A volte uno sa quel che vuole fare o quel che deve fare o addirittura quel che pensa di fare o quel che farà quasi di sicuro, ma ha bisogno che in piú glielo dicano o glielo confermino o glielo mettano in discussione o glielo approvino, in un certo senso è una manovra che uno effettua per scaricarsi un po’ dalla responsabilità, per sfumarla o per condividerla, sia pure in maniera fittizia, perché quello che uno fa lo fa soltanto uno, indipendentemente da chi ci convinca o ci persuada o ci incoraggi o ci dia il benestare, o addirittura ce lo ordini o ce lo commissioni. Certe volte mascheriamo quella manovra da dubbio o da sconcerto, ci presentiamo davanti a qualcuno e gli giochiamo il bel tiro di chiedergli opinione o consiglio – il bel tiro di chiedergli o domandargli qualcosa –, e con questo otteniamo, come minimo, che la volta successiva che ci parliamo quel qualcuno ci interroghi su quello, che cosa è successo, com’è andata a finire, che cosa abbiamo deciso alla fine, se ci è stato o no di aiuto, se gli abbiamo dato retta o no. Con questo ormai è avvolto, se non irretito, se non legato. Lo abbiamo costretto a essere partecipe, sia pure soltanto come ascoltatore, e a esaminare la circostanza e a interrogarsi sulla sua soluzione; gli abbiamo fatto conoscere la nostra storia e adesso non potrà mai piú ignorarla o cancellarla; e gli abbiamo dato anche un certo diritto a interrogarci piú tardi al riguardo, o è una specie di dovere che gli abbiamo imposto: «Che cosa hai fatto alla fine, come l’hai risolto?», ci dirà quella volta seguente, e addirittura sembrerebbe strano, una mancanza di interesse o di cortesia, che non tornasse a parlare del caso esposto e al quale lo abbiamo costretto a contribuire con parole, o, se evitò di pronunciarsi o non si fece sfuggire una sola parola, con il semplice ascolto della nostra consultazione. «Non lo so, non posso e non devo giudicare, e oltretutto non lo voglio sapere», avrebbe ben potuto risponderci, e anche cosí avrebbe già detto qualcosa: con quella risposta ha detto che la faccenda non gli piaceva e che gli sembrava velenosa o torbida, che non voleva prendervi parte neppure come testimone auricolare, che preferiva non essere informato e nessuna opzione gli piaceva, che era meglio se non ne avessimo fatto nulla e che lasciassimo correre o ce ne distaccassimo; e che gli risparmiassimo il racconto, in ogni caso. Anche se uno dice «Non so» o «Non voglio sentire» già dice molto, non c’è scappatoia valida quando si domanda a qualcuno, neppure se si disinteressa né se tace si salva, perché con il suo silenzio sta già disapprovando o sconsigliando, molto piú che acconsentendo, contrariamente a quanto afferma il detto. Magari mai nessuno ci chiedesse nulla, e quasi non ci domandasse, nessun consiglio né favore né prestito, neppure quello dell’attenzione. Ma questo non succede mai, è un desiderio vano. Sempre ci arriva qualche domanda penultima, sempre rimane qualche richiesta in sospeso. Adesso ero io che avrei domandato, adesso avrei fatto la mia, in linea di principio compromettente per qualunque destinatario, tranne forse per quello che l’avrebbe ascoltata. Da lui avevo da imparare ancora parecchio, per la mia inquietudine e forse per mia disgrazia.
Verso sera telefonai a Tupra dalla camera dell’albergo, poteva toccare soltanto a lui darmi un consiglio, e istruzioni ad avere fortuna, farmi delle raccomandazioni e servirmi da guida, e oltretutto era il piú indicato per quel genere di questioni in cui parlare non basta; inoltre era il piú prevedibile, cioè colui che piú probabilmente mi avrebbe confermato che dovevo fare quel che credevo, o non mi avrebbe dissuaso da quel che dovevo. Calcolai che poteva già essere in casa a quell’ora, anche se in Inghilterra era una indietro, a meno che non fosse il giorno affollato e festivo e avesse reclutato tutti, compresi Branshaw e Jane Treves, per uscire in frotta. Composi il suo numero diretto e rispose una donna, tuttavia, sicuramente la silhouette attraente, antiquata (quasi una figura da clessidra), che avevo visto alla fine di quella notte di video, stagliata contro la luce di un corridoio, sulla porta del suo piccolo studio; se era sua moglie o la sua ex moglie, se era Beryl, lui avrebbe capito ancora meglio il mio caso.
«Come te la passi, Jack? Gentile da parte tua chiamare per dare notizie. O è per interessarti di me e degli altri? Ancora piú amabile, nel bel mezzo delle tue vacanze».
C’era un che di ironia nel suo tono, certo, ma colsi anche una certa allegria nel sentirmi, o era divertimento, con me ancora si divertiva. Preferii non fingere né ingannarlo al di là dei saluti.
«Ho una questione da risolvere qui, Bertie. Mi piacerebbe sapere che cosa te ne sembra, che cosa dovrei fare secondo la tua opinione». Lo chiamai Bertie per compiacerlo, per ben disporlo, anche se lui si sarebbe accorto di questo, e gli riassunsi la situazione senza giri di parole: «C’è un tale qui, – gli dissi. – Credo che picchi mia moglie, o la mia ex moglie, quel che sia, ancora non siamo divorziati, escono insieme non so da quando, probabilmente qualche mese. Lei lo nega, ma ancora adesso ha un occhio viola, e non è la prima volta che prende qualche bel colpo per incidente negli ultimi tempi, secondo la sua versione, certo. Questo me lo ha raccontato la sorella, che la pensa come me, per conto proprio. Non mi diverte affatto che i miei figli corrano il rischio di rimanere senza madre, queste cose non si sa mai come vanno a finire, bisogna troncarle alla radice, tu non credi? Insomma, non mi rimangono molti giorni per sistemarla. Mi piacerebbe risolvere la faccenda prima di tornare, l’inquietudine è insopportabile a distanza, e distrae molto dal lavoro. Non vorrei che lei si accorgesse del mio intervento, quale che possa essere, in ogni caso. Anche se sarebbe difficile che non sospettasse, dato che io sono qui in questi giorni, se risulta che a causa della mia azione il panorama cambia per lei, e di questo si tratta. Parlare con lui non avrebbe senso, negherebbe. Oltretutto non sembra un tipo pauroso, né un pusillanime, semmai tutto il contrario; comunque non è un De la Garza. Neppure ne ricaverei nulla se insistessi con lei perché lo ammetta, la conosco bene, è molto caparbia. E se pure ci riuscissi: la situazione non cambierebbe nella sua essenza, lei sta con lui malgrado tutto». Mi fermai. Quello che venne dopo mi costava di piú dirlo: «Dev’essere proprio cotta. Anche se non ce n’è stato il tempo, intendo dire di esserlo per davvero. Questo non succede in qualche mese, deve sedimentare. Immagino che sia la novità, il primo che mi sostituisce, l’illusione eccessiva, qualcosa di passeggero. Ma tutto dura finché dura, non so se mi capisci. E per adesso dura».
Tupra rimase in silenzio alcuni secondi. Poi rispose ormai senza ironia, ma neppure con molta serietà, c’era una certa leggerezza nel suo tono, come se il mio problema non gli sembrasse granché, o non vedesse la necessità di una soluzione complicata.
«E domandi a me che cosa devi fare? O che cosa mi domandi, quello che farei io? Tu lo sai bene a questo punto, Jack, quel che farei io. Immagino che la tua domanda sia in realtà retorica, e vuoi soltanto che ti rassicuri. Allora, ti rassicuro, ci mancherebbe altro. Se vuoi togliere il problema di mezzo, toglilo».
«Non sono del tutto sicuro di averti capito, Bertie. Già ti ho detto che parlare con lei non porterebbe da nessuna parte…» Ma non mi lasciò concludere la frase. Forse aveva fretta, o si era irritato a causa della mia lentezza (avrebbe potuto dirmi di nuovo «Don’t linger or delay, just do it»). Forse lo avevo trovato a letto con Beryl, o con chiunque fosse la donna che aveva accanto e per questo era lei che aveva risposto al telefono, perché era piú vicina, sopra o sotto, di fronte o di spalle, magari avevo interrotto una scopata, non sappiamo mai cosa succede dall’altra parte del filo, o meglio, quel che succedeva appena prima che si mettesse a suonare. Chissà quante volte avevo chiamato Luisa da Londra e lei magari era appena rientrata dopo aver incontrato Custardoy nel suo studio, o quante doveva essere presente lui nella sua stanza da letto, in casa mia, che la guardava parlare con me mezzo nuda, aspettare impaziente che ci salutassimo. Se l’andava a trovare. Poteva darsi di no, o soltanto di notte, a causa dei bambini. Io a loro non lo avevo domandato, ma d’altra parte loro non lo avevano nominato spontaneamente, di fatto non avevano nominato nessuno nuovo né estraneo.
«Look, Jack, just deal with him, – disse Tupra. – Just make sure he’s out of the picture». Quelle furono le sue parole in inglese, e a quel punto mi rammaricai enormemente che quella non fosse la mia lingua, perché non so per un anglofono, ma per me erano troppo ambigue, non riuscivo a comprenderle con la precisione che avrei voluto; se mi avesse detto «Just get rid of him» o «Well, dispose of him», sarebbe stato piú chiaro, anche se non del tutto: «Sbarazzati di lui» è quel che significa, e in fin dei conti ci sono molte maniere di sbarazzarsi di qualcuno, non soltanto facendolo secco; o forse se la frase fosse stata «Just make sure you get him off her back», oppure «… off your backs», avrei saputo che mi diceva «Accertati di toglierglielo da dosso», oppure «… che ve lo togliate tutt’e due di dosso», ma non mi sarei neppure sentito capace di tradurre quell’espressione in un’azione concreta e inequivocabile, perché vi sono molti modi di scrollarsi dalle spalle qualcuno, che è quello che direbbe l’inglese. Magari se quello che avevo sentito fosse stato «Just scare him away, scare him to death», e allora mi sarebbe risultato che mi raccomandava soltanto di metterlo in fuga con uno spavento di morte, come aveva fatto lui con De la Garza, non piú di questo, e trasformarmi al massimo in Sir Punishment e in Sir Trashing, mai in Sir Death né in Sir Cruelty. Ma quel che uscí dalle sue labbra fu piuttosto «Sistemalo. Accertati di tirarlo via dal quadro», letteralmente, o «… che rimanga fuori dal quadro», non so, la parola «picture» si sarebbe potuta intendere ugualmente come «disegno» o «ritratto» o «panorama» o «scena», o addirittura come «foto» o «film», tuttavia mi rimase l’idea letterale dell’inizio, quella di quadro o dipinto, bisognava tirar via Custardoy dal quadro, sopprimerlo da esso o metterlo da una parte, come il Conte di San Secondo al Prado, che era al di fuori della sua famiglia, isolato, senza potersi ormai piú avvicinare alla moglie né ai figli, nei secoli dei secoli. Se avesse avuto luogo quel breve dialogo in un episodio de I Soprano, o ne Il Padrino, avrei capito perfettamente che mi suggeriva o mi incitava a farlo fuori. Ma forse tra mafiosi vi sono già dei codici prestabiliti, nel caso possano essere oggetto di ascolti, che consentono loro di essere molto laconici nei loro ordini e anche cosí interpretati subito correttamente. Del resto, quello non era un dialogo di film né noi eravamo mafiosi né io stavo ricevendo un ordine, a differenza di altre volte con Tupra o Reresby o Ure o Dundas, ma solo un orientamento, il consiglio che avevo sollecitato. Però il linguaggio è difficile quando non si sa a cosa attenersi e lo si deve sapere sempre con precisione, perché quasi sempre è metaforico o figurato. Non ci dev’essere molta gente al mondo che dica apertamente «Kill him», o che in spagnolo dica «Mátalo».
Osai insistere un po’, anche se immaginavo che questo avrebbe potuto farlo spazientire. O meglio, formulai la mia domanda in tutta fretta prima che riagganciasse, quelle due ultime frasi sue mi erano suonate come una conclusione, quasi un commiato, quasi non avesse piú nulla da aggiungere, dopo quello. O come se lo avesse annoiato la mia richiesta, la mia piccola storia.
«Puoi indicarmi come, Bertie? – gli dissi. – Non sono tanto abituato come te a spaventare gli individui».
Sentii dapprima la sua risata paternalista, secca, lievemente spregiativa, non era una risata che avremmo potuto condividere, non era una di quelle che unisce gli uomini disinteressatamente tra loro, e tra loro le donne, e quella che tra donne e uomini può stabilire un vincolo ancora piú forte e piú teso, un’unione piú profonda, complessa, e piú pericolosa perché piú duratura o con maggiore aspirazione di durabilità, forse Luisa e Custardoy avevano questa, quella spontanea e inattesa, quella simultanea, dato che lui faceva ridere tutti quanti con facilità, a quanto sembrava. Quella di Tupra fu una risata di una certa delusione minore, d’impazienza, denti piccoli con una loro luminosità, gliel’avevo vista di persona altre volte. Poi mi rispose:
«Se davvero non sai come, Jack, allora vuol dire che non puoi farlo. È meglio che neppure ci provi, lascia che le cose seguano il loro corso. Lascialo fare, rinuncia a piegarlo, e che tua moglie se la cavi da sola, vedrai, ce la farà. Ma io credo che tu invece sai come. Lo sappiamo tutti sempre, anche se non siamo abituati. Altra cosa è che non vediamo noi stessi in quello. È questione di vedersi. E adesso ti devo lasciare. Buona fortuna». E interruppe la comunicazione, l’avevo prolungata un po’ io.
Non osai piú richiamarlo, dovevo accontentarmi di quel che avevo. «E che tua moglie se la cavi da sola, vedrai, ce la farà», questo mi era suonato come un rimprovero o un biasimo mascherato, come se in realtà mi avesse detto: «La stai abbandonando al suo destino, forse permetterai che l’ammazzino un giorno e che i tuoi figli rimangano orfani». Ed ebbe anche un’eco quest’altra frase: «È questione di vedersi». Quel che probabilmente aveva voluto dire era che l’unica maniera d’immaginarsi di fare quel che uno mai s’immagina di fare è mettersi a farlo, e allora uno si vede irrimediabilmente in quello, per forza si finisce vedendosi.
Subito dopo telefonai a un vecchio amico alla madrilena, cioè qualcuno con cui si è avuto un buon rapporto superficiale anni prima e che non si è piú frequentato dopo di allora: se con lui non si è avuto nessun attrito o discussione, nominalmente continua a essere un amico, anche se possiamo non avere avuto mai una conversazione con lui da solo, al di fuori del vasto e variabile gruppo che ci riuniva nel passato sempre piú remoto. Era uno di quei toreri con sostenitori fanatici che si ritirano e tornano nelle arene ogni pochi anni e poi si ritirano di nuovo – ormai non doveva essere molto lontano il giorno in cui si sarebbe dovuto tagliare definitivamente il codino –, e con il quale mi ero trovato in un’epoca della mia vita, insieme a Comendador e piú tardi (Comendador me l’aveva presentato, lui s’intrufolava in tutti gli ambienti), nelle partite a carte notturne, fino a ore molto tarde, che il Maestro organizzava in casa sua con membri della sua cuadrilla e qualche collega e ogni genere di intrusi, tra i quali io mi trovavo; vi sono toreri che non stanno neppure un minuto da soli e che oltretutto ricevono chiunque, se viene garantito da qualcuno di fiducia, sia pure di terza mano: l’amico di un amico di cui realmente è amico, e non soltanto alla madrilena. Era un uomo molto cordiale e gentile, anche sentimentale rispetto a qualunque tempo della sua vita passata, e quando gli chiesi di andarlo a trovare non soltanto non fece obiezioni né mostrò la minima esitazione dopo un decennio o piú di silenzio tra noi, e invece mi esortò ad andare al piú presto.
«Vieni oggi stesso, caro. Oltretutto si gioca stasera».
«Come ti andrebbe domani mattina? – gli domandai. – Starò qui per pochi giorni, adesso abito a Londra, e oggi devo andare a trovare mio padre, che sta discretamente, ha molti anni».
«Affare fatto, non se ne parli piú. Domani. Ma vieni verso l’una, per l’aperitivo. Stanotte finiremo tardi».
«È per chiederti un favore, – preferii anticipargli. – Un prestito. Non di soldi, me la cavo bene, non preoccuparti».
«Non mi devo preoccupare, dici, – mi rispose ridendo. – Tu non hai niente che mi possa preoccupare, Jacobito». Era uno di quelli che mi chiamavano Jacobo, non ricordo piú perché. «Stammi a sentire: qualunque cosa sia. Pure se mi dovessi chiedere il mio migliore traje de luces, ragazzo». Non seguivo molto l’attualità taurina, e tanto meno da Londra, ma ne dedussi che adesso doveva essere attivo. Sarebbe stato meglio che mi fossi informato un po’ prima di fargli visita, per non mancargli di rispetto con la mia ignoranza.
«Guarda, non ci sarà da andare troppo in là, – gli dissi. – Domani ti spiego».
«Tu vieni qui, ti guardi intorno e ti porti via da qui quello che vuoi, giovanotto». Davvero era un uomo generoso, non diceva per dire, era realtà. Si chiamava Miguel Yanes Troyano, il suo soprannome era «Miquelín» ed era figlio di un banderillero.
Il mattino dopo, al corrente dei suoi ultimi successi attraverso Internet, e con un regalo, mi presentai al suo immenso appartamento in quella zona che ai tempi della mia infanzia era conosciuta come «Costa Fleming», piú vicino a Chamartín, lo stadio per antonomasia, quello del Real Madrid, che a Las Ventas, la plaza de toros dalla cui porta grande era uscito portato in trionfo diverse volte. Avrei preferito parlare da solo con lui, ma questo sarebbe stato impossibile, era sempre in compagnia. Dato che già sapeva che gli avrei chiesto un favore e un prestito, aveva avuto la delicatezza, tuttavia, di non impormi troppi testimoni. Ma lí c’era il suo procuratore di sempre, lui non mancava mai, un uomo della sua età, taciturno, molto discreto, lo conoscevo poco ma da lungo tempo.
– Non so se il signor Cazorla si annoierà a sentire le nostre chiacchiere, Maestro, – dissi in un ultimo tentativo, se caso mai.
– Affatto, – rispose Miquelín sollevando due dita in aria; mi aveva ricevuto con un grande abbraccio e un bacio, come se io fossi un nipote. – Eulogio non si annoia mai, e se si annoia pensa, non è vero, Eulogio? Davanti a lui puoi dire tutto quello che vuoi, Jacobito, e lui non lo racconterà né ti giudicherà. Dimmi, in che cosa posso esserti utile.
Mi occorsero alcuni istanti per iniziare, la mia richiesta mi provocava una certa vergogna. Ma la maniera per vincere questa era formulare quella e ingoiare il boccone amaro. Tutto crea piú imbarazzo prima che dopo, e cosí pure che durante.
– Volevo sapere se mi potresti prestare una spada, un estoque dei tuoi, per un paio di giorni, immagino.
Vidi che non se l’aspettava e che Cazorla ebbe un sussulto, si tirò giú una manica. Portava un vestito, gilet compreso, di un grigio troppo chiaro, e gli sporgeva la punta di un fazzoletto dal taschino della giacca, un fiore all’occhiello, era della vecchia scuola. Ma lui non avrebbe parlato a meno che Miquelín non l’avesse invitato a farlo. Quest’ultimo accolse bene la sorpresa e rispose subito:
– Uno e due e tre, tutti quelli che vuoi, Jacobo. Adesso andiamo dove teniamo gli attrezzi e scegli quello che ti piace di piú, certo che non sono molto diversi. Insomma, e mi vorrai perdonare: se mi avessi chiesto dei soldi l’ultima cosa che mi sarebbe passata per la mente sarebbe stata domandarti per quale ragione li volevi; ma dài, una spada è ben piú curioso. Forse, per mascherarti?
Avrei potuto mentirgli, anche se mascherarsi soltanto con una spada non avrebbe avuto nessun senso. Avrei potuto inventare un’altra cosa assurda, che andavo a una becerrada10 privata, ma non mi sembrò giusto ingannare un uomo tanto buono, neppure credo che ci sarei riuscito. Immaginai che avrebbe compreso la mia causa e che neppure lui mi avrebbe giudicato.
– No, Miquelín. È per mettere paura a uno. Ha a che fare con mia moglie. Be’, con la mia ex moglie, ci siamo separati già da un po’ di tempo, anche se non siamo ancora divorziati –. Mi sforzavo sempre di mettere bene in chiaro questa cosa, me ne resi conto, come se avesse qualche importanza. – Me ne sono andato a Londra per questo, per non stare in giro da queste parti mentre lei si allontanava. Non so se è stata una grande idea, visto quello che mi sono trovato di fronte. Abbiamo due creature, un bambino e una bambina, e non voglio che corrano rischi. Quel tipo non può andar bene a nessuna, e tanto meno a lei.
Miquelín lo capiva, era sufficiente quello che gli avevo detto, lo vidi dal suo modo di ascoltarmi, come se annuisse assentendo. Non si metteva in discussione niente, gli amici erano amici e quali che fossero le loro faccende. Poi prese a ridere affettuosamente, divertito in parte, era un uomo dalla risata frequente, l’età non gliele aveva ridotte.
– Ma dove pensi di andare, tu, con una spada? – mi disse. – Hai sentito perché la vuole, Eulogio? Vediamo un po’ Jacobo, la userai o no? Gliela conficcherai fino in fondo o soltanto la punta? O gliela mostrerai solamente, sai che paura?
– Spero di non usarla, – risposi. Davvero non lo sapevo, avevo pensato soltanto all’effetto che avrebbe prodotto il vedere apparire quell’arma, secondo le disquisizioni di Tupra.
– Ma mio caro, tieni presenti due cose, Jacobo, ragazzo mio. Una, che l’estoque ferisce soltanto di punta, conficcandolo, e per questo bisogna prendere slancio se vuoi che davvero colpisca a fondo; di filo quasi non ne ha, per fare un taglio non serve. L’altra, che se quella spada può attraversare un toro, che pesa seicento chili, e gliela infili fino all’impugnatura quando non incontri un osso, immagina cosa fai in un uomo, lo lasci steso se appena ti scappa la mano. Tu vuoi correre un rischio cosí grosso? N...