Paul Auster
Nel paese delle ultime cose
Traduzione di Monica Sperandini
Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una scompaiono e non ritornano piú. Posso raccontarti di quelle che ho visto, di quelle che non esistono piú, ma temo di non averne il tempo. Tutto sta accadendo cosí velocemente ora, che non riesco a tenervi dietro.
Non mi aspetto che tu capisca. Non hai mai visto niente di tutto questo, e anche se ci provassi non potresti neppure immaginarlo. Queste sono le ultime cose. Una casa un giorno è lí e il giorno dopo è sparita. Una strada lungo la quale solo ieri camminavi, oggi non esiste piú. Persino il tempo è in un flusso costante. Un giorno di sole seguito da un giorno di pioggia, un giorno di neve seguito da un giorno di nebbia, il caldo e poi il freddo, il vento e poi la calma, un periodo di freddo pungente e poi oggi, nel mezzo dell’inverno, un pomeriggio di luce fragrante, caldo al punto da far sudare. Quando vivi in città impari a non dare nulla per scontato. Chiudi gli occhi per un attimo, ti giri a guardare qualcos’altro e la cosa che era dinanzi a te è sparita all’improvviso. Niente dura, vedi, neppure i pensieri dentro di te. E non devi sprecare tempo a cercarli. Quando una cosa sparisce, finisce.
Ecco come vivo, continuava la sua lettera. Mangio poco. Quel tanto che basta per tirare avanti passo dopo passo, e niente piú. Talvolta mi assale la debolezza, e sento che non riuscirò a muovere il prossimo passo. Ma me la cavo. Nonostante gli sbandamenti riesco a tirare avanti. Dovresti vedere come me la cavo bene.
Le strade della città sono dappertutto, e non ce ne sono due uguali. Metto un piede davanti all’altro, e poi l’altro di fronte al primo, e poi spero di farlo ancora. Niente di piú. Devi capire come vanno le cose per me. Mi muovo. Respiro l’aria che mi è data. Mangio il meno possibile. Non importa quello che ti dicono, l’unica cosa che conta è stare in piedi.
Ricordi quello che mi dicesti prima che partissi? William è scomparso, dicesti, e anche se l’avessi cercato ovunque non l’avrei mai trovato. Quelle furono le tue parole. E allora ti risposi che non m’importava di ciò che dicevi, che avrei trovato mio fratello. E poi salii su quell’orribile nave e ti lasciai. Quanto tempo è passato da allora? Non ricordo piú. Anni e anni, credo. Ma è solo una supposizione. Non ci penso. Ho perso il conto e niente mi riporterà mai a quello esatto.
Questo è certo. Se non fosse per la fame non potrei andare avanti. Devi abituarti a campare con il meno possibile. Quando vuoi meno, finisci per essere contento del meno, e meno ti serve meglio stai. Ecco cosa fa la città. Ti capovolge i pensieri. Ti fa venir voglia di vivere e intanto cerca di strapparti via la vita. E non c’è via d’uscita. Che tu ci riesca o no. E se ci riesci una volta non puoi essere certo di farcela anche quella successiva. Ma se non ci riesci subito, non ce la farai mai piú.
Non so perché ti sto scrivendo. A essere sincera non ti ho quasi mai pensato da quando sono arrivata qui. Ma all’improvviso, dopo tutto questo tempo, sento che c’è qualcosa da dire e che se non lo scrivo subito mi scoppierà la testa. Non importa che tu legga. Non importa neppure che io spedisca – ammesso che lo possa fare. Forse tutto si riduce a questo. Ti sto scrivendo perché tu non sai nulla. Perché sei tanto lontano da me e non sai nulla.
Ci sono persone tanto magre, scriveva, che talvolta vengono spazzate via. I venti in città sono feroci, salgono a folate dal fiume e ti fischiano nelle orecchie, sospingendoti avanti e indietro, sollevando sul tuo cammino cartacce e rifiuti. Spesso capita di vedere i piú magri procedere a gruppi di due o tre, a volte sono famiglie intere, legate insieme da corde e catene per fare zavorra l’uno con l’altro contro le raffiche. Altri rinunciano del tutto a uscire, nascondendosi sotto portoni e porticati perché persino il cielo piú sereno sembra loro una minaccia. Meglio aspettare tranquillamente nel proprio angolo, pensano, piuttosto che venire scaraventati contro le pietre. È anche possibile diventare talmente bravi nel digiunare che alla fine si riesce a non mangiare proprio niente.
Ed è anche peggio per quelli che combattono la fame. Pensare troppo al cibo può creare solo problemi. Sono gli ossessionati, coloro che rifiutano di arrendersi ai fatti. Perlustrano le strade a tutte le ore raccogliendo pezzetti di cibo, correndo enormi rischi persino per una briciolina. Non importa quanto riescono a trovare, non sarà mai abbastanza. Mangiano senza mai saziarsi, accanendosi sul cibo con impeto animalesco, strappandolo con dita ossute, masticando con mascelle tremanti. Gran parte di quanto hanno in bocca gli cola giú lungo il mento, e quel che riescono a inghiottire viene di solito vomitato dopo qualche minuto. È una morte lenta, come se il cibo fosse un fuoco, una follia che li brucia dall’interno. Credono di mangiare per rimanere in vita, ma alla fine sono loro a essere mangiati.
Il risultato è che il cibo diventa una faccenda complicata, e se non impari ad accettare quanto ti è dato non sarai mai in pace con te stesso. La carenza di cibo è frequente e ciò che hai gustato oggi molto probabilmente domani non ci sarà piú. I mercati comunali sono forse i luoghi piú sicuri e affidabili dove fare la spesa, ma i prezzi sono alti e la scelta mediocre. Un giorno si trovano soltanto ravanelli, un altro solo torta che sa di cioccolato stantio. Cambiare regime alimentare cosí spesso e cosí drasticamente può essere deleterio per lo stomaco. Ma i mercati comunali hanno il vantaggio di essere sorvegliati dalla polizia, e almeno sai che quello che compri lí finirà nel tuo stomaco e non in quello di qualcun altro. Il furto del cibo è pratica talmente comune nelle strade da non essere neppure considerato un reato. Al tutto si aggiunga che i mercati comunali sono l’unica forma legalmente autorizzata di distribuzione del cibo. In giro per la città ci sono molti privati che lo vendono, ma la loro merce può essere confiscata in qualsiasi momento. Persino chi si può permettere di pagare alla polizia le bustarelle necessarie per rimanere in affari ha sempre presente la costante minaccia dei furti. I ladri derubano anche i clienti dei mercati privati, ed è accertato statisticamente che ogni due acquisti si verifica una rapina. Mi sembra che non ne valga proprio la pena, rischiare grosso per il piacere effimero del sapore di un’arancia o del prosciutto cotto. Ma la gente è insaziabile: la fame è una sventura quotidiana e lo stomaco è un pozzo senza fondo, un buco grande quanto l’universo. Pertanto i mercati privati fanno affari, nonostante gli ostacoli, spostandosi da un posto all’altro, costantemente in moto, comparendo per un’ora o due in qualche luogo e poi scomparendo dalla vista. Attenzione, però: se devi procurarti il cibo nei mercati privati, evita con cura i venditori abusivi, perché lí regna la frode e molti venderebbero qualsiasi cosa pur di trarne profitto: uova e arance riempite di segatura, bottiglie di piscio che fanno passare per birra. No, non c’è nulla che la gente non sarebbe capace di fare, e prima lo impari meglio sarà per te.
Quando cammini per le strade, continuava, devi ricordarti di fare solo un passo alla volta. Altrimenti cadrai inevitabilmente. Devi sempre tenere gli occhi ben aperti, guardare su, guardare giú, guardare avanti, guardare indietro, attento all’apparire di altri corpi, all’erta per ogni imprevisto. Scontrarsi con qualcuno può essere fatale. Due persone che si scontrano cominciano a prendersi a pugni. Oppure cadono entrambe a terra e non tentano neanche di rialzarsi. Prima o poi arriva il momento in cui non cerchi piú di rialzarti. Perché le membra sono doloranti e non esiste nessuna cura per questo. E qui è molto peggio che altrove.
I detriti sono un problema tutto particolare. Devi imparare a superare i solchi invisibili, gli improvvisi ammassi di rocce, le carreggiate poco profonde, in modo da non inciampare o ferirti. E poi ci sono le barriere, le cose peggiori, e devi usare l’astuzia per evitarle. Laddove sono crollate le costruzioni o è stata riunita l’immondizia, si ergono grandi cumuli nel mezzo della strada, che bloccano il passaggio. Gli uomini costruiscono queste barricate ogni volta che vi è materiale disponibile, e poi vi salgono sopra con bastoni o fucili o mattoni, e aspettano sulle loro postazioni che la gente vi passi accanto. Hanno il controllo della strada. Se vuoi accedervi devi dare alle guardie qualsiasi cosa ti chiedano. A volte è denaro, a volte è cibo; a volte è sesso. Le bastonate sono ordinaria amministrazione e ogni tanto si sente parlare di un omicidio.
Nuove barriere sorgono, le vecchie scompaiono. Non si può mai sapere quale strada scegliere e quale evitare. Poco per volta, la città ti deruba di ogni certezza. Non può mai esservi un percorso fisso e puoi sopravvivere solo se niente ti è necessario. Senza alcun preavviso devi essere in grado di cambiare, di lasciar perdere quanto stavi facendo, di muovere nella direzione opposta. Di conseguenza devi imparare a leggere i segnali. Là dove gli occhi non arrivano, può esserti d’aiuto il naso. Il mio olfatto si è acuito in modo sorprendente. Nonostante gli effetti collaterali – la nausea improvvisa, i capogiri, la paura che inspiro insieme all’aria fetida che mi pervade – esso mi protegge quando devo svoltare agli angoli, una delle cose piú pericolose. Infatti dalle barriere si leva un tanfo particolare che si impara presto a riconoscere, persino da lontano. Composti di pietre, cemento e legno, i cumuli contengono anche rifiuti e pezzi di intonaco: quando il sole vi batte sopra produce un’esalazione piú intensa che altrove, e la pioggia cade sulla calcina facendola fermentare e fondere, cosicché anche questa lascia trasudare la sua puzza, e quando i due odori si mischiano, alternando accessi di secco e di umido, comincia a sprigionarsi il fetore della barriera. L’essenziale è non assuefarsi. Perché le abitudini sono letali. Anche se fosse per la centesima volta, devi andare incontro a ogni cosa come se non l’avessi mai vista prima. Non importa quante volte è successo, deve essere sempre la prima volta. Tutto ciò è quasi impossibile, lo capisco, ma è una regola assoluta.
Potresti pensare che prima o poi tutto sia destinato a finire. Le cose si disfano e svaniscono, e niente di nuovo viene creato. La gente muore, i bambini si rifiutano di nascere. In tutti gli anni che ho trascorso qui, non ricordo di aver visto un solo neonato. Eppure ci sono sempre persone nuove che rimpiazzano quelle scomparse. Arrivano in massa dalla campagna e dai paesi circostanti, trascinandosi dietro carri su cui sono accatastati i loro averi o guidando vecchie auto scoppiettanti; tutti affamati, tutti senza casa. Finché non hanno imparato i modi della città, questi nuovi venuti sono facili vittime. A molti di loro vengono fregati tutti i soldi ancor prima che finisca il primo giorno. Alcuni pagano per appartamenti inesistenti, altri sono indotti ad anticipare denaro per lavori che non verranno mai eseguiti, e altri ancora spendono i loro risparmi per comprare cibo che risulta essere cartone dipinto. Questi sono solo i trucchi piú comuni. Conosco un uomo che si guadagna da vivere stando fermo di fronte al vecchio municipio chiedendo denaro ogni volta che un nuovo arrivato lancia un’occhiata all’orologio della torre. Se quello contesta, il suo assistente, che fa la parte del sempliciotto, finge di accettare il rituale di guardare l’ora e pagarlo, cosí il forestiero pensa che si tratti di una pratica comune. La cosa stupefacente non è tanto il fatto che esistano i truffatori, ma che sia cosí facile per loro riuscire a spillare denaro alla gente.
Per chi ha ancora un posto dove vivere, c’è sempre il pericolo di perderlo. La maggior parte delle abitazioni non appartiene a nessuno e pertanto non hai alcun diritto come affittuario: nessun contratto d’affitto, nessuna base legale a cui appellarti se qualcosa ti va storto. Non è raro essere sfrattati con la forza e gettati in strada. Un gruppo armato di bastoni e fucili ti irrompe in casa e ti ordina di sgomberare, e quale altra scelta ti rimane, se non hai la possibilità di sopraffarli? Questa pratica viene chiamata invasione abusiva, e sono poche le persone in città che non abbiano, presto o tardi, perso la casa in questo modo. Ma, anche se fossi abbastanza fortunato da sfuggire a questa particolare forma di sfratto, non puoi mai sapere quando cadrai preda di uno dei proprietari fantasma. Sono profittatori che terrorizzano quasi tutti i quartieri della città costringendo la gente a pagare tangenti per poter rimanere nei loro appartamenti. Si proclamano proprietari dell’immobile, defraudano gli occupanti e non vengono quasi mai contrastati.
Per chi non ha casa, tuttavia, la situazione non può durare. Non esistono case vuote. Le agenzie immobiliari però riescono sempre a realizzare qualche affare. Ogni giorno pubblicano annunci sui giornali offrendo appartamenti in maniera fraudolenta per attrarre gente nei propri uffici e ottenere una caparra. Nessuno è tratto in inganno da questa pratica, anche se vi sono ancora molte persone bramose di investire a fondo perduto i loro ultimi soldi in queste promesse vuote. Arrivano la mattina presto e aspettano pazientemente davanti agli uffici, in coda, talvolta per ore, solo per poter stare seduti con un agente per dieci minuti e osservare foto di edifici situati lungo strade alberate, di camere confortevoli, di appartamenti arredati con tappeti e sedie in pelle morbida; scene piene di pace che evocano l’aroma del caffè proveniente dalla cucina, il vapore dell’acqua calda in bagno, i colori allegri dei vasi di piante allineati sul davanzale. A nessuno sembra interessare il fatto che queste fotografie sono state scattate piú di dieci anni fa.
Molti di noi sono ritornati bambini. Non è che ci costi un grosso sforzo, capisci, o che qualcuno ne sia veramente consapevole. Ma quando scompare la speranza, quando ti accorgi di aver smesso di sperare persino nella possibilità di sperare, tendi a riempire gli spazi vuoti con sogni, pensieri e piccole storie infantili solo per tirare avanti. Anche le persone piú indurite non riescono a evitarlo. Senza sentimentalismi o preludi d’altro tipo, interrompono quanto stanno facendo, si mettono seduti e cominciano a parlare dei desideri che coltivano nella loro mente. Il cibo, naturalmente, è uno degli argomenti preferiti. Spesso capita di sorprendere gente intenta a descrivere con dettagliata meticolosità un pranzo, a cominciare da minestre e antipasti per arrivare lentamente al dolce, indugiando su ogni sapore e ogni spezia, su tutti i vari aromi e gusti, e soffermandosi ora sul metodo di preparazione, ora sull’effetto del cibo stesso, dal primo contatto del palato fino al graduale e crescente senso di pace provocato dal boccone che scende dalla gola al ventre. Queste conversazioni talvolta vanno avanti per ore e hanno una procedura assai rigorosa. Non devi mai ridere, per esempio, e non devi mai permettere alla tua fame di prendere il sopravvento. Nessuno scoppio di risa, nessun sospiro estemporaneo. Questi infatti condurrebbero solo al pianto e non c’è niente di meglio delle lacrime per rovinare una conversazione sul cibo. Perché si ottengano i risultati migliori, devi far sí che la tua mente balzi sulle parole che escono dalla bocca degli altri. Se le parole possono struggerti sarai in grado di dimenticare la fame del presente ed entrare in quella che la gente chiama «l’arena del nimbo corroborante». C’è persino chi sostiene che vi sia valore nutritivo in queste conversazioni sul cibo, sempre che siano sostenute con la giusta concentrazione e un uguale desiderio di credere alle parole di coloro che partecipano.
Tutto questo appartiene al linguaggio dei fantasmi. Ci sono molte altre possibili conversazioni in questo linguaggio. Molte di queste iniziano con la formula rituale «vorrei». Poi possono esprimere qualsiasi desiderio, basta che sia qualcosa che non può avverarsi. Vorrei che il sole non tramontasse mai. Vorrei che mi crescessero i soldi in tasca. Vorrei che la città tornasse com’era ai vecchi tempi. Non so se rendo l’idea. Cose assurde e infantili, senza significato né senso della realtà. In genere, tutti pensano sempre che per quanto ieri le cose andassero male, fosse comunque meglio di oggi. E quelle di due giorni fa erano ancora meglio di ieri. Piú si torna indietro nel tempo e piú il mondo diventa bello e desiderabile. Ogni mattina ti svegli controvoglia per affrontare qualcosa che è sempre peggio di quanto hai affrontato il giorno precedente; tuttavia, a forza di parlare del mondo che esisteva prima che andassi a dormire, ti puoi illudere che il giorno presente sia una pura e semplice apparizione, reale né piú né meno dei ricordi di tutti gli altri giorni che porti dentro di te.
Capisco perché la gente gioca a questo gioco, ma per quanto mi riguarda, non ci provo nessun gusto. Mi rifiuto di parlare il linguaggio dei fantasmi, e ogni volta che sento gli altri parlarlo, mi allontano o mi metto le mani sulle orecchie. Sí, le cose sono cambiate per me. Ricordi che ragazzina allegra ero? Non ti stancavi mai di ascoltare le mie storie, i mondi che creavo per noi affinché potessimo entrarvi per giocare. Il Castello senza ritorno, la Terra della tristezza, la Foresta delle parole dimenticate. Ti ricordi? Quanto mi piaceva dirti le bugie, farti credere alle mie storie e osservare il tuo viso farsi serio mentre ti conducevo da un luogo eccezionale all’altro. Poi ti dicevo che era tutto inventato e tu cominciavi a piangere. Amavo quelle lacrime tanto quanto il tuo sorriso. Sí, probabilmente ero un po’ perversa, persino a quei tempi, con quei vestitini che mia madre era solita farmi indossare, con le mie ginocchia ossute e coperte di lividi e la fica glabra da bambinetta. Ma mi amavi, vero? Mi hai amato fino a impazzire.
Ora sono tutta buon senso e calcolo. Non voglio essere come gli altri. Vedo dove li porta la loro immaginazione e non permetterò che accada anche a me. I fantasmi muoiono sempre nel sonno. Per un mese o due vanno in giro con uno strano sorriso in volto, e un magico alone di diversità li circonda, come se avessero già cominciato a sparire. I segnali sono inconfondibili, persino i particolari sono premonitori: il lieve rossore sulle guance, gli occhi all’improvviso piú grandi del solito, il passo strascicato, l’odore acre dei genitali. Eppure la loro è probabilmente una morte felice. Sono disposta a concederglielo. Talvolta li ho quasi invidiati. Ma alla fine non riesco a lasciarmi andare. Non lo permetterò. Continuerò a tenere duro finché mi sarà possibile, anche se questo dovesse uccidermi.
Altre morti sono piú drammatiche. Ci sono i Maratoneti, per esempio, una setta di persone che corrono lungo le strade il piú velocemente possibile, flagellandosi con le braccia come forsennati, lanciando pugni in aria, urlando fino a non aver piú aria nei polmoni. Perlopiú si muovono a gruppi di sei, dieci, persino venti, tutti insieme, alla carica lungo le strade senza mai fermarsi durante il loro percorso, correndo e correndo finché non crollano sfiniti dalla stanchezza. Lo scopo è morire il piú in fretta possibile, sforzare se stessi fino a che il cuore non regge piú. I Maratoneti dicono che nessuno avrebbe il coraggio di farlo da solo. Ma, correndo tutti insieme, ogni membro del gruppo è trasportato dagli altri, incoraggiato dalle urla, lanciato nella frenesia di una resistenza autopunitiva. E qui sta l’ironia. Per uccidere te stesso correndo, devi prima allenarti per diventare un buon corridore poiché altrimenti non avresti la forza di spingerti cosí oltre. Pertanto i Maratoneti si sottopongono ad ardui allenamenti per andare incontro al loro destino e se per caso inciampano lungo la loro strada fatale, sanno come riprendersi immediatamente e continuare. Penso che sia una sorta di religione. Ci sono parecchi uffici sparsi in tutta la città – uno per ognuna delle nove zone di censimento – e per essere ammesso devi affrontare una serie di difficili iniziazioni: trattenere il respiro sott’acqua, digiunare, mettere la mano sulla fiamma di una candela, non parlare ad anima viva per sette giorni. Una volta ammesso, devi sottoporti al codice del gruppo. Ciò comporta dai sei ai dodici mesi di vita in comune, un rigoroso regime di esercizi e allenamenti e un apporto nutritivo di cibo gradualmente ridotto. Quando un membro è pronto a intraprendere la corsa mortale, ha raggiunto allo stesso tempo un livello di massima forza e massima debolezza. In teoria è in grado di correre all’infinito e nel contempo il suo corpo ha esaurito tutte le energie. Questa combinazione produce il risultato desiderato. Il mattino del giorno stabilito parti con i tuoi compagni e corri finché non evadi dal tuo stesso corpo; corri e urli finché voli via lontano da te. Alla fine, la tua anima si innalza libera, il tuo corpo crolla a terra e tu sei morto. I Maratoneti affermano che il loro metodo è sicuro nel novanta per cento dei casi – il che significa che quasi nessuno ha bisogno di fare una seconda corsa verso la morte.
Le morti solitarie sono piú comuni. Ma anche queste sono state trasformate in una specie di rituale pubblico. La gente si arrampica sui luoghi piú alti al solo scopo di buttarsi giú. L’Ultimo salt...