Erano piccoli gli uomini visti dall’alto. Affacciato al balconcino della cucina, Serafino Currò guardava la strada. Un intrico molliccio di corpi sui toni del rosa fluttuava e si contorceva in ogni direzione. Gli vennero in mente i barattoli di vermi con cui andava a pescare da bambino e l’immagine ne generò un’altra. C’era un gatto morto al lato della strada. Un ragazzo piú grande ribaltò la carcassa con un bastone. Aveva la pancia squarciata, ma si agitava lo stesso, come se respirasse. Qualcuno disse che era vivo, ma quello col bastone disse no, scemi, guardate bene, e loro si avvicinarono e videro che dentro era un ammasso di minuscole larve bianche. Serafino sorrise. Le sette di mattina erano appena passate, ma il caldo già insopportabile. Doveva chiudere gli scuri. Avrebbe trascorso un’altra giornata nell’ombra.
Maria sentiva la pancia piena di sassi e il nastro adesivo le tagliava la pelle sotto le braccia. Lo stradone era invaso di persone che andavano in una direzione o nell’altra, scendevano dai marciapiedi e occupavano la carreggiata, rallentando le automobili. Era concentrata a mettere un piede davanti all’altro per affrontare la strada un metro alla volta, un secondo alla volta, scandendo il tempo in piccoli passi. Continuava a ripetersi che non doveva camminare da donna incinta. Doveva sembrare morta. Imitare gli altri. Essere presente. Soltanto presente. Una cosa che si muove, mangia e respira. Non poteva permettersi di avere paura.
Al volante Adriano riordinava le idee. Sentiva ancora sulla pelle il caldo del giorno passato e il gelo della notte. Era a torso nudo. Sporco. Appiccicoso. All’andata ci avevano messo un po’ piú di cinque ore, il ritorno sarebbe stato piú complicato. Dopo una serie di svincoli e cavalcavia intasati di macchine ed esseri umani, era arrivato finalmente al casello dell’autostrada. Le barriere erano aperte, abbandonate. Sulle corsie d’emergenza c’erano uomini, donne, vecchi e bambini a piedi. Erano morti rimasti fuori dalla città . Erano vivi che cercavano di tornare a casa. Molti, nella speranza di un passaggio, avanzavano sulla strada anche a rischio di essere investiti. Nessuno si fermava. La striscia nera d’asfalto gli si avvolgeva sotto la macchina. Ma aveva la sensazione di stare fermo e che il pianeta gli rotolasse via sotto le ruote.
Con la mano libera cercò ancora di chiamare Maria. Aveva lasciato il telefonino sul sedile insieme al portafogli, gli unici oggetti che era riuscito a conservare. Non c’era campo. Nulla. Smanettando sui comandi del volante, cercò una radio, ma si sentà soltanto l’uniforme fruscio dell’etere. Non c’era modo di sapere niente. Le notizie non esistevano piú. Le automobili erano l’ultimo rifugio dell’elettricità . Abbassò la testa sul volante e guardò in alto attraverso il parabrezza. Era una mattina di sole e nuvole bianche. Tutto sembrava piú grande. Il cielo era un immenso lenzuolo azzurro percorso da distese di nubi sfilacciate, ma non c’erano aerei, nemmeno una scia. Accese il navigatore. Fu sorpreso che funzionasse ancora. I satelliti avrebbero continuato impassibili a percorrere le loro orbite anche dopo la fine dell’uomo, consumati piano dall’attrito dell’atmosfera.
Non mangiava e beveva dal giorno prima. Doveva fare benzina. Il portafogli era di lato. Il denaro valeva ancora? Guardò la strada. Mica poteva essere cosà tanta dappertutto la gente. La terza ondata. L’ultima onda. Se erano davvero rinati tutti, non c’era piú posto da nessuna parte… neanche dove stava Maria… Quasi cento miliardi di esseri umani, aveva detto Chengrong… Le avrebbe portate su una montagna, in un deserto… avrebbero ricominciato da zero. Si sarebbero nutriti di molluschi come Wa ZÃ. Sarebbero riusciti a ridiventare primitivi. Era già nata la sua bambina? Dov’era Maria?
Dalla terra saliva il caldo. Il sole basso già le toglieva il fiato. Maria stava sudando. Aveva bisogno di bere. Il camice di Adriano, il cotone, i collant, il nastro adesivo che le segava le ascelle, le piante dei piedi nudi sull’asfalto. Non sapeva dove era diretta, e non se lo chiedeva. Aveva perso cognizione delle ore. Aveva bisogno di bere e mangiare. La vista si annebbiava e spargeva intorno vapore. Camminò dentro la gente, era una fiaba dove una bambina si perde in una foresta fitta di rovi, ha i piedi lacerati e vorrebbe tanto lasciarsi cadere e dormire, ma va avanti lo stesso perché sa che forse all’improvviso, cammina cammina, in fondo al buio le apparirà una luce accesa e una casetta piccina piccina. Si inoltrava tra la gente dispersa. Un’auto nera di grossa cilindrata procedeva a scatti in mezzo alla strada. Non si scostò per lasciarla passare. Il parafango la toccò sulle gambe. L’uomo al volante si sporse dal finestrino.
– E togliti dal cazzo, cicciona.
Maria girò la testa. Dagli altri finestrini, uscirono altre tre teste.
– Te ne vai o no? Muovi il culo, stronza!
– Sarai mica incinta, panzona?
Li fissò, non aveva paura e non sapeva perché, provava rabbia. D’istinto sollevò la mano destra e mostrò il dito medio. Poi incominciò a correre. Sentà rumore di portiere che si aprivano. La stavano inseguendo. Ora tagliava la folla incuneandosi e abbassandosi, spostandosi di fianco, dentro una foresta viva e impenetrabile, che le si richiudeva dietro, fitta e protettiva. Correva rasente al muro, se l’avessero raggiunta l’avrebbero linciata, immaginò la sua vita sprofondare in un silenzio da nevicata, ma la paura coincideva con la sensazione piena di esistere. Guardò indietro. A meno di venti metri, riconobbe le teste di due inseguitori.
Si buttò a destra, giú per lo scivolo di un garage, correva scalza, i piedi sfregavano il cemento zigrinato, il peso della pancia rischiava di farla cadere in avanti. Arrivò a una sbarra bianca e rossa, e si abbassò per passarci sotto. C’erano delle scale sulla destra, salà due gradini, ma forse qualcuno la stava aspettando di sopra. Alla prima rampa si fermò. Aveva il fiatone. Guardò in alto, cercava di ascoltare, anche se il suo respiro la assordava. Salà ancora. A tre gradini dalla cima, si accovacciò. La via sembrava libera. C’erano dei carrelli rovesciati e una fila di saracinesche abbassate. Era una specie di portico quadrato. Poco piú in là , sulla strada, la massa sfilava incurante. Poteva ributtarsi nella folla e sperare, invece sgattaiolò all’interno, protetta alla vista dei suoi inseguitori da un muretto di cemento.
Arrivò davanti a due ascensori e si sollevò in piedi premendo la schiena contro la parete. Di fronte all’entrata stava uno degli uomini che la braccavano. Dal basso, giunse rumore di passi. Stavano salendo le scale. Era in trappola. Si buttò in un budello largo un metro che si apriva tra l’edificio e il cancello del palazzo confinante. L’eco delle voci aumentava.
– Da qui non è passata, la stronza!
– Noi controlliamo di sopra, voi tornate giú.
La strettoia era senza uscita. Ma in fondo c’era una porta. Forse un’entrata per gli addetti. Corse piú veloce. Afferrò la maniglia e girò.
La macchina era entrata in riserva. La spia si era accesa, gli restavano meno di venti chilometri. Interminelli aveva risparmiato anche sulla benzina. Doveva fermarsi per forza. Non aveva scelta. Ma i distributori funzionavano senza elettricità ? Vide il cartello di un’area di servizio. Altri quattro chilometri. Se aveva fortuna, trovava anche dell’acqua. Inserà la freccia, rallentò e uscÃ. C’era qualche auto parcheggiata. Dietro l’edificio del bar vide un lungo tir nero. Si fermò alle pompe di benzina. Le pistole per il rifornimento erano a terra, serpenti morti di gomma nera. Afferrò portafogli e telefono e scese. Forse nei tubi era rimasto un po’ di carburante. Infilò la pistola nel serbatoio, ma non uscà niente, neppure una goccia. Tutto secco. Come la sua bocca. Moriva di sete.
Fece scattare la chiusura elettronica e si diresse verso il bar che aveva le saracinesche abbassate. Vide altre macchine abbandonate con le portiere aperte. Una aveva il cofano alzato. Avevano smontato i radiatori per bere. Fece il giro dell’edificio in cerca del bagno. Una porta. C’era scritto «riservato». Maniglie e serratura erano saltate. Poteva esserci acqua. Il tir nero era parcheggiato in mezzo al piazzale, a non piú di dieci metri da lui.
Entrò e richiuse. La luce penetrava da un’apertura rettangolare sulla parte superiore della porta d’alluminio. Chinò la bocca sul lavandino, ma non usciva niente. I rubinetti giravano a vuoto. Salà in piedi sul bordo del water per esaminare lo sciacquone. Tese il braccio destro per infilare la mano nella vasca. Le dita gli si bagnarono. Acqua. Aggrappandosi al tubo e appoggiando il piede sul lavandino, riuscà a issarsi e a guardare dentro. Erano almeno quattro litri. Arcuò il collo – le mani aggrappate al bordo del recipiente, il corpo sospeso di traverso – e riuscà a posare le labbra sulla superficie.
Stava bevendo. Usava la lingua. Si abbeverava. Il liquido profumava appena di marcio. Doveva trovare un contenitore, una tanica, una bottiglia di plastica, un secchio, in cui raccogliere l’acqua rimasta. Guardò in basso, ma il suo sguardo si fermò sulla finestrella. Inquadrava la parte posteriore del tir. Tre uomini in piedi parlavano tra loro. In mano reggevano dei fucili.
Maria chiuse gli occhi e girò la maniglia. Si aprÃ. Scivolò in fretta all’interno. Si appoggiò alla porta e avvertà qualcosa di duro premerle sui reni. Il chiavistello. Lo fece scattare. Doveva riprendere fiato. Non riusciva a respirare. La luce del giorno filtrava attraverso una fila di finestrelle in vetrocemento. Le pupille si dilatavano per vedere nel buio. Intorno, banchi d’acciaio. Un pavimento di piastrelle scure. Grandi lavandini. Dei ganci pendevano dal soffitto. Una canna di plastica era arrotolata per terra. Dov’era capitata? Si mosse fra i tavoli. Sopra c’erano punteruoli e mannaie. Afferrò un coltello da macellaio con la lama triangolare. Cercava di muoversi piano. Magari c’era ancora qualcuno. Individuò un’apertura, una porta senza battente. Si affacciò, vide file di scaffali. Era nel reparto macelleria di un supermercato. Scese tra le corsie.
Le vetrine erano sfondate e le schegge di vetro luccicavano sul pavimento. Avevano portato via tutto, ma forse trovava ancora qualcosa, nonostante il saccheggio. Gli sportelli dei frigoriferi erano spalancati. Nella mano stringeva il coltello. Scorse una macchia scura sul ripiano piú basso, e si chinò a prenderla infilando la mano. Una lattina. Aranciata. Per aprirla posò l’arma. Quando strappò la linguetta di metallo, dall’eccitazione le tremavano le dita e il liquido traboccò gassoso. Avventò le labbra sull’apertura per non sprecare nulla. Scendeva scuro, tiepido e dolce nella gola, buono da svenire. Assorbà ogni singola goccia, piegando la testa all’indietro. Udà qualcosa. Un suono sommesso. Come un singhiozzo soffocato. Qualcuno piangeva?
Posò la lattina vuota per terra. Con cura. Riprese il coltello e si mosse adagio in direzione del rumore. Silenzio. Di nuovo quella specie di gemito.
Era davanti alle casse. Si sporse con cautela. Seduto con la testa tra le mani e i gomiti sulle ginocchia, un uomo in giacca e cravatta piangeva. Avvertà la sua presenza e sollevò la testa. Aveva gli occhi vacui. Rassegnati. Cinquant’anni. Quasi calvo. Il mento sfuggente coperto da un pizzetto. Si asciugò gli occhi con la mano destra e Maria notò che gli mancava la falange del dito medio. Prima di parlare tirò su col naso.
– Lei non è una rinata, vero?
Usava il tono inoffensivo di chi non ha piú nulla da perdere. Maria si toccò il collo.
– No. E lei?
L’uomo si portò le mani sulla faccia.
– Hanno portato via tutto. Sono arrivati in massa stanotte, poco prima dell’apertura. Erano cosà tanti che non riuscivano a entrare.
Il tir accese il motore. In piedi sul lavandino, Adriano spiava dalla finestrella. Erano in tre. Uno si staccò per andare ad aprire il portellone. Gli altri due puntarono i fucili.
– Scendere, scendere! Smontare!
Dallo scivolo vennero giú decine di uomini, donne e bambini. Tutti completamente nudi.
– Su, fate spazio. Mettetevi lÃ. Buoni, che se no vi spariamo nel culo.
– Avanti, muoversi, cazzo!
– Adesso innaffiali che con ’sto caldo vanno a male.
Li fecero ammassare davanti alla porta del bagno, a un metro da lui. Il primo uomo imbracciava il fucile, il secondo aveva raccolto da terra una canna arancione. Il terzo non lo vedeva, era fuori campo, ma certamente vicino al muro. Quello con la canna ordinò di aprire e partà un violento getto d’acqua verso i prigionieri che, nel tentativo di intercettarne il piú possibile, aprirono le bocche e alzarono le mani al cielo. L’uomo che innaffiava finse di mitragliare, mentre quello armato rideva.
– Avanti, coglioni, prendetela tutta. La merce deteriorata non si vende. Lavatevi bene, sfregate bene. Le ascelle, il culo, le palle.
Si sentà la voce di quello che Adriano non riusciva a vedere.
– Ricordati di farli bere che se no tra un’ora ci schiattano.
– Sei sicuro che sia potabile? È l’acqua della cisterna.
– Al massimo si spurgano, come le lumache.
Quello con la canna indirizzò il getto all’altezza delle teste.
– Avanti, da bravi, dissetatevi.
Trascorsero trenta secondi, la voce fuori campo urlò che era abbastanza. Era ora di rimettersi in viaggio. Se avevano fortuna, sarebbero arrivati in città prima di sera. Adriano sussultò. Non ebbe bisogno di penare. La città a cui erano diretti era la stessa dove stava Maria. Saltò giú usando il water come gradino, si sfilò scarpe, pantaloni e mutande e se le appallottolò contro la pancia. Socchiuse appena e scivolò fuori tra stipite e telaio.
Il gregge si stava muovendo. Adesso lui chiudeva la fila.
Correvano verso il tir, uno addosso all’altro, grondanti d’acqua e sudore, pelle contro pelle, mentre i padroni urlavano ordini. Quelli davanti erano già in cima allo scivolo. Adriano, in fondo, vide la bocca nera dell’autotreno inghiottire decine di esseri docili, troppo spaventati per ribellarsi. Aveva fatto la piú grande stronzata della sua vita. Dove andavano? Chi erano? Sarebbero stati venduti come schiavi? O come bestiame? Ma era troppo tardi, se avesse provato a scappare gli avrebbero sparato nella schiena. Era dentro. Spingevano. Il pavimento del tir era un acquitrino. Il portellone si stava chiudendo. La luce esterna diminuà inesorabile, sempre meno, sempre piú scarsa, sempre piú sottile, fino al tonfo finale del portellone che sbatté sull’oscurità interrotta soltanto dai minuscoli fori di luce sul soffitto. Aperture per l’aria. Il motore si accese e, qualche secondo piú tardi, il tir si mise in movimento.
Aveva ragione l’uomo che piangeva. Non c’era piú niente. Maria si passò la lingua sulle labbra secche. Aveva ancora sete. Non c’era luce. I frigoriferi senza spina. Il ghiaccio si scioglie senza elettricità , sgocciola. Correva. Il reparto dei surgelati. Spalancò uno sportello. In fondo al congel...