Tutti, almeno una volta nella vita, affacciandosi alla finestra, hanno pensato di saltare.
Per qualcuno l’ossessione ritorna non appena si sporge. Bastano pochi metri d’altezza. Quando l’idea si fa largo nel cervello stringe le mani sulla balaustra del balcone o sugli stipiti della finestra per frenare l’impulso. L’attrazione per il vuoto è una specie di controvertigine. Solo pochissimi saltano per davvero, ma tutti, almeno una volta nella vita, affacciandosi alla finestra, hanno pensato di fare il salto.
Per non saltare bisogna rispettare i cicli del sonno e della veglia. Dormire in maniera regolare. Otto ore di sonno e sedici di veglia. Le ore di sonno sono le piú pericolose, ma durano meno. Le ore di veglia puoi riempirle con un’occupazione che ti toglie le forze e che ti manda a dormire con grande stanchezza. Io per esempio sono occupato dal discorso. Per tutto il giorno mi concentro sul discorso, penso il discorso, scrivo il discorso, provo il discorso. La sera sono stremato e la notte dormo.
Otto ore di sonno, sedici di veglia.
Il Negro Matto Africano invece no. Il Negro Matto Africano dorme cinque minuti ogni ora. Dorme cinque minuti, si sveglia, beve un caffè, sta sveglio un’oretta scarsa e poi si rimette a dormire per cinque minuti. Poi si sveglia, si beve il caffè, sta sveglio un’oretta scarsa e si rimette a dormire per altri cinque minuti. Eccetera. Totale: dieci minuti in due ore. Venti minuti in quattr’ore, mezz’ora in sei, un’ora piena su dodici. Nell’arco del giorno e della notte si fa due ore di sonno e ventiquattro caffè. Non saprei dirvi se dorme in questa maniera perché è matto, o è matto perché dorme in questa maniera. Saranno i caffè?
Il Negro Matto Africano dorme cinque minuti, poi si sveglia, prepara il caffè e aspetta. Dopo qualche minuto il caffè gli parla e dice gorgoglio nel gorgo, gorgoglio nel gorgo, gorgoglio nel gorgo.
Voi l’avete mai visto un negro, Mazzini?
Certo che l’avete visto, voi girate l’Europa, andate in Svizzera, in Francia, vivete a Londra che sarà piena di negri, vero Mazzini? E poi voi siete genovese e al porto di Genova di negri ne sbarcano tutti i giorni, vero? Lo so che uno l’avete visto anche a Roma nel 1849, nei giorni della repubblica romana. Com’era quel negro, Mazzini? Era alto? Era grosso? No, era piccolo, dicono. Un negretto col cappotto. Il cappotto era grosso e lo faceva sembrare ancora piú piccolo. C’aveva anche un cane. Si chiamava Guerrillo. Il cane dico. Mentre il negro era Aguyar. Andreas Aguyar. C’aveva tre zampe. Il cane, non il negro. Che avevate capito, Mazzini? Pensavate che era un’allusione sconcia? Mazzini, qui si fa la rivoluzione, mica si raccontano barzellette. Il cane Guerrillo era rimasto azzoppato in battaglia. Il negro invece era figlio di schiavi negri africani deportati in Sudamerica. Infatti lui era nato a Montevideo. Garibaldi l’aveva liberato e se l’era portato a Roma, vero Mazzini? A battagliare. E lui, il negro, c’aveva la corda, cioè il lazo e faceva la guerra con quello. Il negro, il cane e il lazo a Roma. Che storia, Mazzini!
Scusate Mazzini. Lo so che voi state pensando che io parlo del negro perché voglio perdere tempo, perché oggi non c’ho voglia di lavorare al discorso. E invece io parlo del negro col cane perché mi piacerebbe metterci pure lui nel discorso. È una figura secondaria, ma se vogliamo preparare un bel discorso dobbiamo curare anche i particolari. Ma andiamo con ordine e quando arriverà il momento di parlare del negro, parleremo anche di lui.
Perciò non perdiamo altro tempo e cominciamo a provare il nostro discorso.
Cittadini!
Giovanni Mastai Ferretti sta affacciato alla finestra della Storia. Con le mani strette agli stipiti vaticani guarda lontano per non saltare di sotto. Per non cedere anche lui alla controvertigine. È bello, ha fatto il soldato e s’è pure innamorato un paio di volte, dice lui, e a cinquant’anni lo fanno papa col nome d’arte Pio IX. È il 1846.
Affacciato alla finestra della Storia fa le amnistie per i reati politici, costruisce la ferrovia, apre le porte del ghetto e libera gli ebrei. Affacciato alla finestra della Storia gli piace sentire che nelle piazze lo chiamano il papa Carbonaro.
Passa due anni alla finestra della Storia, arriva il 1848 e per la precisione il giorno 12 gennaio che è il compleanno di Ferdinando II, il Borbone. E per regalo di compleanno insorge Palermo.
Giovanni Mastai Ferretti affacciato alla finestra della Storia vede Ferdinando II che traccheggia, è insicuro, prima concede la costituzione ai siciliani, poi s’incazza e bombarda Palermo e Messina. È per questo che i sudditi lo chiameranno re Bomba, vero Mazzini?
Mastai Ferretti spera che quella sia la prima e ultima rivolta che gli capiterà di vedere nella vita, ma intanto sente che alla finestra della Storia comincia a tirare un’aria fredda. E infatti insorgono Milano, Firenze e Torino. Scoppia la guerra contro l’Austria e partono i volontari da tutta la penisola. Carlo Alberto concede lo statuto ai piemontesi, il granduca Leopoldo scappa dalla Toscana, a Parigi il re si traveste e pure lui monta in carrozza e corre a Londra, cosicché in Francia nasce la seconda repubblica.
Un giorno di fine marzo Giovanni Mastai Ferretti sta affacciato alla finestra della Storia, vede i cittadini romani che se ne vanno a piazza Venezia e chiedono all’ambasciatore austriaco di togliere le insegne imperiali. L’austriaco si rifiuta, ma la folla le stacca lo stesso, le lega alla coda di un somaro, le trascina per via del Corso e le brucia in piazza del Popolo. È vero Mazzini? Quel giorno gli austriaci minacciano lo scisma. Perché erano cattolici, ma stavano a un passo dai luterani tedeschi, o no?
E Giovanni Mastai Ferretti affacciato alla finestra sente che la Storia è diventata una brezza gelida, una lama di coltello e forse di ghigliottina. S’accorge che s’è spinto troppo avanti, che gli manca un passo per fare il salto. La controvertigine, caro Mazzini! E affacciato alla finestra della Storia stringe le mani e si tira indietro.
Indietro, Mazzini. Niente salto. Peccato.
È che Giovanni Mastai Ferretti si mette paura di quella brezza sulla faccia. Invece noi, caro Mazzini, stiamo in equilibrio sulla Storia come il gatto sul cornicione. Ci stiamo proprio bene, ci piace questa lama di coltello. Come dite voi, che i giovani devono essere sospesi tra il birro e il palco. A noi c’hanno insegnato che l’equilibrio consiste nel rispettare i cicli del sonno e della veglia, in bilico tra il passo sicuro del gatto sul cornicione e il salto. L’equilibrio è la controvertigine.
I gatti c’hanno sette vite, vero Mazzini? Ma pure chi c’ha sette vite alla fine muore. Muore sette volte, ma non prima d’aver vissuto sette vite.
Invece Mastai Ferretti c’aveva una vita sola e sperava che fosse eterna. Si scusa con gli austriaci e consegna il governo della città a Pellegrino Rossi. Un professionista delle finestre chiuse in faccia alla Storia. Niente salti e niente controvertigini. E appena Pellegrino Rossi s’affaccia alla finestra della Storia per chiuderla, si becca subito una coltellata. Mazzini, è vero che quando a Roma si viene a sapere che l’avevano ammazzato si festeggiò?
Ma a quella festa non partecipa pure il papa. Perché dopo due anni che se ne sta affacciato, Giovanni Mastai Ferretti chiude la finestra, non vuole piú sentire quella brezza sulla faccia, monta in carrozza e scappa a Gaeta da re Bomba. Come si dice, Mazzini? Chi si somiglia si piglia.
Scappa il papa e arriva Andreas Aguyar, cioè il negro col cane, col lazo, con Garibaldi, eccetera. E allora sono i cittadini romani ad affacciarsi alla finestra della Storia. I cittadini e anche il negro col cane a tre zampe.
Perché è a questo punto del discorso che metterei il negro, caro Mazzini. È qui che direi: «Com’era quel negro? Era alto? Era grosso? No, era piccolo, dicono. Un negretto col cappotto. Il cappotto era grosso e lo faceva sembrare ancora piú piccolo. C’aveva anche un cane. Si chiamava Guerrillo. Eccetera eccetera…» Che ne dite?
Com’era davvero quel negro, Mazzini?
E com’era quel cane?
C’aveva davvero tre zampe?
Io il primo negro che ho visto in vita mia stava disegnato nella pagina dell’Africa sul libro di geografia. La copertina era a colori, ma le figure nelle pagine dentro erano tutte in bianco e nero. Non si capiva bene che era negro. Poteva pure essere un problema di inchiostro. Invece il primo negro che ho visto di persona l’ho conosciuto qua dentro. È il Negro Matto Africano che sta in galera da noi.
Sappiate che il Negro Matto Africano ha cercato di uscire due volte. La prima con l’intelligenza, la seconda con la forza bruta.
La prima volta si è travestito da guardia. Nessuno sa come sia riuscito a rimediarsi la divisa, né dove l’abbia nascosta. In genere queste sono cose che vengono messe insieme un pezzo alla volta. Pezzi piccoli di stoffa che puoi nascondere in un pugno o nella bocca o nel culo. Per farli passare come la robba che passa sotto alla porta o dal buco della chiave. Pezzi da ricucire in segreto, nella cella. Insomma, il Negro Matto Africano ha messo insieme questa divisa da guardia e in una maniera o nell’altra è riuscito ad avventurarsi fuori della cella. Era una guardia perfetta. Camminava come una guardia, ruttava da guardia e puzzava di guardia, ma l’hanno beccato lo stesso. E sapete perché? Perché è negro! Non sono razzista. Gliel’ho detto anche a lui: «Se eri nato e condannato in America li avresti fregati, caro negro». Qui in Italia da noi la galera è piena di negri, ma non fanno le guardie. Da noi i negri fanno i carcerati. C’hanno l’esclusiva.
La seconda volta che ha tentato la fuga, il Negro Matto Africano ha messo da parte l’intelligenza e ha sfruttato la forza primitiva dell’Africa negra. Anche se non l’ho visto, e l’avvenimento è avvolto dalla leggenda e perciò da ritenersi poco plausibile. Fatto sta che qui dentro lo raccontano cosà come lo riporterò di seguito. Non sono proprio sicuro sicuro sicuro sicuro sicuro che sia andata cosÃ. Diciamo che sono sicuro sicuro sicuro. Sono tre quinti sicuro, che è un risultato sufficiente come investimento nella certezza dell’accaduto.
Per prima cosa il Negro Matto Africano considera la traiettoria migliore per prendere la maggior velocità possibile. Traccia una linea immaginaria sul pavimento, si spoglia nudo mostrando tutta la sua bellezza e negrezza e prepara un intruglio a base di latte di topo femmina (ovvero succo di sorca) al quale aggiunge trito di artropode e urina di eroinomane, che la sola pronuncia degli ingredienti è una specie di formula magica. Condisce il miscuglio con sputo di Negro Matto Africano e mescola il tutto ripetendo le prime parole della fortunata canzone di Lucio Battisti Fiori rosa fiori di pesco c’eri tu, fiori nuovi, stasera esco, ho un anno di piú. Che secondo il Negro Matto Africano è la storia di uno che è finito in galera per un reato minore, dopo un anno esce e vuole scopare. Stessa strada stessa porta: l’indirizzo della mignotta.
Si unge con quell’olio simile al percolato di discarica, corre lungo la traiettoria immaginaria e sfonda entrambe le porte della cella. Il secondino resta immobile sulla sua sedia esterrefatto dalla magnificenza primitiva di un corpo di matto africano nudo potentemente lanciato contro il muro. Il fuggitivo infatti non teme l’impenetrabilità delle pareti carcerarie poiché la brodaglia che si è spalmato lo rende indistruttibile per minuti cinquanta. Il Negro Matto Africano sfonda dunque le pareti del carcere, le recinzioni col filo spinato ad alta tensione, tre gipponi della celere, una pensilina dell’autobus e un furgone con vendita non autorizzata di porchetta in sosta vietata. Unto e nudo, spaesato e traballante, corre a cazzo di cane sul Lungotevere in linea retta seguendo la linea immaginaria tracciata nel cervello di Negro Matto Africano come proseguimento della linea immaginata sul pavimento della cella.
Attraversa l’ospedale Santo Spirito, l’isola pedonale di Borgo Pio, correggendo la traiettoria lungo l’ansa del fiume all’altezza di via Capoprati, salta le transenne dello stadio Olimpico penetrando nel campo da gioco e smarcandosi, nell’ordine, tre giocatori della Roma, due della Lazio, quattro agenti di custodia, tre carabinieri, un pompiere, un arbitro, un guardalinee e il bibitaro. Serve la palla a Ciccio Graziani che colpisce la traversa a porta vuota e gli spettatori applaudono lo stesso. Non per la papera del giocatore Ciccio Graziani, ma per la performance atletica del Negro Matto Africano, il quale, nudo e unto al centro del campo, capisce dove cazzo è arrivato e gira verso ovest correndo in linea retta. Poiché il negro, benché appena alfabetizzato, sa con certezza che essa è la strada piú breve e dunque piú rapida tra due punti. Quel giorno il negro divenne un Negro Matto Africano e pure euclideo.
Attraversa il Raccordo Anulare intasato di traffico, un esclusivo campo da golf, due campi nomadi e un villaggio di baraccati autoctoni stanziali. Salta la via Aurelia e raggiunge il mare. Il mare di Maccarese. Il Negro Matto Africano nudo si ferma davanti al mare. Lui è nato in un paese in mezzo all’Africa negra dove c’è poca acqua pure nei pozzi. Un paese dove l’ottimista vede il bicchiere mezzo vuoto perché il pessimista non sa manco cos’è un bicchiere d’acqua. Il negro che fino a trent’anni non l’aveva mai visto, il mare. Il negro che si sentiva l’Africa addosso come un’immensa galera. Qualcuno gli aveva spiegato che per scappare da quella galera africana bisognava scappare dall’Africa e buttarsi nel mare. Il negro che un giorno aveva traversato l’Africa e s’era commosso la prima volta che aveva visto il mare, ma quand’era rimasto da solo in mezzo al mare era stato peggio che nella galera dell’Africa. Perché il mare è una gabbia troppo grande e non si vede la fine e non c’è una porta da aprire e scappare, né un muro da sfondare. Ci stava un pozzo al villaggio del negro. Un pozzo, un secchio e una corda. L’acqua era poca, ma bastava per tutti. Là in mezzo al mare era da solo e non capiva a che serviva il mare se in mezzo a tutta quell’acqua stava morendo di sete.
Adesso per la seconda volta il Negro Matto Africano nudo e unto si trova faccia a faccia col mare, ma non ci si butta dentro. Se lo guarda quel mare e pensa che il cielo è padre, la terra è madre, ma il mare che cazzo è?
Il mare è un cesso e io ci piscio, pensa.
E ci pisciò tutta la sua rabbia e il suo odio, i suoi e di tutti i negri africani morti in quel mare di merda. Que...