
- 424 pagine
- Italian
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eBook - ePub
L'isola dei cacciatori di uccelli
Informazioni su questo libro
In un'isola spazzata dal vento, dura e inospitale come le rocce nere che la intrappolano, un omicidio sembra affondare le sue radici in rivalità e odi antichi. L'ispettore Fin Macleod è scappato da ragazzo dall'isola e dai suoi sanguinari, antichissimi rituali. Ora è costretto a tornare, e a fare i conti con il suo passato.
L'ispettore Fin Macleod ha appena perso un figlio e il suo matrimonio sta andando letteralmente alla deriva. Quando, per indagare su un omicidio, viene spedito sulla sua isola natia, poco piú di uno scoglio al largo delle coste scozzesi, Macleod è costretto ad accettare. Il caso è la sua ultima chance per rimettersi in gioco e uscire dal totale isolamento in cui si è autorelegato. Anche se questo significa riprecipitare nel proprio passato, negli echi di una violenza aspra e senza redenzione che ogni anno trova sfogo nel massacro sistematico delle sule, uccelli che sull'isola vengono a nidificare. E a morire.
***
«Una scrittura incredibilmente efficace, e un'atmosfera claustrofobica e vischiosa».
«The Times»
***
«Un romanzo che scandaglia perfettamente i recessi oscuri dell'animo umano. Un mistery eccezionale, di quelli che tengono incollati alle pagine».
«Irish Independent»
L'ispettore Fin Macleod ha appena perso un figlio e il suo matrimonio sta andando letteralmente alla deriva. Quando, per indagare su un omicidio, viene spedito sulla sua isola natia, poco piú di uno scoglio al largo delle coste scozzesi, Macleod è costretto ad accettare. Il caso è la sua ultima chance per rimettersi in gioco e uscire dal totale isolamento in cui si è autorelegato. Anche se questo significa riprecipitare nel proprio passato, negli echi di una violenza aspra e senza redenzione che ogni anno trova sfogo nel massacro sistematico delle sule, uccelli che sull'isola vengono a nidificare. E a morire.
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«Una scrittura incredibilmente efficace, e un'atmosfera claustrofobica e vischiosa».
«The Times»
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«Un romanzo che scandaglia perfettamente i recessi oscuri dell'animo umano. Un mistery eccezionale, di quelli che tengono incollati alle pagine».
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Domande frequenti
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Informazioni
Print ISBN
9788806204907eBook ISBN
9788858406366Undici
La notizia che Artair e io ci saremmo uniti alla squadra che quell’anno andava ad An Sgeir rovinò la mia ultima estate sull’isola. Spuntò fuori dal nulla e mi gettò in una depressione profonda e nera.
Mancavano solo sei settimane prima della mia partenza per l’università a Glasgow, e avrei voluto passarle come le due precedenti. Io e Marsaili avevamo trascorso quasi ogni giorno insieme dal nostro incontro a Eilean Beag. Cominciavo a perdere il conto di quante volte avevamo fatto l’amore. Ci capitava di farlo con la ferocia e la passione di chi teme di non averne piú l’occasione: era stato cosà la volta in cui eravamo stati assieme nel fienile, in alto tra le balle, dove Marsaili mi aveva rubato il primo bacio tutti quegli anni prima. Altre volte lo facevamo con un lento, languido appagamento, come se credessimo che quei giorni idilliaci di estate, sole e sesso non sarebbero finiti mai.
Non sembrava possibile, allora, che finissero. Anche Marsaili era stata ammessa alla Glasgow University e avevamo davanti altri quattro anni insieme. Eravamo andati a Glasgow la settimana precedente a cercare una stanza. Avevo raccontato a mia zia che ci andavo con Donald, per quanto non le importasse molto con chi passassi il mio tempo. I genitori di Marsaili erano convinti che con lei ci fosse un gruppo di compagni di scuola. Per due notti alloggiammo in un bed and breakfast: stavamo a letto tutta la mattina, avvinghiati l’uno all’altra fino a quando la padrona di casa non ci buttava fuori. Immaginavamo che, una volta cominciata l’università , ogni giorno sarebbe stato come quello, condividendo lo stesso letto, facendo l’amore ogni notte. Una tale felicità sembrava quasi impossibile. Certo, ora so bene che lo era.
Ci trascinammo per ore attraverso tutto il West End, seguendo gli annunci sul giornale, usando un elenco che ci aveva dato l’università , controllando i suggerimenti di altri studenti incontrati nei bar di Byres Road la sera prima. La fortuna ci arrise. Una stanza tutta nostra, in un grande appartamento in stile edoardiano in Highburgh Road, da condividere con altri sei compagni. Primo piano, palazzo in arenaria rossa, vetrate, pannelli in legno. Non avevo mai visto niente di simile. Era tutto cosà straordinariamente esotico. Pub aperti fino a tardi, ristoranti cinesi, italiani, indiani, gastronomie aperte fino a mezzanotte, drogherie ventiquattr’ore su ventiquattro, negozi, pub, ristoranti aperti di domenica. Sembrava incredibile. Immaginavo quanto mi sarei sentito felicemente fuorilegge a comprare il giornale della domenica il giorno stesso, e a leggerlo in un pub davanti a un boccale di birra. Allora, sull’isola, non avevo mai visto un giornale della domenica prima del lunedÃ.
Quando tornammo a Lewis l’idillio continuò, nonostante ora ci fosse un pizzico di insofferenza. Per quanto entrambi saremmo stati felici se quell’estate fosse durata per sempre, allo stesso tempo non vedevamo l’ora che arrivasse il momento di partire per Glasgow. La grande avventura della vita si apriva davanti a noi e a momenti desideravamo che la nostra gioventú finisse, tanto avevamo fretta di intraprenderla.
La sera prima di ricevere la notizia di An Sgeir, io e Marsaili andammo giú alla spiaggia di Port of Ness. Attraversammo al buio le rocce all’estremità meridionale, fino a una lastra di gneiss nero reso liscio dai secoli, riparato dal resto del mondo da strati di roccia che pareva tagliata a fette giganti, raddrizzate e poi ribaltate per stenderle in pile inclinate. Sopra di noi la scogliera saliva verso un cielo notturno di infinite possibilità . La marea era bassa, ma si sentiva il respiro del mare delicato sulla riva. Un vento caldo scuoteva l’erica seccata dal sole che cresceva in grumi di terra su ripiani e balze. Stendemmo il sacco a pelo che ci eravamo portati, ci spogliammo, ci sdraiammo alla luce delle stelle e facemmo l’amore con movimenti lunghi e lenti, a tempo con il battito del mare, in armonia con la notte. Quella fu l’ultima volta in cui tra noi ci fu amore vero, e la dolce intensità della situazione risultò quasi insopportabile, lasciò entrambi deboli e senza fiato. Nudi, scivolammo sulle rocce fino alla sabbia dura e piatta lasciata dalla marea, l’attraversammo di corsa fino al punto in cui l’acqua spandeva il chiaro di luna sulla spiaggia, e danzammo tra le onde che si infrangevano, mano nella mano, strillando quando l’acqua fredda ci bruciava la pelle.
Quando tornammo al sacco a pelo, ci asciugammo a vicenda e ci vestimmo, battendo i denti dal freddo. Presi tra le mani la testa di Marsaili, con i capelli d’oro ancora arruffati e gocciolanti, e le diedi un bacio lungo e profondo. Quando mi staccai, la guardai fisso negli occhi e aggrottai la fronte: per la prima volta mancava qualcosa.
– Che cosa hai fatto agli occhiali?
Lei sorrise. – Mi sono messa le lenti a contatto.
È difficile ricordare ora il motivo preciso della mia reazione cosà violenta all’idea di andare ad An Sgeir a caccia di guga, anche se mi vengono in mente molte ragioni plausibili.
Non ero un ragazzo particolarmente atletico e sapevo che la vita su An Sgeir sarebbe stata durissima, fisicamente estenuante, piena di pericoli e disagi.
Non gradivo la prospettiva di massacrare duemila uccelli. Come la maggior parte dei miei coetanei, mi piaceva il gusto della guga, ma non avevo alcun desiderio di scoprire come mi arrivava nel piatto.
Avrei dovuto stare lontano da Marsaili per due settimane intere, o anche di piú. A volte il clima bloccava i cacciatori sulla roccia per un numero di giorni maggiore del previsto.
Ma c’era anche dell’altro. Mi sembrava un po’ come ricadere in quel buco nero da cui ero appena emerso. Non saprei davvero spiegare il perché. Ma fu proprio cosà che andarono le cose.
Ero sceso a casa di Artair per chiedere come stava sua madre. L’avevo visto molto poco in quelle ultime settimane. E lo trovai seduto su un vecchio pneumatico da trattore vicino alla catasta di torba, che guardava di là dal Minch verso la terraferma. Non me n’ero accorto prima, ma i monti del Sutherland si stagliavano chiari e nitidi contro l’azzurro pastello del cielo, e capii che il tempo stava per peggiorare. Dall’espressione sul viso di Artair temetti brutte notizie su sua madre. Mi sedetti sullo pneumatico accanto a lui.
– Come sta tua madre?
Si girò e mi lanciò un lungo sguardo spento, come se fossi trasparente.
– Artair…?
– Cosa? – Era come se si fosse appena svegliato.
– Come sta tua madre?
Si strinse nelle spalle, sprezzante. – Oh, lei sta bene. Meglio di prima.
– Ottimo –. Aspettai e, visto che non diceva altro, aggiunsi: – Allora, cosa c’è che non va?
Estrasse di tasca l’inalatore, stringendolo in quel suo modo caratteristico, coprendosi la faccia a metà , premendo verso il basso la cartuccia d’argento e succhiando il beccuccio. Ma non ebbe il tempo di dirmelo: sentii una porta che si chiudeva dietro di noi e la voce di suo padre che gridava dalla soglia. – Fin, Artair ti ha già dato la bella notizia?
Mi voltai mentre il signor Macinnes si avvicinava. – Che notizia?
– Ci sono due posti liberi per il viaggio ad An Sgeir quest’anno. Ho convinto Gigs Macaulay a portarvi con noi.
Se mi avesse schiaffeggiato con tutta la sua forza, dubito che avrei potuto essere piú sbalordito di cosÃ. Non sapevo cosa dire.
Il sorriso del signor Macinnes scomparve. – Be’, non mi sembri troppo contento –. Guardò suo figlio e sospirò. – Proprio come Artair –. E scosse la testa, irritato. – Non vi capisco, ragazzi. Avete idea di quale onore sia essere invitati per andare alla roccia? È un momento di grande cameratismo e solidarietà . Partirete ragazzi e tornerete uomini.
– Non voglio andarci, – dissi.
– Non essere ridicolo, Fin! – Il papà di Artair era assolutamente sprezzante. – Gli anziani del villaggio sono d’accordo, la squadra ti ha accettato. È ovvio che ci vai. Che figura da stupido ci farei se tu te ne tirassi fuori adesso? Mi sono fatto in quattro perché vi accettassero. Quindi ci andrete. Fine del discorso –. Si girò e tornò verso casa.
Artair mi guardò appena, e non servirono le parole per sapere che condividevamo gli stessi sentimenti. Nessuno dei due voleva restare lÃ, nel caso in cui il signor Macinnes fosse uscito di nuovo, cosà ci dirigemmo lungo la strada fuori dal paese verso la casa di mia zia e il porticciolo di sotto. Era uno dei nostri luoghi preferiti, di solito tranquillo, con i barchini in secca lungo un lato del ripido scivolo di alaggio, e il piccolo molo ai suoi piedi che si affacciava sulle limpide acque verdi sotto la piega della scogliera che proteggeva il porto. Ci sedemmo insieme sul bordo del molo vicino all’angolo con la gru per l’alaggio, a guardare il movimento dell’acqua che distorceva i granchi dentro le nasse, tenute sott’acqua dai pescatori di crostacei finché il prezzo non saliva. Non so per quanto tempo restammo là seduti in silenzio, proprio come facevamo dopo le ripetizioni che mi dava suo padre, ad ascoltare il rumore del mare che saliva e scendeva, risucchiando le rocce che affioravano nere e luccicanti dal pelo dell’acqua, e le grida lamentose dei gabbiani sopra la scogliera. Ma, alla fine, dissi: – Io non ci vado.
Artair mi rivolse uno sguardo addolorato. – Non puoi mollarmi da solo, Fin.
Scossi la testa. – Mi dispiace, Artair, dipende da te. Ma io non ci vado, e nessuno mi può obbligare a farlo.
Se mi aspettavo di trovare un alleato in Marsaili, andai incontro a una forte delusione.
– Perché non vuoi andarci?
– Perché no.
– Be’, non è esattamente un motivo, ti pare?
Detestavo il modo che aveva Marsaili di applicare la logica a situazioni puramente emotive. Il fatto che non ci volessi andare avrebbe dovuto essere un motivo sufficiente. – Non ho bisogno di una ragione.
Eravamo nella stalla, in alto tra le balle di fieno. C’erano coperte e una scorta di birra, e pensavamo di fare l’amore ancora una volta, quella sera, alla faccia degli acari dei mietitori.
– In tutta Ness ci sono ragazzi della tua età che darebbero qualsiasi cosa per avere la possibilità di andare alla roccia, – disse. – Tutti provano grande rispetto per chi ci va.
– SÃ, certo. Uccidere un sacco di uccelli indifesi è un ottimo modo di guadagnarsi rispetto.
– Hai paura?
Negai recisamente. – No, non ho paura! – Anche se forse non era del tutto vero.
– Però è quello che penserà la gente.
– Non mi interessa cosa pensa la gente. Non ci vado, basta.
Negli occhi di Marsaili c’era uno strano miscuglio di comprensione e di frustrazione: comprensione, credo, per l’evidente forza del mio sentimento, frustrazione per il mio rifiuto di spiegarle il perché. Scosse la testa delicatamente. – Il papà di Artair…
–Non è mio padre, – la interruppi. – Non può costringermi ad andare. Trovo Gigs e glielo dico io –. Mi alzai, e lei rapidamente mi afferrò la mano.
– Fin, non lo fare. Ti prego, siediti. Parliamone.
– Non c’è niente di cui parlare –. Era questione di giorni prima della partenza. Credevo che avrei ottenuto il sostegno morale di Marsaili, per rafforzare in me una decisione che poteva avere delle conseguenze. Sapevo che cosa avrebbe detto la gente. Sapevo che gli altri ragazzi avrebbero sussurrato che ero un vigliacco, che stavo disertando una tradizione di cui tutti andavano fieri. Se si veniva accettati per An Sgeir, bisognava avere una ragione dannatamente buona per tirarsi indietro. Ma non mi importava. Stavo per abbandonare l’isola, sfuggendo alla claustrofobia della vita di villaggio, al pettegolezzo e alla meschinità , a chi serbava rancori. Non avevo bisogno di un motivo. Ma ovviamente Marsaili era convinta del contrario. Mi diressi verso l’apertura tra le balle di fieno; poi mi fermai improvvisamente, colto da un pensiero. Mi voltai. – Ma tu pensi che abbia paura?
Esitò un po’ troppo a lungo prima di rispondere. – Non lo so. So solo che ti comporti in modo strano.
E questo fu la spinta che mi bastava. – Be’, allora vattene ’affanculo –. Saltai giú sulle balle piú in basso e mi precipitai fuori dalla stalla nella luce calante del tramonto.
Il podere era uno dei molti sulle pendici piú basse sotto Crobost, una stretta striscia di terra che scendeva verso le scogliere. Gigs allevava pecore e galline, e un paio di mucche, e coltivava orzo e radici commestibili. Pescava anche, ma piú per il consumo familiare che per la vendita, e non sarebbe riuscito a sbarcare il lunario se non fosse stato per il lavoro part-time di sua moglie come cameriera in un albergo a Stornoway.
Quando fui di ritorno da Mealanais ormai si era fatto buio, e mi sedetti sulla collina sopra il podere dei Macaulay a guardare l’unica luce accesa alla finestra della cucina. La luce gettava un lungo riflesso sul cortile e vidi un gatto che lo attraversava per seguire qualcosa nel buio. Era come se il mio petto racchiudesse un uomo intrappolato con una mazza che cercava di uscire. Mi sentivo malissimo.
C’era ancora luce nel cielo lontano a ovest, lunghe strie pallide tra le file di nuvole grigio-violette. Nessuna traccia di rosso, il che non era un buon segno. Mi voltai a guardare la luce che sbiadiva e sentii freddo per la prima volta da settimane. Il vento aveva girato. La brezza tiepida e quasi mite da sud-ovest aveva invertito la direzione e ora portava con sé un brivido che scendeva dritto dall’Artico. La velocità del vento aumentava, e lo sentivo fischiare tra l’erba secca. Il tempo stava per cambiare. Quando guardai di nuovo verso il podere, vidi l’ombra di una figura alla finestra della cucina. Era Gigs. Stava lavando i piatti. Non c’era nessuna macchina nel vialetto, quindi la moglie non era ancora tornata dalla città . Chiusi gli occhi, serrai i pugni e presi la mia decisione.
Impiegai solo pochi minuti per scendere la collina fino al podere ma, appena raggiunsi la strada, un paio di fari spuntarono all’improvviso dalla salita e spazzarono tutta la brughiera nella mia direzione. Mi accucciai dietro lo steccato, accovacciato tra le canne, e guardai la macchina che si infilava nel vialetto e parcheggiava fuori dal podere. Ne uscà la moglie di Gigs. Era giovane, sui venticinque anni. Una bella ragazza, ancora in camicetta bianca e gonna nera. Sembrava stanca e si trascinò fino a spingere la porta della cucina. Dalla finestra vidi Gigs che la stringeva a lungo e poi la baciava. Ero molto deluso. Non potevo discutere di quell’argomento con Gigs quando c’era sua moglie. Mi alzai dall’erba alta, saltai la recinzione e sprofondai le mani in tasca, diretto verso la rivendita illegale di alcolici, il bothan come lo chiamavano a Lewis, sulla strada di Habost.
Erano rimasti pochi bothan ancora in funzione dopo la decisa repressione che aveva attuato la polizia. Non ho mai capito quale fosse il problema: saranno anche stati senza licenza, ma non avevano mai fini di lucro. Erano solo luoghi dove gli uomini si ritrovavano per bere qualcosa. Ma per quanto fossero illegali, io ero ancora minorenne e non mi avrebbero lasciato entrare. Vigeva ancora uno strano senso della morale. Il che non significava, però, che mettere le mani su qualcosa di alcolico fosse impossibile. Nella baracca di pietra dietro il bothan trovai una specie di riunione dei miei coetanei, seduti intorno a scheletri di vecchie macchine agricole, che tracannavano lattine di birra. In cambio di soldi e sigarette, alcuni dei ragazzi piú grandi ogni tanto uscivano a portare da bere a noi nella baracca, trasformandola in una specie di bothan dei minorenni. Qualcuno aveva acquistato un po’ di confezioni da sei, e l’aria era densa dell’odore di marijuana e del concime della stalla vicina. Alle travi era appesa una lampada a cherosene, cosà bassa che, se non si prestava attenzione, ci si sbatteva la testa.
C’erano Seonaidh, e Iain, e alcuni altri ragazzi che conoscevo da scuola. Io ero proprio depresso e avevo solamente l’intenzione di ubriacarmi. Cosà cominciai a versarmi birra in gola a fiotti. Naturalmente, tutti avevano sentito dire che io e Artair saremmo andati sulla roccia. A Ness le voci si diffondono rapide come il fuoco su una torbiera asciutta, alimentate dai venti della congettura e del pettegolezzo.
– Hai tutte le fortune, tu – disse Seonaidh. – Mio padre ha provato in tutti i modi a mandare anche me, quest’anno.
– Facciamo cambio.
Seonaidh fece una smorfia. – Perché no? – Naturalmente, pensava che scherzassi. Tutti i presenti quella sera avrebbero dato un occhio per prendere il mio posto in squadra. L’ironia della sorte era che gliel’avrei dato gratis. A chiunque. Certo, non potevo dirglielo. Non mi avrebbero mai preso sul serio o, se sÃ, avrebbero pensato che fossi pazzo. In realtà , interpretavano la mia mancanza di entusiasmo come voglia di darmi arie. La loro invidia era difficile da sopportare. E cosà non feci altro che bere.
Non sentii entrare Angel. Era piú vecchio di noi e aveva bevuto nel bothan la maggior parte della serata. Aveva portato fuori qualche birra in cambio di uno spinello. – Guarda, guarda chi si vede, l’orfano, – disse quando mi notò. Alla luce della lampada a cherosene il suo viso era tondo e giallo e fluttuava nel buio della baracca come un palloncino luminoso. – È meglio che bevi piú che puoi, figliolo, perché ad An Sgeir non si tocca alcol. Gigs è inflessibile su questo, cazzo. Niente alcol sulla roccia. Se te ne porti dietro anche solo un sorso ti butta giú da quella cazzo di scogliera –. Qualcuno gli offrà uno spinello rollato e lui se lo accese; aspirò profondamente il fumo e lo trattenne nei polmoni. Quando, infine, lo spense, chiese: – Sai che sono il cuoco, quest’anno? – Non lo sapevo. Sapevo che c’era già stato prima, e che suo padre, Murdo Dubh, era stato il cuoco per anni. Ma sapevo anche che suo padre era rimasto ucciso in un incidente su un peschereccio nel corso del febbraio tempestoso di quell’anno. A pensarci, in effetti era logico che Angel seguisse le orme del padre. Era ciò che gli uomini di Ness facevano da generazioni. – Non preoccuparti, – disse, – starò attento a metterti la giusta quantità di insetti nel pane.
Dopo che Angel se ne fu andato, i ragazzi accesero un altro spinello e se lo passarono. Ormai mi sentivo male e, dopo un paio di tiri, la claustrofobia soffocante del capanno cominciò a farmi girare il mondo intorno. – Devo andare –. Mi precipitai fuori dalla porta nell’aria fredda della sera e subito vomitai nel cortile. Mi appoggiai al muro, premendo il viso contro la pietra fredda, e mi chiesi come diavolo avrei fatto a tornare a casa.
Il mondo mi scorreva accanto sfocato. Non ho idea di come riuscii ad arrivare fino alla strada per Crobost. Dei fari mi presero in pieno, e mi bloccai come un coniglio, restando a barcollare sul posto, finché un grosso veicolo non mi sorpassò con un tale spostamento d’aria da farmi cadere nel fosso. Non aveva piovuto nelle ultime settimane, ma l’acqua residua dentro la torba, che scolava ancora in un rivolo di fango denso e marrone sul fondo del fosso, mi ricoprà come una melma, attaccandosi ai vestiti e scorrendomi a rivoli sul viso. Annaspai e imprecai e mi tirai fuori rotolandomi sul bordo irto di spini. Rimasi là per quelle che mi sembrarono ore, anche se probabilmente furono solo pochi minuti. Ma bastarono perché il freddo del vento di tramontana mi gelasse fino all’osso. Mi rialzai a quattro zampe con fatica, battendo i denti, e alzai gli occhi scorgendo un altro veicolo che scendeva l...
Indice dei contenuti
- Copertina
- L'isola dei cacciatori d'uccelli
- Copyright
- Prologo
- Uno
- Due
- Tre
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- Sei
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- Otto
- Nove
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- Undici
- Dodici
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- Diciotto
- Diciannove
- Venti
- Ringraziamenti