arrivata giusta una mortaiata dei tedeschi, e mentre il nembo svaniva io vidi Leo drizzarsi atleticamente in tutta la sua statura. Tendeva le braccia al cielo, emetteva un grido interminabile e l’occhio destro, simile a una noce di burro, gli scivolava giú per il cavo della guancia. Cosa ne aveva fatto Leo del suo occhio? L’aveva lasciato nel fango della collina di Castino o l’aveva raccattato e se l’era messo in tasca ravvolto nel fazzoletto?
I denti mi facevano già un po’ male, le castagne bianche sono troppo secche. Rimisi nel sacchetto quelle poche che mi restavano in mano e mi posi a sentir fuori. Non si sentivano passi sulla ghiaia del camposanto. Se anche si fossero sentiti, non era indispensabile che io mi spaventassi, poteva anche essere solo Giorgio. Me l’aveva detto Giorgio prima di lasciarmi: – Io non starò mai fermo, girerò sempre per tutta la valle e girando posso capitare qualche volta al cimitero.
Pensai a Giorgio e naturalmente il mio pensiero comprendeva anche Bob. Pensavo freddamente, freddamente come prima non mi era mai riuscito di pensare, ai miei compagni Giorgio e Bob. C’era voluto questo grande rastrellamento di novembre, essere dispersi eppur tenuti insieme come tanti grani di polvere in un vortice d’aria, andare in armi e a casaccio in cerca di un buco nella grande rete che ci avevano tesa nei quattro punti cardinali, per capire in pieno come eravamo simili noi tre e come non potevamo assolutamente andare d’accordo. Eravamo entrati insieme nel movimento quando i partigiani la gente li chiamava ancora i ribelli, eravamo tutt’e tre studenti d’Università , avevamo intelligenza e virilità pressoché pari. E nessuno voleva comandare né ubbidire all’altro, tra noi nessuna parola cadeva nel vuoto eppure non ne usciva mai niente di fatto. Perché non litigavamo mai e non ci davamo mai ragione. Siccome nei partigiani tutto si riduceva ad essere una questione di fregature, ciascuno di noi tre preferiva farsi fregare da un qualsiasi estraneo piuttosto che da uno degli altri due. Andavamo insieme, ma ognuno era responsabile per sé e per sé solo, della sua morte o della sua salvezza.
Fin dal principio, quando s’era trattato d’iniziare la ritirata, Bob aveva chiesto: – Da che parte prendiamo?
Era una domanda idiota, da uno che vuol fare il normale nel pieno del piú grande rastrellamento passato sulle Langhe. Gli avevo risposto io, senza pazienza: – Possiamo gettare un soldo in aria e se viene testa andiamo a nord e croce andiamo a sud. Cosa vuoi che conti piú la parte da prendere? Non capisci che hanno messo le griglie alle Langhe e noi ci siamo dentro come le scimmie allo zoo? – Intanto mi ero incamminato a sud e sentivo che Bob mi seguiva con della rabbia in lui verso di me. Credette di sfogarsi una prima volta dopo che avevamo fatto un po’ di chilometri senza incontrare o avvistare un cane né dei nostri né dei loro né borghese. Bob mi disse: – Non può essere la parte buona questa, perché ci siamo noi soli a passarci.
Ed io: – Invece questo è proprio il segno che è la parte buona. Piú pochi siamo e meno pericolo c è. Il pericolo sarà da quella parte dove passano in tanti. Credi che i tedeschi ne lascino perdere dei mille per prendere tre gatti come noi?
Giorgio mi diede apertamente ragione, ma Bob insistette: – E dove andiamo avanti cos�
– Andando sempre cosà diritti al nostro naso arriveremo in Liguria. E poi traverseremo il mare a piedi e arriveremo in Corsica. E se fa bisogno, andremo a piedi fino in Tunisia.
Io avevo scherzato per vendicarmi di Bob e lui mi guardò in modo da farmi capire che non sarebbe stato scontento se qualcosa, i tedeschi, mi avesse fatto rincrescere d’aver scherzato.
Poi arrivammo davanti a una cascina. Era come tutte le altre che avevamo passate, chiusa scura e muta come se la gente dentro fosse tutta morta, lunga rigida sul letto. Invece all’inferriata di una finestra a pianterreno si affacciò una donna e ci mandò una voce bassa ma violenta. Noi tre rimanemmo sulla strada a sentirla. Ci disse: – Guardate quel fucile e quella borsa sulla mia aia. È stato un partigiano a lasciarli lÃ. Non per voi che siete suoi compagni, ma è stato vigliacco. È una brutta cosa pericolosa, io non so dove nasconderla, non so nemmeno come prenderla in mano, ho paura che mi scoppi. Ho mio marito e mio suocero in un buco sottoterra. Se arrivano i tedeschi e mi trovano quegli affari sulla mia aia, il meno che mi fanno mi bruciano il tetto –. Poi si mise a piangere, un pianto liscio e continuo come il getto d’una fontana. Io andai sull’aia e raccolsi il fucile e la borsa delle munizioni. La donna cessò subito di piangere e mi chiese: – Sono sicuri i miei uomini sottoterra? Ci ho messo sopra del letame fresco, cosà se vengono i cani poliziotti annusano il letame, si confondono il naso e non sentono piú l’odore della carne cristiana.
– Chi ha detto che hanno anche i cani poliziotti?
– Tutti lo dicono che li hanno. Sono sicuri i miei uomini sottoterra?
– SÃ, stanno bene dove sono, – le risposi e tornai sulla strada. Mi misi il fucile sulla spalla sinistra e tesi avanti la borsa delle munizioni per vedere chi dei due se la caricava. Entrambi guardarono in terra e non fecero un gesto. Io entrai in un castagneto. Giorgio e Bob pensavano che io ci fossi entrato per fare un bisogno ed invece io ne tornai senza piú il fucile né la borsa. Non mi dissero niente e mi guardarono quel tanto che bastava per vedere che non avevo piú addosso quelle due cose.
Piú avanti Giorgio mi domandò: – Tu ti ficcheresti in un buco sottoterra?
Io scossi la testa in segno di no e Giorgio disse:
– Neanch’io. Io comincerei a pensare che non possono non trovarmi, il buco è mal nascosto, è una cosa ridicola come è mal nascosto, arrivano i tedeschi e se ne accorgono subito, scavano giusto, infilano una mano nel buco, mi tirano su per i capelli e mi fanno sporgere quel tanto di testa dove ci sta una rivoltellata, tanto io sono già sottoterra...
Io lo guardai, aveva la voce e la faccia di uno che si sente pian piano soffocare, agitava la testa come per scansare con la bocca un tappo messo là fermo per asfissiarlo. Io dissi a me stesso: «Considera bene che tipo è Giorgio».
Parlò Bob: – Noi siamo gente che ha la disgrazia di avere fantasia. Questo non è pensare, questo è fantasia. Ed è la fantasia che ci frega. Di questi tempi il piú forte è quello che ha meno fantasia, che non ne ha per niente.
Girai lentamente lo sguardo verso l’angolo dove avevo appoggiato il mio Thompson. Le sue parti metalliche splendevano al lume vicino con una ricchezza discreta, l’arma mi pareva un arredo sacro. Non potei fare a meno di sorridere. Mi ero ricordato del fucile buttato via sull’aia di quella donna e pensai che quando il rastrellamento fosse passato e noi vivi fossimo tornati ai nostri posti, ci saremmo guardati l’un l’altro e avremmo visto chi aveva conservata la sua arma e chi no. Io sarei tornato col mio Thompson sulle spalle e questo sarebbe bastato ad esimermi dal raccontare come avevo fatto a cavarmela. Ma sarei stato zitto? Non avrei detto orgogliosamente che per non finire in mano ai tedeschi mi ero ficcato di notte in una tomba, in una tomba del cimitero di San Benedetto con il morto dentro? Questo era un caso che nascondersi era un atto di enorme coraggio. Questo era il mio caso.
Bevetti un sorso d’acqua al bottiglione e poi tesi l’orecchio senza cogliere il minimo rumore. Allora guardai il cielo attraverso lo spiraglio. Aveva lo stesso colore dell’ultima volta che l’avevo guardato ed io capii che avevo già perduta la nozione del tempo. Al campanile di San Benedetto dovevano pur battere le ore, al meccanismo non importava niente che dappertutto nella valle ci fossero i tedeschi, scoccava le ore quando era ora, ma io non avevo sentito nessun tocco.
Mi dissi che in fondo non mi sarebbe dispiaciuto poter parlare un po’ con Giorgio attraverso lo spiraglio. Però pensai anche che Giorgio avrebbe dovuto arrivare fino alla mia tomba e fare necessariamente del rumore con la ghiaia e che io mi sarei spaventato di quei passi prima di esser certo che erano i suoi. E poi pensavo che era meglio di no anche perché Giorgio poteva essersi stancato o spaventato di girare per la valle e adesso poteva voler scendere anche lui nella tomba della maestra Ghirardi. E Giorgio era proprio il tipo che poteva perdermi. Non era un vigliacco, l’avevo già visto in due battaglie alla battaglia di Alba e a quella di Castino, ma non sapeva aspettare, ecco, gli mancava quella che io chiamo la forza dell’attesa.
Giorgio era proprio il tipo che poteva perdermi, era già stato sul punto di perderci tutt’e tre poco prima che entrassimo nella valle di San Benedetto.
Andavamo a sud avendo alla destra il torrente Belbo e un po’ per stanchezza e un po’ per rassegnazione non facevamo molta attenzione intorno. Fu Bob che mi toccò col gomito perché mi voltassi a guardare con lui. Dalla cresta della collina a sinistra spuntavano elmetti come funghi. Poi i tedeschi si erano affacciati a persona intera, ma tenevano ancora le armi basse. Sia noi che loro siamo stati un attimo a fissarci come conoscenti vaghi che da un marciapiede all’altro aguzzano gli occhi e non si decidono a salutare. Ci siamo resi conto noi prima di loro e c’eravamo già slanciati verso il torrente prima che loro ci puntassero con le armi. Fecero ancora in tempo a spararci ma non ci colsero e noi tre ci tuffammo di pancia in quei due palmi d’acqua gelida. Non volevamo fermarci lÃ, ma una forza che non era quella dell’acqua ci premeva i ginocchi sul fondo del torrente. Cosà nascondemmo la testa sotto le erbacce dell’altra sponda e aspettavamo che i tedeschi scendessero per ammazzarci a mollo. Vedremo il nostro sangue partirsi da noi sul filo della corrente. Invece quei tedeschi tirarono via per la loro collina. Io alzai la testa da sotto quelle erbacce e avevo la bocca aperta. Ma subito la richiusi perché subito vidi e capii. Sulla collina a destra, che strapiombava sul torrente, venivano altri tedeschi. Se ne venivano in fila indiana e senza fermarsi, uno dopo l’altro, gettavano giú bombe a mano. Esse cadevano pressapoco sulla sponda del torrente, tra i felceti, a intervalli abbastanza regolari. Uang! Uang! si avvicinavano. Giorgio aveva visto e capito quanto me, cercò di saltar via dall’acqua, ma Bob lo tenne giú, io lo aiutai e gli facemmo cacciar la testa sott’acqua. Doveva aver aperta la bocca per urlare perché intorno alla sua testa l’acqua ribollà violentemente. Anch’io e Bob cacciammo la testa sott’acqua, eravamo lunghi sdraiati sul fondo ma sentivamo che il nostro sedere emergeva.
Delle due bombe che ci riguardavano, una cadde troppo a monte e l’altra troppo a valle.
Ecco, Giorgio mi avrebbe fatto lo stesso scherzo se avesse sentito i tedeschi entrare nel camposanto e mettersi a girare tra le tombe. Eppure Giorgio dopo il fatto del torrente si comportò con noi esattamente come prima, come se nulla fosse successo, come se io e Bob non potessimo uscire a dirgli: «Tu, a momenti ci fai accoppare tutti».
Poi, quando arrivammo al paese di San Benedetto, ci accorgemmo che era domenica per via della gente che usciva da vespro. Erano tutte donne, dovevano avere i loro uomini nei buchi sottoterra, e ci guardarono mentre eravamo fermi al principio del paese e subito abbassarono gli occhi come se noi tre fossimo una visione impudica.
Andammo in giro per il breve paese per le strade vuote e col selciato risonante e le donne ci spiavano dalle fessure delle porte, al riparo degli spigoli delle finestre. Spesso noi ci voltavamo di scatto per sorprenderle, ma quegli occhi sparivano come i riflessi di uno specchietto sottratto rapidamente ai rag...