Mo Yan
L’uomo che allevava i gatti
e altri racconti
Un fascio di luce dorata lo inondò mentre si toglieva il fucile dalla spalla con la mano destra priva di indice. Il sole al tramonto scendeva velocissimo, descrivendo un arco perfetto, e nei campi riecheggiava frammentario un suono simile al riflusso della marea, accompagnato da un respiro triste, a tratti intenso, a tratti debole. Facendo grande attenzione appoggiò il fucile sul terreno coperto di chiazze di muschio della dimensione di monete di rame. Nel deporre l’arma, osservò la terra umida e un’immensa tristezza gli serrò il cuore. Il fucile, a canna lunga e con il calcio di legno di mogano, giaceva sull’irregolare suolo bagnato senza potervi perfettamente aderire. Accanto ad esso il sole illuminava una spiga di sorgo caduta, dalla quale era spuntato un grosso grappolo fitto di teneri germogli di un giallo tenue, che gettava la sua ombra sulla canna scura e il calcio rosso cupo del fucile, facendogli cambiare colore. Mentre scioglieva la fiaschetta della polvere da sparo che teneva allacciata in vita, si tolse la giacca nera mostrando il suo busto ossuto. Avvolse il fucile e la polvere da sparo nella giacca e li posò sul terreno; quindi avanzò di tre passi, si chinò e, allungando le braccia bagnate dall’intensa luce del sole, sfilò un fascio di fusti di sorgo dalla pila in cui erano accatastati.
In autunno c’era stata un’inondazione e i terreni, sommersi dall’acqua per migliaia di ettari, facevano pensare a un oceano. Le spighe color cremisi del sorgo spuntavano dall’acqua, mentre frotte di topi saltavano dalla cima di un fusto all’altra, lesti come uccelli in volo. Al tempo del raccolto, l’acqua arrivava all’altezza del petto, la gente l’aveva attraversata a guado trasportando le spighe con le zattere. Carpe dalle pinne rosse e pesci d’erba dal dorso nero, piovuti chissà da dove, sfrecciavano tra le verdi radici aeree dei fusti di sorgo. Di tanto in tanto, un martin pescatore color smeraldo si tuffava in acqua per poi uscirne con in becco un pesciolino d’argento brillante. In agosto la piena si ritirò a poco a poco, portando alla luce strade coperte di fango. L’acqua rimasta negli avvallamenti formava pozzanghere di tutte le forme e le dimensioni. Poiché era impossibile trasportare i fusti di sorgo tagliato, vennero trascinati fuori dall’acqua e accatastati sulla strada, o sul terreno piú alto ai bordi delle pozze. Un sole meraviglioso splendeva sulla campagna pianeggiante. Nell’arco di cinque chilometri pochissimi erano i villaggi, le pozzanghere scintillavano e le cataste di sorgo somigliavano a fortini.
Dando le spalle al caldo sole brillante e ad un vasto acquitrino, egli trascinò uno a uno i fasci di sorgo fino al bordo della palude, dove con quelli eresse un rifugio a pianta quadrata che gli arrivava a mezzo busto. Raccolto il fucile, vi saltò dentro e si sedette. La sua testa arrivava esattamente al bordo del nascondiglio. Dall’esterno non lo si poteva vedere; mentre lui, attraverso le fessure appositamente lasciate, aveva una vista nitida sull’acquitrino e quella specie di isolotto di fango che vi sorgeva nel mezzo. Il suo sguardo poteva raggiungere anche il cielo rosa e la terra marrone. Il cielo sembrava molto basso e la luce rossa del sole tingeva la superficie delle acque. Scintillando l’acquitrino si estendeva fin nella caliginosa luce crepuscolare, e i dardi di sole che vibravano lungo i suoi bordi somigliavano a un cerchio di calde ciglia. Ciuffi di canne gialle si ergevano solenni sull’isolotto melmoso, ora divenuto azzurro chiaro, che avvolto da una luce guizzante sembrava fluttuare leggero. La sensazione diveniva piú forte man mano che tutt’intorno aumentava l’oscurità e l’acqua si faceva piú lucente. Ebbe l’impressione che l’isolotto stesse fluttuando verso di lui, sempre piú vicino, ancora pochi passi e avrebbe potuto saltarci sopra. Non erano ancora arrivate sull’isolotto. Perplesso e irrequieto guardò ancora una volta il cielo, è l’ora, pensava, dovrebbero arrivare.
Non aveva idea da dove venissero. Quel giorno, avevano passato l’intero pomeriggio a trasportare i fusti di sorgo, e quando il caposquadra aveva annunciato che era ora di staccare dal lavoro, mentre decine di uomini si erano incamminati verso casa facendo oscillare le loro lunghe ombre, lui era corso qui, per fare i suoi bisogni, e all’improvviso le aveva viste. Si sentí come se qualcuno gli avesse sferrato un pugno in petto, il suo cuore subí una battuta d’arresto prima di riprendere il ritmo regolare. Un grande stormo di anatre selvatiche che planava sull’isolotto gli abbagliò la vista. Per una decina di sere di seguito, le osservò nascosto in mezzo ai fasci di sorgo. Notò che di norma arrivavano, mandando il loro richiamo, verso l’imbrunire, come provenissero da oltre il cielo. Prima di atterrare, volteggiavano eleganti sopra l’acquitrino, come una grande nube grigioverde che a tratti si dispiegava e a tratti si riavvolgeva. Quando scendevano sull’isolotto battendo in aria le ali, si sentiva al colmo dell’eccitazione. Prima di allora non gli era mai accaduto di vedere cosí tante anatre selvatiche concentrate in un pezzo di terra tanto piccolo, non gli era mai accaduto…
Sarebbero già dovute essere lí, e invece non si vedevano. Non erano ancora arrivate, o non sarebbero venute affatto? Si sentiva in ansia, giunse persino a dubitare che quanto aveva visto in precedenza non fosse stata che un’illusione; d’altro canto, gli era sembrato poco credibile fin dall’inizio che in quel posto potesse esserci un cosí grande stormo di anatre selvatiche. Spesso aveva sentito i vecchi del villaggio raccontare storie sulle anatre divine, ma le anatre delle storie erano di un bianco immacolato, mentre queste non lo erano. Avevano splendide piume verdi sul capo e sul collo, un anello bianco attorno alla gola, e le ali simili a specchi blu. Erano forse i maschi? E quelle con il corpo castano dorato screziato di marrone scuro, erano le femmine? Senza dubbio non si trattava delle anatre divine, visto che avevano lasciato sull’isolotto strati e strati di piccole piume verdi e marroni. Vedendo le piume si tranquillizzò molto. Si sedette, raccolse la giacca in cui erano avvolti il fucile e la polvere da sparo e svolgendola con piccole scosse riportò alla luce l’arma e la fiaschetta lucente. Il fucile giaceva tranquillo e silenzioso sui fusti di sorgo, il suo corpo splendeva di una luce rosso scuro simile alla ruggine. E in effetti in passato la ruggine l’aveva ricoperto e aveva roso il metallo, lasciandolo pieno di buchi. Ora, comunque, la ruggine non c’era piú. L’aveva tolta lui, grattandola via con due fogli di carta vetrata. Il fucile giaceva a terra contorto come un serpente nero in letargo. Sentiva che si sarebbe potuto svegliare in qualunque momento, alzarsi in volo, battendo in un crepitio i fusti del sorgo con la coda d’acciaio. Quando allungò la mano per toccare il fucile, la prima sensazione che provò fu un freddo gelido, che dai polpastrelli gli salí fino al petto, scuotendolo di brividi. Il sole stava tramontando piú velocemente, mutando forma man mano che scendeva, appiattendosi e deformandosi, come una sfera semifluida che cade su una liscia lamiera d’acciaio. La parte inferiore era piatta, e le superfici curve, sottoposte a una tensione estrema, finirono per esplodere: un liquido rosso, gelido e gorgogliante, si diffuse in tutte le direzioni. Una quiete onirica scese sull’acquitrino, il liquido color cremisi si immergeva lentamente nell’acqua, trasformandone gli strati sottostanti in un denso brodo rosso, mentre in superficie restava trasparente e di uno splendore accecante. A un tratto notò una libellula dalle striature dorate sospesa a un lungo stelo di erba avvizzita. I suoi occhi enormi, simili a gemme purpuree, ruotavano a destra e a sinistra riflettendo i raggi di luce.
Egli afferrò il fucile e se lo mise sulle gambe, il calcio dell’arma sporgeva oltre l’angolo formato dalle gambe e dal ventre, mentre la bocca, da sotto il suo mento, guardava di traverso il cielo grigio pallido del sud. Estrasse di tasca un misuratore di forma cilindrica, tolse il tappo della fiaschetta che conteneva la polvere da sparo e la versò dentro al misurino. Quindi caricò la canna, e subito dalla bocca del fucile si produsse il rumore soffice di qualcosa che scorreva. Poi, prese una manciata di pallini da una scatoletta di ferro, li versò nella bocca del fucile, e questa volta dalla canna salí un suono cristallino. A quel punto, sfilò una lunga bacchetta che si trovava sotto la canna e, con l’estremità a forma di nodo, pigiò la polvere da sparo e i pallini. Tremava di paura e il cuore gli batteva forte, quasi stesse accarezzando una tigre assopita. Dopo aver versato nella canna la terza dose di polvere da sparo e la terza presa di pallini, una morsa di gelo gli strinse il cuore e un denso sudore freddo gli imperlò la fronte. Nel tirar fuori il tappo di ovatta che aveva preparato per tempo e che doveva servirgli a otturare la bocca del fucile, le sue mani tremavano. Si sentiva affamato e fiacco. Strappò una radice d’erba dalla terra e, dopo averla ripulita dal fango, la mise in bocca. Cominciò a masticarla, ma questo non fece che aumentargli la fame. In quell’istante sentí sopra le pozze il fischio prodotto dalle ali quando sbattono l’aria. Doveva portare immediatamente a termine l’ultimo atto dei preparativi: inserire la capsula. Tirò indietro la testina sporgente del cane, e apparve una protuberanza a forma di capezzolo collegata alla canna del fucile. Sulla protuberanza c’era una cavità rotonda con un forellino al centro. Con estrema attenzione strappò vari strati di carta da una capsula dorata, quindi la sistemò nella cavità. La capsula conteneva polvere da sparo gialla, e sarebbe esplosa appena il cane l’avesse colpita, dando fuoco alla polvere nella canna. Un serpente di fuoco sarebbe guizzato fuori dalla bocca del fucile, sottile all’inizio, poi sempre piú grande sino a trasformare il fucile in una specie di scopa di ferro. Quel fucile era rimasto appeso per cosí tanto tempo al timpano nero come la pece di casa loro, che egli aveva penetrato il mistero del suo funzionamento da solo, senza bisogno di maestri. Due giorni prima, quando l’aveva tirato giú per ripulirlo dalla ruggine, si era sentito perfettamente a proprio agio nel maneggiarlo.
Le anatre selvatiche erano arrivate. Sulle prime, volteggiarono a cento metri d’altezza, mandando il loro richiamo e battendo le ali. A tratti planavano, poi riprendevano quota, o si raggruppavano per disperdersi nuovamente con un gran baccano, o si slanciavano verso terra dalle direzioni piú disparate, fino a sfiorare la superficie dell’acqua rossa e cristallina. Si mise in ginocchio e, trattenendo il respiro, incollò lo sguardo su quei cerchi di luce purpurea. Con delicatezza infilò il fucile in una fessura tra i fusti di sorgo, il cuore gli batteva all’impazzata. Le anatre stavano ancora volteggiando, descrivendo cerchi grandi e piccoli: si aveva l’impressione che persino l’acquitrino ruotasse assieme a loro. A volte, alcuni maschi dalle verdi piume furono quasi sul punto di sbattere contro la bocca del suo fucile, e aveva potuto notare i loro becchi verde pallido e i balenii di furbizia negli occhi neri. Il sole era diventato piú grande e piú piatto, i bordi mandavano riflessi neri, mentre il centro, ancora simile all’acciaio fuso, sprizzava scintille crepitanti.
Improvvisamente le anatre cominciarono a mandare forti richiami, formando un gran coro maschile e femminile. Era talmente eccitato che gli tremavano le labbra, sapeva, sapeva che presto sarebbero atterrate. Avendole osservate attentamente per dieci giorni di seguito, sapeva che, dopo aver mandato i loro richiami, sarebbero scese a terra. Solo pochi minuti erano passati dal momento in cui le loro ombre erano apparse nel cielo, ma egli aveva la sensazione che fosse trascorso un periodo lungo, molto lungo. Violenti crampi allo stomaco gli ricordarono che aveva ancora fame. Alla fine le anatre scesero, stendendo improvvisamente le zampe purpuree e aprendo completamente le ali solo prima di toccar terra. Le code bianche come la neve, simili a ventagli di piume aperti, toccavano il suolo a una tale velocità che l’impatto le faceva barcollare di due o tre passi. L’isolotto marrone cambiò subito colore: innumerevoli soli cangianti luccicavano sulle piume multicolori dei volatili, e i raggi del sole si muovevano avanti e indietro, trasportati dall’incessante andirivieni dello stormo.
Egli sollevò non visto il fucile, appoggiò il calcio sulla spalla, e mirò a quello stuolo di germani che si andava via via ingrossando. Il sole perse un altro pezzo, apparendo ormai storto e sformato. Alcune anatre si erano accovacciate, altre stavano ritte sulle zampe, e altre ancora volavano basse un certo tempo e poi atterravano di nuovo. È il momento di far fuoco, pensò. Ma non sparò. Spostando la mano sul grilletto si rese conto a un tratto della sua enorme menomazione. Con un senso di pena, ricordò il suo indice monco di due falangi, simile a un ceppo nodoso e tozzo incastrato tra il pollice e il medio.
Aveva solo sei anni il giorno in cui sua madre era tornata dal funerale del padre. Indossava una lunga tunica di cotone bianco con una corda di canapa allacciata alla vita, portava i capelli sciolti. Le palpebre erano diventate trasparenti per il gonfiore, e dai suoi occhi, ormai due fessure lunghe e sottili, traspariva uno sguardo cupo e lacrimoso. – Da Suo, vieni qui, – lo chiamò la madre, e lui si avvicinò trepidante. Lei gli afferrò la mano e, soffocando i singhiozzi, tese il collo, come se stesse cercando di mandar giú qualcosa di duro. – Da Suo, tuo padre è morto, lo capisci? – Mentre annuiva la madre continuò: – Tuo padre è morto, non tornerà piú, lo capisci? – Egli la osservava perplesso, annuendo vigorosamente. – Sai come è morto tuo padre? – gli chiese. – È stato ucciso da questo fucile. Questo fucile è un’eredità di tua nonna. Non lo dovrai toccare mai. Lo appendo al muro e tu lo guarderai tutti i giorni, e guardandolo penserai a tuo padre. Dovrai studiare seriamente per farti una vita decente e acquisire meriti presso i tuoi antenati –. Ascoltava senza essere sicuro di capire le parole della madre, ma continuò ad annuire con vigore.
E cosí, il fucile rimase appeso al timpano di casa sua, reso nero e brillante dal fumo di decine di anni. Guardava l’arma tutti i giorni. In seguito, quando passò dal primo al secondo anno, sua madre appese ogni sera al timpano una lampada a cherosene, in modo che avesse luce a sufficienza per studiare. Ma ogni volta che guardava i caratteri neri sui libri, gli girava la testa. Non faceva che pensare al fucile e alla storia del fucile. Il vento delle pianure desolate filtrava attraverso i graticci delle finestre investendo la fiamma della lampada, che somigliava alla punta di un pennello, con fili di fumo nero che le tremolavano sopra. Anche se sembrava intento sui libri, egli era sempre consapevole dello spirito del fucile; lo sentiva persino scricchiolare. La sensazione era la stessa che si prova davanti a un serpente: desiderio e allo stesso tempo paura di guardarlo. Era appeso con la canna puntata verso il basso e il calcio in alto, e mandava tetri bagliori neri. La fiaschetta, ricavata da una zucca, che conteneva la polvere da sparo era appesa lí accanto, intrecciata al fucile, la vita sottile premuta sul cane. Aveva un colore rosso dorato, l’estremità piú larga era rivolta verso l’alto e la piú stretta verso il basso. Com’erano in alto, il fucile e la fiaschetta! E com’erano belli! Un vecchio fucile e una vecchia fiaschetta appesi a un vecchio timpano gli tormentavano l’anima. Una sera, salí sopra un alto sgabello e li tirò giú per ispezionarli alla luce della lampada. Un dolore insopportabile gli serrò il cuore quando sollevò quel fucile pesante. In quel mentre, sua madre arrivò dall’altra stanza. Non aveva ancora quarant’anni, ma i capelli le si erano già fatti grigi. – Da Suo, cosa stai facendo? – gli chiese. Stava lí assente, il fucile in una mano e la fiaschetta nell’altra. – Come sei andato agli esami? – domandò la madre. – Secondo contando dal basso, – fu la risposta. – Sei un buono a nulla! Rimetti il fucile a posto! – No, voglio uccidere… – replicò ostinato. – Rimettilo a posto! – gli ordinò sua madre dandogli uno schiaffo sulla bocca. – Studiare seria...