Nel ’37 mio padre uccise un toro, in un piccolo paese nel nord della Spagna. Stava con altri tre ufficiali seduto a un caffè, giocando a carte e bevendo il peggior vino rosso del mondo. Il tavolino, coperto di carte, bicchieri, soldi, bottiglie, posacenere, si apriva come una falla nella noia assolata del primo pomeriggio. Un capannello di curiosi difendeva quella chiazza di colore. Erano diciotto ore che giocavano e ormai mio padre non distingueva piú nitidamente i semi e i valori delle carte. Continuava ad aprire e a chiudere il piccolo ventaglio, a scartare attendere inserire puntare mostrare, ma senza piú seguire alcuna logica, solo per inerte disperazione. Aveva perso tutto, i soldi in tasca e quelli lasciati a casa, e forse anche la casa. Nell’ultima ora aveva provato a calcolare a quanto poteva ammontare grosso modo il suo debito, ma anche le somme piú elementari gli riuscivano difficili e ad ogni mano la cifra si modificava. Aggiornarla era impossibile, e poi qual era il numero da modificare? Lunghe colonne piene di zeri sfilavano nella mente come truppe esauste in ritirata. Da sei ore aderiva meccanicamente a qualunque invito e a qualunque rilancio nella speranza assurda di rifarsi, o forse perché non aveva forze sufficienti per tirarsi indietro. Ogni tanto alla sua destra, ma molto, molto lontano, sentiva la voce rauca di uno spagnolo consigliargli delle mosse che non capiva. Avrebbe voluto gettare le carte e sdraiarsi per terra a dormire, lí, tra i piedi della gente che seguiva il gioco sicuramente con piú interesse di lui. Due dei giocatori avevano vinto o perso cifre risibili, per loro la notte e la mattinata erano passate invano. Il terzo, un giovanotto dallo sguardo gelido e dalle mani piccole e tranquille, aveva ora i soldi che mio padre teneva in tasca e quelli lasciati a casa, e la casa. Faceva i suoi calcoli con apparente precisione, tenendo tutto appuntato sul retro di una busta celestina. Nonostante i movimenti calibrati e la calligrafia precisa, era completamente ubriaco, non vedeva e non sentiva nulla e forse le poste che ritirava dal centro del tavolo non sempre gli spettavano, ma la decisione con cui allungava la mano non lasciava ombra di dubbio negli altri, ancora piú annebbiati dal vino. Fin dall’inizio, d’altronde, aveva vinto piú o meno una mano ogni due, e quasi gli sembrava scorretto modificare quel ritmo. A un certo punto qualcuno disse basta, o a qualcuno parve di avere inteso cosí, e la partita ebbe termine. L’ufficialetto fece con attenzione gli ultimi calcoli sbagliati, bevve in un fiato un altro bicchiere per schiarirsi la voce, e poi, con tono garbato ma fermo, comunicò a tutti i risultati finali. Mio padre capí ad un tratto di aver perso cento volte la cifra piú alta che era riuscito a immaginare. Era quello un numero stupefacente, meraviglioso, irreale. Lo stupore si disegnò anche sul viso magro del vincitore, anch’egli fu sorpreso dall’enormità del credito, quasi deluso: una somma cosí forte finiva per coincidere con il nulla. Ci fu un vasto attimo di silenzio in cui vagarono insoddisfatte le intelligenze di mio padre, del suo nemico, degli altri due giocatori e anche della piccola folla che non riusciva a comprendere come si sarebbe potuta aggiustare una faccenda del genere. Davanti al caffè c’era un recinto dove riposava un toro nero. Fammi vedere come uccidi quel toro e non mi devi piú nulla, disse l’ufficialetto, alle parole aggiungendo con le manine un gesto di incoraggiamento. Caracollando mio padre si avvicinò al recinto, lo scavalcò con uno sforzo supremo e si diresse incontro alla bestia. Si sentiva l’uomo piú ridicolo dell’universo, stava per compiere una azione talmente stupida che mai sarebbe riuscito a cancellarne la vergogna. Lo spagnolo che gli consigliava le mosse gli suggeriva ora la tattica migliore per affrontare il toro che, accortosi della goffa minaccia, s’era stancamente sollevato da terra e con lo zoccolo disegnava la polvere. Mio padre sperò di non morire, sarebbe stata una fine troppo disonorevole, e con cautela estrasse la pistola. Per un momento pensò che avrebbe potuto spararsi, ma per i suicidi non aveva mai nutrito un’alta considerazione, li trovava forse ancora piú ridicoli dei toreri. Cosí il toro abbozzò una mogia carica e mio padre, a cinquanta passi, col braccio teso, prese la mira. Tra gli occhi, era il posto piú sicuro, il meno semplice. Fino ad allora aveva sparato soltanto a delle sagome mansuete, con tanto di bersaglio. Quando il toro fu a cinque metri tirò il grilletto. Il proiettile si stampò sulla fronte della bestia che arrancò ancora per alcuni passi e infine cadde stramazzata sul corpo incredulo di mio padre.
Ogni mattina, alle nove, mi affaccio alla finestra e a colpo sicuro riconosco in lontananza il traghetto che giunge dal continente. Lo seguo con impazienza mentre si avvicina, e quasi credo che il mio cuore stia in apprensione nell’attesa di qualcuno. Eppure non ho dubbi: Fernando non verrà. Forse altro non è che il tentativo d’accostarmi a un’abitudine, il modo piú semplice per non sentirmi troppo distante dagli abitanti del paese, che regolarmente a quest’ora abbandonano le loro occupazioni e insieme guardano verso il mare. Puntuale il piccolo porto li raccoglie tutti, e questo è il momento in cui nel loro strano dialetto, per me del tutto incomprensibile, stringono accordi, si confidano, talvolta litigano. In un paio di occasioni m’è parso che qualcuno indicasse la mia finestra, e ho sentito ridere. Il traghetto scarica sacchi di patate, cassette di frutta, ceste di pane, cartoni d’acqua minerale, e di tanto in tanto qualche turista. Nei primi timidi sguardi che costoro lanciano attorno, spero di veder tradito il motivo che li ha spinti fin qui, l’impulso segreto che li ha costretti, contro ogni buon senso, a venire in quest’isola desolata, all’île de Seine. Disperdono confusamente i loro passi per i viottoli, allungano gli occhi nelle cucine delle case, forzano qualche vecchio pescatore alla conversazione, e inevitabilmente se ne vanno con il traghetto delle due, senza aver neppure mangiato e soprattutto senza avermi fatto capire in alcun modo cosa cercassero e cosa si portano via. Comunque nel vederli partire provo un senso di sollievo. Cosí ogni volta stringo e sciolgo vuote complicità, rinnovo la sensazione di fastidio e di estranea appartenenza verso questo posto, senza però mai pensare che ci vorrebbe un minuto a preparare la valigia. Ricordo: dalla prua mi apparve oltre la leggera foschia del mattino un breve anfiteatro di case, un borgo posato sulle acque, quasi da esse generato. Nulla rivelava una terra. Per un attimo ho immaginato un paese sorto sul dorso di una balena, un luogo sfuggente e squamoso. Ma la terra c’era, sottile sottile, un foglio di materia opaca attaccato tenacemente alle onde, dove alto e basso restano concetti vaghi, perché tutto è scritto su un unico piano orizzontale. È un favore dell’Atlantico e delle sue invadenti maree. Le case stanno tutte abbracciate con morbosità, impercettibilmente distinte da stradine in pietra incastonate a forza tra muro e muro. Finestre, scale, porte, si aprono con violenza sui vicoli, quasi spingessero sullo spazio vuoto per comprimerlo, ridurlo ancora e finalmente aderire alle mura che le fronteggiano e che da sempre le attendono. Appena sceso dal traghetto ho avuto l’impressione di un paese indefinito e senza colori, uno di quei rapidi schizzi a carboncino, un poco sporchi, fatti di tetti e controtetti, camini troppo grandi, fumo, strade impercorribili, linee appena accennate e poi smarrite, prospettive incerte, angoli in sbilenca successione, d’un piccolo mondo che, sospeso tra la sparizione e il consolidamento, si difende come può e sa. Alberghi ho scoperto subito che non ce ne sono e cosí mi sono messo in cerca di una stanza, ma la gente non capiva o faceva finta di non capire. Poco alla volta la mia richiesta diventava sempre piú timorosa e piena di esitazioni, e potevo considerarmi soddisfatto se il rifiuto giungeva rapido, senza lunghi silenzi intriganti, senza occhiate curiose. Ho provato allora a variare di continuo atteggiamento, talvolta ero un turista di passaggio, talaltra ero deciso a fermarmi per qualche mese, con qualcuno ero gentilissimo, con altri brusco e secco. Il risultato però era sempre lo stesso. E cambiare stile non serviva, perché le persone cui mi rivolgevo cambiavano ancora piú velocemente. Alti, bassi, scuri di carnagione, slavati, dai visi imprecisi o fortemente marcati, gente di una schiatta imprecisabile che sembra comprenderle tutte solo per deprimerle. Avevo davanti un incrocio foltissimo di tipi, una specie di collezione minore di tutte le razze europee. Nella stessa cucina sono riuscito a parlare con un’intera tipologia umana, fiacca ma completa, che rideva dei miei modesti travestimenti. Attutiscono le differenze la medesima aria sospetta, lo stesso modo obliquo di guardare, le risposte comunque elusive. Cosí sono tornato al porto dopo aver setacciato invano l’interno del paese. Clo stava seduta sulle valigie. Mi ha tirato per un braccio fino a una porta poco distante, d’un bel rosso fuoco. Una donna incinta è venuta ad aprire e subito dietro a lei c’era un uomo. Sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla rassomiglianza tra i due: entrambi biondi, alti, con i tratti leggeri, delicati, e il mezzo sorriso che lui aveva sulle labbra si completava dolcemente su quelle di lei. È una casa a due piani e ora al secondo piano c’è la nostra camera, con tanto di vista sul mare. Sul davanzale s’accompagnano due vasi di gerani bruciati dal vento.
Caro Fernando, questa è la prima lettera che ti scrivo da quando ci conosciamo. Vent’anni senza una riga, sembrerebbe strano, non trovi?; ma forse non c’era nulla di importante da dire. Non verrai, questo è chiaro. Quando ci siamo salutati alla Gare St. Lazare, nell’immancabile pioggerella di ogni saluto, con un solo sguardo ho misurato l’abisso di tristezza in cui precipitavi. Portando la valigia di Clo verso il treno, ciondolavi la testa senza il minimo decoro. Avevi la fronte lucida e la voce piagnucolosa mentre dicevi andate andate, vi raggiungerò tra qualche giorno, ho cose da sbrigare. Ma quali cose, Fernando? Mi hai fatto pena e ribrezzo. Devi tenere bestialmente alla ragazza. Non so cosa sia avvenuto fra di voi, ma temo che il tuo ritardo si sia fatto definitivo per motivi che se da una parte mi rimangono totalmente oscuri, dall’altra appaiono evidenti: la fissavi in un modo talmente amaro, la stringevi con tanta forza, la carezzavi cosí teneramente, che il tuo saluto mi è parso subito un addio. Mi hai fatto pena e ribrezzo, mi piace ripetertelo, e mi dispiace. Da quando ti conosco oggi è la prima volta che ti scrivo e che sono cosciente di tenere il coltello dalla parte del manico. Certo, tu sai molto di me, non dimentico purtroppo, ma vedere le tue mani sanguinare è pur sempre uno spettacolo. E poi ricorda: tutto quello che puoi fare contro di me, mi è affatto indifferente. Aggiungere un altro letto dunque non sarà necessario, forse ci disprezziamo troppo per dividerci un’isola cosí piccola. Mi irrita soltanto il fatto di star male in un posto che tu hai scelto per me. A Clo parlo spesso della nostra antica amicizia, delle scuole, delle donne, delle corse alla quercia, ma non è facile spiegarsi, tradurre tutto il mio fastidio in gesti e sillabe chiare e distinte. Sai, mi è difficile raffreddare ogni ingiuria sulle labbra. Stamani ho provato a raccontarle del nostro primo viaggio a Parigi, dopo gli esami di maturità. Mi ricordo ancora nettamente la visita al Père Lachaise, con quelle due ragazze conosciute al caffè. Dovevamo portare un mazzo di fiori sulla tomba di Baudelaire, e dopo un’ora scoprimmo che era sepolto da un’altra parte. Io mi sedetti su una panchina bagnata con i fiori e la ragazza piú brutta, e tu sparisti con l’altra. Ancora mi chiedo come hai fatto, in un cimitero... Ritornaste abbracciati, ridendo. È un grande poeta, disse la tua ragazza, il ecrira les arbres du mal. Mi prendesti i fiori di mano e li mettesti su una tomba su cui c’era scritto soltanto Lola. Una tomba bianchissima. Io ero rimasto seduto un’ora davanti a Lola e non ci avevo fatto caso, lo sguardo per terra, tra la ghiaia e le scarpe sporche, ogni tanto una mezza parola con la francesina seduta accanto, un accenno al tempo o alla città, giusto per non sembrare scortese, e la testa chissà dove, forse tra le sue cosce. Ricordo che le ragazze rimasero commosse da quel tuo gesto, e di sicuro in quel momento ognuna avrebbe volentieri preso il posto di Lola, sotto il marmo freddo e i bei fiori. Una delle due ti regalò una spilletta d’oro e di smalto, una piccola mongolfiera che t’appuntasti sul bavero della giacca come fosse un pegno d’amore, come se te la fossi appuntata direttamente sul cuore. Il giorno dopo la vendesti per una miseria a un rigattiere sul Lungosenna. Questo ho provato a raccontare a Clo, dapprima cercando di farle intendere ogni passaggio, rallentando e ripetendo se la vedevo smarrita, e poi a ruota libera, senza piú curarmi di nulla, per me solo, aggrovigliando le parole ai gesti. Al silenzio del posto lei aggiunge il suo e talvolta mi sembra di battere in una campana di stoffa, che ogni frase annulli la precedente e che tutto si perda in un ronzio lontano. Le ho detto se voleva aggiungere un paio di righe in fondo alla lettera, ma non ha dato segni di risposta. Nei suoi occhi diseguali mi ha tenuto come su una bilancia celeste.
Oggi Clo ed io con pochi minuti di cammino ci siamo spinti sino al faro. Lungo la strada abbiamo incrociato quattro persone che venivano verso il paese e ad ognuna ho rivolto un saluto, un lieve cenno del capo, una mano alzata, un sorriso. Non ho ottenuto risposte. Vorrei che tra me e questa gente scendesse una grata di cortesia, probabilmente mi sentirei piú tranquillo. Mi sembra di avere qualcosa da nascondere e da proteggere, di essere sul punto di tradire un segreto talmente grande che neanche io conosco. Una confessione tutta ignota mi prude in gola, una sabbia di parole sconosciute che potrebbe con un salto straripare sulla prima casuale domanda... Eppure non ho mai fatto nulla e se qualcosa in questa vita è avvenuto, se la vita stessa è avvenuta, è stato a dispetto del mio consenso o del mio rifiuto. So di avere alle spalle, sulle spalle, avvenimenti spaventosi, giorni scellerati, esistenze divelte: ne sento talvolta il peso, mai la colpa. Temo però che qualcosa si esprima attraverso di me, che qualcuno con le labbra serrate e il cuore rigido agiti una voce nello stomaco e mi spalanchi a forza le mascelle, che la terra intera racconti i suoi delitti con la mia voce. Se ho cominciato a scrivere questo diario, è per tenere sotto controllo il mio presente e, soprattutto, ogni passato. Dalla cima del faro si vede tutta l’isola, fin oltre il paese, dove in un grande prato si accumulano le immondizie. Un fumo grigio e diagonale si alzava compatto da quella direzione, sfrangiandosi poi nel cielo. Il vento ci ha portato lo sgradevole odore della combustione. Siamo scesi alla piccola spiaggia che soggiace al faro. Ho raccolto un sasso e l’ho lanciato di taglio fra le onde: dopo un balzo si è inabissato. Chissà come salterebbe bene quest’isola piatta e levigata se solo trovasse la mano adatta... Sul margine della spiaggia è apparso per un attimo un coniglio rosso, i campi ne sono pieni, poi anche lui è scomparso con un solo salto, dietro i cespugli bassi. L’unico rumore era quello del mare. Una dolce umidità mi invadeva, m’inteneriva. Cosí è sempre accaduto, le cose mi traversano come i passanti corrono in una piazza sotto la pioggia. Forse lo spazio vuoto permette alle cose di modificarsi per progressivi smottamenti. Per lo meno ricordo di aver letto qualcosa del genere, molti anni fa, in un libro di fisica. Se tutto fosse pieno, nulla cambierebbe. Ogni sporgenza del paesaggio mi penetra, approfittando dell’ospitalità che le mie lente fibre offrono. Soltanto Clo rifiuta d’entrare, mi sta accanto con le ginocchia tra le braccia, in un argine d’indifferenza.
Ho di nuovo incontrato il sogno, il solito, e ancora non ho capito se le immagini che sul valico del risveglio da anni mi perseguitano siano un prodotto del tutto involontario, o se invece, come talvolta temo, siano da me aiutate, corrette, volute. Quando la mente abbandona la cavità oscura del sonno e i sensi riformicolano incontro alla coscienza, ecco, lí s’apre una vasta piazza circolare, porticata, d’un ocra pallido, senza null’altro che ne precisi il tempo e il luogo. Proprio al centro, immobile, sta una bambina con il capo curvo sotto il peso dei folti capelli corvini, il volto invisibile e tutto il corpo un poco gonfio e avvilito. Intorno a lei una folla urlante (se nessun rumore giunge alle mie orecchie è solo perché non voglio svegliarmi), inferocita, una ressa di bocche orribilmente spalancate, di occhi lucidi per la rabbia. È tutto un agitarsi di pugni tesi, uno sporgere di visi contratti, un imprecare, una pioggia di sputi. Alcuni cani bianchi ringhiano e mostrano i denti. Eppure nessuno osa toccare quella bambina tanto odiata, e nemmeno accostarla troppo. S’accontentano di tenerla nel cerchio, di non lasciarle vie di scampo. Per schiacciarla c’è tempo. D’improvviso tutto si placa, ogni gesto si spegne, ogni grido cade: tra gli uomini c’è un uomo nuovo, biondo, con il viso luminoso e le palme aperte. Miracolosamente gli sguardi di tutti convergono nel suo. Che ha fatto questa bambina, chiede. È un mostro, risponde il piú feroce tra quanti la circondano. Uno a uno l’uomo li fissa in volto, anche i cani, senza muovere i suoi occhi celesti. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, ed è come se in quegli esseri si irrigidisse un’anima di ferro, ognuno paralizzato nella posizione in cui l’ha colto l’invito. Un bosco d’ulivi contorti che non avanza e non retrocede. Lentamente la bambina alza la testa e ruota uno sguardo indifferente tanto sui suoi aguzzini che sull’uomo buono e pietoso: e dalla sua bocca s’alza leggera una risata, e via via si fa piú ripida e piú forte, nervosa, singhiozzante, sempre piú alta, cosí alta che dubito che il mio sonno possa resisterle. Eppure qualcosa lo costringe a resistere. Anche io adesso sono nel bosco d’ulivi, offeso da quel ridere sfacciato, da quella bocca candida spalancata sulla vita. E allora penso: io sono senza peccato, io sono il piú giusto tra quanti respirano, piú giusto persino di quest’uomo che può solo perdonare. Una sassata violenta coglie la bambina su una tempia e a tirarla non posso essere stato che io. Come una spina l’ultima nota le resta nel becco, mentre sulla guancia le cola un rivolo di sangue e dilatandosi i suoi occhi sembrano chiedere: perché? In un attimo il bosco si ravviva e la dilania con i suoi frutti piú duri, ma già la mia attenzione è altrove, corre a perdifiato lungo una crepa che spacca la superficie secca della piazza... Questo è il sogno che torna, senza mai mutare un dettaglio, cosí identico a se stesso da obbligarmi a dubitare della sua completa spontaneità. Quando da esso riemergo mi sento solo, quasi sorpreso che non ci sia nessuno a chiedermi giustificazione, a interrogare, come se risalissi da una città atroce, conficcata nel centro della terra, e non trovassi nel tronco cavo della quercia la domanda pronta per me. Ma ora guardo Clo che dorme e penso che il suo corpo silenzioso ricorda la mia risposta...
Fu in un giorno di fine agosto, non molto tempo dopo il nostro matrimonio. Serena teneva i capelli raccolti sulla nuca e cosí il viso le si arrotondava ancora un poco, facendola apparire piú giovane. Sí, poteva passare per una ragazza di vent’anni, anche per quel modo infinitamente sicuro di spingere innanzi il passo, per la risata robusta, nonostante un dente finto ben riconoscibile, per la foga con cui si scaraventava in ogni discussione, per i vestiti troppo colorati. Mia moglie era in realtà una povera donna di trent’anni, estremamente nervosa e incinta di tre mesi. Passeggiavamo per i vialetti della tenuta, lei, io e mio padre, tra due filari di pere mature che nell’afa insopportabile pendevano come gocce di sudore. Era sempre Serena a rilanciare la discussione, a intervalli piú o meno regolari, ma il sordo bofonchiare di mio padre impediva ogni sviluppo a quelle osservazioni prive di senso e fastidiosamente cariche di un entusiasmo esagerato. Perché non si asfaltavano i vialetti?; e le pere, perché si lasciavano marcire, si sarebbero potute fare delle ottime marmellate; non si dovevano potare i noci lungo la recinzione, dal lato della strada?: è legno pregiato; e la casa, che aspettavamo a trasformarla in un luogo piú, come dire, piú gustoso? Tra lei e il vecchio non c’era alcun affetto, credo che Serena lo sentisse come un ostacolo, un tronco cocciuto buttato di traverso sulla strada. Come tutte le persone furbe ma poco intelligenti, credeva di notare cose che agli altri sfuggivano completamente. La campagna andava male, era evidente per tutti, ma a lei sola si presentavano chiare le soluzioni per raddrizzare ogni stortura. Dopo tutto se sono stata capace di mandare avanti un albergo di seconda categoria, perché non dovrei essere in grado di sanare gli affari di un’azienda agricola?, mi diceva e io lasciavo correre, anche perché l’albergo era in realtà di terza categoria. Nella sua mente arida e macchinosa le iniziative, purtroppo, si affacciavano a ripetizione. E purtroppo credeva che imporle fosse sí difficile, ma non impossibile, e cosí mi includeva in certi suoi giochi delicati cui nessuno faceva caso, mi suggeriva di suggerire, m’imboccava, che girandola d’idee che è suo figlio, avvocato, e mi mollava buffetti sulle guance. Ma mio padre sapeva benissimo che io non possedevo idee utili. Quel giorno poi la ascoltava ancora meno del solito. Guardava i suoi campi di tabacco con la stessa disperazione con cui un condannato a morte fissa la sua ultima sigaretta. Nella gamba sensibilmente claudicante presentava il prossimo mutare della stagione, odorava il vento umido ancora nascosto, udiva lo scrosciare di temporali lontani. La raccolta delle foglie era cominciata con quindici giorni di ritardo e procedeva a rilento. Solo lui sapeva che il sole rimasto non sarebbe bastato a seccare il tabacco sui telai. Durante le lunghe serate piovose le foglie sarebbero marcite nei capannoni. La sua gamba già camminava verso la disfatta. Sotto la grande quercia un gruppo di donne stava seduto e silenziosamente consumava il pasto. Tutta la mattina avevano lavorato in mezzo alle piante piú alte di loro, ma svogliatamente, come sempre. Non comprendevano il motivo di quella strana coltivazione, tabacco nella zona non se n’era mai visto, era una pianta dannosa, il prodotto di paesi stupidi e lontani. Ci avvicinammo e non ci salutarono. Continuavano a ruminare a testa bassa. Dammi la tua fede, fece una d’un tratto a Serena posando a terra il fiasco di vino, e ti dico se è un maschio o una femmina. Serena si sfilò la fede dall’anulare e la consegnò con un gesto solenne. La donna la legò con una serie di nodi misteriosi a un filo di lana rossa e le avvicinò quell’amuleto al ventre. Il filo teso cominciò a muoversi con un lento mulinello verso sinistra. Mio padre stava appoggiato alla quercia e i suoi occhi grigi seguivano quel vortice stracco in cui si avvitava il destino di un uomo o di una donna. Mi augurai che facesse qualcosa per impedire quel rito grottesco, che per una volta alzasse la voce e le rimandasse tutte nei campi a sudare e a spezzarsi la schiena. Solo lui poteva maledirle. Ogni tanto Serena voltava la testa nella mia direzione e sorrideva e strizzava gli occhi, eccitata da tutta quell’attenzione intorno al suo futuro. Quindi ripiombava nel gorgo. Peccato, è una femmina, disse la bracciante, e si avvolse il filo attorno all’indice e poi lo svolse su e giú tante volte, sempre piú velocemente, però sono belle anche le femmine, signora, son piú vicine a Dio, son piú tranquille, il padre sarà sicuro contento, e intanto, la fede ronzava per aria come un insetto, brillando ogni volta che incrociava il sole. Il padre sarà contento, vero?, e mi fissava, e io guardavo mio padre, per capire se la sua maschera triste fosse contenta, ma mi parve che le sopracciglia si fossero strette ancora un poco, e le guance gli pendevano sgonfie, quasi avessero perduto per sempre il fiato. Di colpo, come una lucciola sotto una suola, la fede si spense nel pugno della donna. Questa per ora la tengo io, l’avvocato mi deve tre mesi, e anche alle altre. Per un attimo tutti attendemmo una smentita che non venne, poi fu un nodo di urla e di schiaffi, una zuffa violenta e penosa. Come due belve Serena e la donna si erano avvinghiate e non fu facile separare le unghie dai vestiti e dalle carni. Lasciagliela, disse mio padre, la ricompreremo...
Qui a l’île de Seine l’acqua avanza e si ritira secondo lunatici umori. Nel pomeriggio il mare prende a retrocedere e a sera è già nascosto lontano. Il frastuono delle onde si riduce a un fruscio leggero, a un addio appena bisbigliato. Dove stamattina galleggiavano i pescherecci, adesso si distende una piazza di sabbia. A braccia i ragazzi spostano le barche pi...