I miei colleghi italiani dichiarano quasi tutti che l’Italia, in qualche modo, sia migliorata. In realtà l’Italia è un luogo orribile: basta andare qualche giorno all’estero e poi ritornare.
PPP
Cosà Pinocchio è morto, scrive Thomas. Qualcosa che non avrei creduto possibile. Non in quel modo, pensai mentre per la terza o quarta volta rileggevo da cima a fondo l’articolo di cronaca del «Giornale di Vicenza» dal titolo: Muore nello schianto in Ferrari, in cui, con dovizia di particolari, si tentava di ricostruire la dinamica con la quale, la mattina del giorno di Pasqua, dopo aver salutato la moglie dicendole, come riporto testualmente dall’articolo in questione: «Provo un po’ la Ferrari, visto che c’è poco traffico. Ci vediamo verso l’una», mio cugino Roberto, che tutti, famigliari e amici, avevamo sempre chiamato col soprannome di Pinocchio, oppure Modesto, aveva trovato la morte lungo la SS11, all’altezza delle Alte, schiantandosi contro un muro alla guida della sua nuovissima Ferrari Testarossa. Morto sul colpo, cosà sempre sul «Giornale di Vicenza», per sfondamento della base cranica, sbattendo il capo contro quel muro di cemento armato che la Ferrari aveva impattato con la fiancata, dal lato di guida. Sull’asfalto del lungo rettilineo teatro dell’incidente, non era stato rilevato alcun segno di frenata. A questo punto, il bravo cronista, nell’italiano irritante e approssimativo tipico dei giornalisti di provincia, e dei giornalisti italiani in generale, che in fondo sono sempre e solo giornalisti di provincia, formulava due ipotesi: un malore improvviso, giusto cosÃ, per dovere d’ufficio, e una seconda, piú consistente ipotesi, relativa a una presunta imperizia non tanto nella guida in quanto tale, dato che lo stesso cronista non mancava di ricordare come mio cugino fosse conosciuto da tutti come un ottimo pilota, ma a un’imperizia specifica, relativa alla guida di una Ferrari Testarossa, ovvero, come riporto ancora testualmente, «una bestia motoristica come la Testarossa, una fuoriserie da trecentonovanta cavalli e cinquemila centimetri cubici di cilindrata, in grado di sviluppare quasi i trecento chilometri all’ora, com’è appunto la Testarossa». In effetti, che una simile auto sia in vendita, che a chiunque sia permesso di girare avendo come si dice sotto il culo una simile bestia motoristica; che al tempo stesso si impongano dei limiti di velocità che, essendo tutto il territorio, almeno per quanto riguarda Vicenza e il Veneto in generale, un territorio essenzialmente urbano, arrivano al massimo a consentire una velocità massima di settanta chilometri all’ora; che si costruiscano e si commercializzino liberamente simili auto, e ancor piú che si consenta a simili auto di circolare, tutto ciò risponde a una logica che mi sfugge. Se poi penso che comunque, anche in autostrada, in tutta Italia, il limite massimo di velocità è di centotrenta chilometri all’ora, velocità che la Ferrari Testarossa raggiungerà in terza, o forse addirittura in seconda marcia, la questione mi sfugge ancora di piú. Almeno i tedeschi sono piú coerenti: in autostrada non esistono limiti di velocità . In qualsiasi momento, anche adesso, pensai, posso prendere la mia Bmw R 1150 R, immettermi in autostrada e lanciarmi a tutta velocità verso Brema. O verso Bremerhaven. Verso Bremerhaven piú spesso che verso Brema, pensai, verso il mare molto piú spesso che verso la città , verso l’esterno piuttosto che verso l’interno. Al ritorno è tutto un altro discorso, voglio dire: si ritorna sempre verso l’interno, su questo non ho dubbi. In ogni caso, che io decida di andare, oppure di tornare, posso farlo alla massima velocità possibile. In Italia non potrei farlo, ma in realtà sÃ: potrei farlo, lo fanno quasi tutti. Però, potrei prendere una multa, allo stesso modo in cui potrei prendere l’acqua, perché in Italia, per quanto riguarda il codice della strada, ma vorrei dire per quanto riguarda tutto, non si può mai dire è, ma sarebbe, o al massimo dovrebbe essere. Quante volte avevo cercato di spiegare questo concetto a Hennetmair, Karl Ignaz, il mio vicino, ovvero la persona che, in questi ultimi dieci anni, mi è stata piú vicina, di fatto l’unica persona che mi sia stata vicina. In Italia, avevo detto quella stessa mattina a Hennetmair, le leggi e i regolamenti esistono e non esistono, e quando si infrange, o si ignora, una legge o un regolamento, le probabilità di essere puniti per aver infranto detta legge, o regolamento, variano come varia il tempo. Dipende dalla stagione, avevo detto, dipende dal luogo, dalla situazione politica e in definitiva dipende da una tale varietà di fattori politici, economici, culturali e ambientali che si può ben dire come ho detto: in Italia le leggi, e i regolamenti, esistono e non esistono. Non si può dire che esistano, avevo detto, ma non si può nemmeno far conto che non esistano. Ma è inutile, pensavo, cercare di spiegare qualcosa del genere a un uomo come Hennetmair è un’impresa disperata. Questa questione dell’Italia che esiste e non esiste, cosà come esiste e non esiste l’italiano, inteso sia come lingua che come popolo, è un concetto decisamente impossibile per un tedesco come Hennetmair. Cosà non faccio che confonderlo, pensai, altro che lezioni di italiano. Ma lui, Hennetmair, insiste con queste lezioni di italiano, che consistono in realtà in lunghe discussioni in italiano, lingua che Hennetmair studia ormai da anni. Ogni anno, pensai, Hennetmair si trasferisce a Jesolo per tutto il mese di luglio, in quel suo appartamento nel residence Santa Fé. Un posto orribile, pensavo, a Jesolo tutto è orribile, eppure la gente continua ad andarci, i tedeschi continuano ad andarci, Hennetmair continua ad andarci da piú di trent’anni. Del resto, se Hennetmair non andasse ogni anno, per tutto il mese di luglio, in quel suo appartamento a Jesolo, nello stesso residence dove anche i miei hanno un appartamento, non lo avrei mai conosciuto, e ora non sarei qui. Se penso che piú di una volta, nel corso delle nostre conversazioni, Hennetmair mi ha addirittura espresso la sua volontà di trasferirsi definitivamente in quell’appartamento di Jesolo, non appena gli sarà possibile ritirarsi dagli affari, mi vengono i brividi. Non lo farà mai, ne sono certo, lo dice in continuazione, ma non lo farà . Continuerà ad andare e venire dall’Italia ogni anno, ma non ci andrà mai a vivere, pensavo, perché non lascerà mai i suoi affari, si diverte troppo a comprare e vendere case, cosa che fa da quarant’anni, traendone sempre il massimo profitto. Se Hennetmair se ne andasse, pensai, non avrei piú nessuno con cui parlare, e cadrei preda della mia malattia. Se mi sono salvato, pensavo, è solo grazie a Hennetmair, che prima mi ha venduto questa casa a un prezzo irrisorio, cosa per lui davvero insolita, e poi mi ha addirittura aiutato a rimetterla a posto, consigliandomi i materiali migliori e piú a buon mercato, e occupandosi personalmente di seguire parte dei lavori, e in cambio del suo aiuto non ha voluto altro che queste cosiddette lezioni di italiano, nel corso delle quali, in fondo, non ho fatto e non faccio altro che approfittare di lui, raccontandogli, in italiano, tutto ciò che c’è da raccontare, su di me e sulla mia malattia, senza risparmiargli mai nulla, le cose gradevoli, ma soprattutto quelle piú sgradevoli, a seconda delle condizioni atmosferiche, che, in questa regione, possono mutare radicalmente da un momento all’altro per piú volte in un giorno, e con esse il mio umore. Se cosà non fosse, non avrei scelto questo posto. Prima di tutto viene la luce, leggera, precisa, che definisce bene tutto, cosà diversa da quella luce morbida e vagamente orientale, tipica della mia parte d’Italia, e in special modo della mia città , che non è mai stata mia. E poi l’aria, mai ferma, sempre pulita. Straordinari accumuli di nubi. L’altro giorno, sembrava che il cielo stesso fosse corrugato, come compresso, sul punto di cedere. A volte, giornate intollerabilmente lunghe, questo è vero, ma solo per un breve periodo. Condizioni atmosferiche altamente variabili, soprattutto questo è bene per me. Non potrei piú reggere quei giorni sempre uguali, quell’aria ferma, stagnante, lercia di polvere che penetra dappertutto, fin dentro la testa, mentre i colori si sciolgono nell’aria e tutto perde di definizione. Meglio che tutto cambi di continuo. In questo modo, seguendo il variare del tempo atmosferico, varia anche il tono emozionale, e i miei pensieri non corrono il rischio di attorcigliarsi su se stessi. E fuori, tutti i giorni, senza fidarsi mai di un chiaro e fresco mattino, senza nubi all’orizzonte. Uno si distrae, cammina leggero, e quando si volta è già troppo tardi: il cielo si è improvvisamente abbassato e si fa sempre piú nero. Non cosà quella mattina, che se n’era andata cosà com’era cominciata: cielo terso, luce leggera, e, nel corso della lunga passeggiata con Hennetmair nel bosco di querce, innocui discorsi di ordine generale: alcuni libri (in italiano) che gli avevo dato da leggere; la questione della pesantezza della lingua tedesca, contrapposta alla leggerezza delle lingue romanze, e dell’italiano in particolare, e la stupida discussione sui limiti di velocità . Secondo Hennetmair era una vera e propria assurdità che sulle autostrade tedesche non ci fossero limiti di velocità . L’unico paese al mondo che non ha limiti di velocità in autostrada, aveva detto, e ogni anno, a causa di questa mancanza, in Germania muoiono migliaia di persone. Inutilmente avevo cercato di spiegargli che trovavo la cosa molto coerente e che comunque, in Italia, pur essendoci dei limiti di velocità anche in autostrada, la gente si lanciava lo stesso a tutta velocità , in autostrada come sulle strade normali, e si schiantava con regolarità , con i consueti picchi del venerdà e sabato sera, a prescindere da qualsiasi limite di velocità o regolamento stradale. E a parte i limiti di velocità , avevo detto a Hennetmair, molto ci sarebbe da dire, e da ridire, sullo stato delle strade italiane in generale, e delle strade del Veneto in particolare, che, com’è noto, non è esagerato definire disastroso, anzi scandaloso, ed è cosà da sempre. In nessun posto al mondo, avevo detto, la situazione della viabilità è cosà confusa come nel Veneto, cosà mal gestita come in Veneto, e ogni anno che passa è peggio. Di continuo si costruiscono nuove strade che, nelle intenzioni, e nelle dichiarazioni, dovrebbero migliorare la situazione, snellire il traffico, ridurre il numero di incidenti, per poi scoprire che la situazione non è affatto migliorata, il traffico è ancora piú caotico, il numero degli incidenti non è affatto diminuito, anzi è aumentato e, in definitiva, la situazione è solo peggiorata e continua a peggiorare ogni giorno che passa. Si costruisce una cosiddetta superstrada a scorrimento veloce, e nel giro di pochissimo tempo, la superstrada viene intersecata da innumerevoli e pericolosissimi incroci, attraversamenti a raso, accessi privati, e lo scorrimento veloce diventa uno scorrimento lento, lentissimo, a singhiozzo per cosà dire, ed estremamente pericoloso, cosà che si è costretti a costruire un’altra strada, e poi un’altra ancora, cercando sempre di porre rimedio a una situazione ormai disperata e del tutto irrimediabile. In Italia, avevo detto a Hennetmair quella mattina, non si fa a tempo ad asfaltare una strada, e subito, su quella stessa strada appena asfaltata, vengono fatti gli scavi per le tubazioni del gas, oppure dell’acqua, oppure della linea elettrica, oppure della nuova fognatura, la strada non è ancora finita, ed è già tutta rattoppata, rabberciata, piena di buche, con tombini fuori terra che sono delle vere e proprie trappole, senza pista ciclabile, priva di attraversamenti pedonali e cosà via. Per non parlare dei materiali e dell’esecuzione dei lavori che, trattandosi di lavori pubblici, sono sempre materiali scadenti ed esecuzioni dei lavori scadenti, cosà che anche i rattoppi e i rappezzi, fatti con materiali scadenti posati in opera tutt’altro che a regola d’arte, diventano rattoppi e rappezzi malfatti, per cui comunque lo stato e le amministrazioni, e in definitiva i cittadini, pagano un prezzo folle e addirittura scandaloso. E malgrado la situazione delle strade sia cosà disastrosa, la gente si lancia comunque a tutta velocità su quelle strade intasate tutte rappezzate e rattoppate, dotate di una segnaletica stradale insufficiente e confusa e a volte addirittura criminale. Migliaia di morti tanto quanto, avevo detto, forse addirittura piú morti che in Germania. E lo stesso, pensavo, non avrei mai immaginato che mio cugino Pinocchio sarebbe morto cosÃ, in uno stupido incidente stradale. Asfalto bagnato, appena smesso di piovere, trazione posteriore: quello che si dice sempre quando qualcuno si schianta in Ferrari, oppure in Porsche. È pur vero che, stando al giornale, aveva ritirato la Ferrari Testarossa appena due giorni prima, cosa che deponeva a favore della tesi del cronista, ma io Pinocchio lo conoscevo: non c’era veicolo a motore che egli non sapesse ridurre al voler suo nel giro di pochi minuti. Personalmente, di motori non ho mai capito granché. Ancora oggi, pur andando in motocicletta dall’età di diciotto anni, e dunque, per essere esatti, da ben ventisette anni, ho solo un’idea vaga di come funziona un motore a scoppio, e non si tratta nemmeno di questo, la questione non riguarda in nessun caso la tecnica, sia essa intesa come conoscenza meccanica, che come tecnica di guida. Il rapporto di Pinocchio con i motori aveva qualcosa di inspiegabile. Provava la moto di qualcun altro, e riusciva, in pochissimo tempo, a portarla al limite. L’accendeva, ascoltava un po’ il motore, e via. Da subito, solo da come si era messo in sella e da come era partito, spesso e volentieri impennando, si capiva che lui era già in un rapporto di confidenza molto stretto con quella moto, cosa che non poteva essere, visto che ci era appena salito. Ma a parte questo, che comunque non è poco, la cosa per me inspiegabile era come lui riuscisse a portare quel motore, moto o auto che fosse, oltre quello che si credeva il suo limite, e lo faceva nel giro di pochi minuti. Riusciva sempre a cavarci qualcosa di piú in senso assoluto, era questo che mi sconcertava. Se quella moto, o quell’auto, raggiungeva una velocità massima di centoquaranta all’ora, lui riusciva a spingerla ai centocinquanta; se erano i centonovanta, con lui diventavano duecento e cosà via. Un rapporto diretto con i motori, e coi mezzi meccanici in generale, che io non ho mai avuto, e, per quanta esperienza possa accumulare, non avrò mai. Anch’io, come Pinocchio, ho sempre avuto un debole per le motociclette, ma solo ed esclusivamente per le motociclette, non certo per i motori in generale, sicuramente non per le automobili. E il mio debole per le motociclette, pensavo, è di natura completamente diversa rispetto a quello di Pinocchio. Non mi è mai interessato essere il piú veloce, né sono mai stato sensibile all’insulsa retorica motociclistica, di qualunque genere essa sia. È la questione dell’equilibrio ad affascinarmi, e il fatto che detto equilibrio non sia mai stabile, ma sempre strettamente dipendente da una serie di variabili che, data la natura del mezzo, sono sempre variabili in movimento, mai del tutto controllabili, a cui comunque bisogna adattarsi, se si vuole mantenere l’equilibrio, e dunque continuare a muoversi. A volte, ho l’impressione che si muova cosà anche il mio pensiero, e che, anche in questo caso, movimento ed equilibrio siano una cosa sola. Comunque, pensavo seduto alla scrivania, tutti questi pensieri sono venuti dopo. Per anni sono andato in giro in moto con Pinocchio, e per quanto non mi sia mai messo in competizione con lui, cosa che sarebbe stata assurda, cercavo però sempre di tenergli dietro, e per riuscire a tenergli dietro, almeno per un po’, ero costretto a spingermi al limite. Intendo il mio limite, quello umano. Per lui, Pinocchio, come ho detto, era tutto un altro discorso, e per quanto io lo abbia osservato e studiato, per quanto abbia imparato, non sono mai riuscito, né riuscirò mai, a spingermi fino al limite del mezzo meccanico, limite che lui, Pinocchio, non solo raggiungeva, ma addirittura superava, con una facilità che non mancava di stupire, e irritare, anche il pilota piú esperto. È davvero strano che non sia diventato un pilota professionista. Se non lo è diventato è solo perché non gli interessava, ma se lo avesse voluto, non ho dubbi che sarebbe senz’altro riuscito a diventare un pilota eccezionale. E a parte la questione dei motori, semplicemente non sopportava di arrivare secondo, e pur di non arrivare secondo era disposto a rischiare il tutto per tutto. Mio cugino Pinocchio, pensavo, non era solo ciò che si definisce un ottimo pilota, era uno che sembrava fosse nato apposta per andare sempre al massimo, un vero talento della velocità : automobile, moto, bicicletta, in strada, fuori strada, con la pioggia, oppure con la neve, o sul ghiaccio, e in definitiva: indipendentemente da qualsivoglia variabile, Pinocchio era sempre il piú veloce. Cercare di stargli dietro, come avevo imparato molto presto, schiantandomi in bicicletta contro un albero nel corso di uno slalom, specialità nella quale ero maestro, trovandosi le file di acacie che fungevano da paletti lungo la strada di casa mia, voleva dire essere disposti a tutto. La straordinaria capacità di giocarsi sempre tutto, di essere disposti, in qualsiasi momento, a spingersi fino al limite, e il suo limite, pensavo, era sempre piú in là di quello di chiunque altro. A dispetto dei suoi soprannomi, si trattasse di Pinocchio, oppure di Modesto, entrambi piú che meritati, non l’avevo mai scoperto a bluffare una volta, e anzi era lui, di solito, a scoprire i bluff degli altri. Quanto alle bugie, pensai, si trattava, anche in questo caso, di uno spingersi al limite, comunque piú in là , a qualunque costo un po’ piú in là , di quanto osasse spingersi l’avversario di turno; e guai all’incauto che aveva l’ardire di andare come si dice a vedere quello che, per il senso comune, doveva essere un bluff. Niente poteva esaltarlo di piú. Era sufficiente una sfumatura nel tono di voce, un leggero sorriso di incredulità , perché si attivasse in lui quel perverso meccanismo che sembrava costringerlo ad andare sempre e comunque fino in fondo. A volte non serviva assolutamente nulla. Come quella notte lungo la statale Marosticana, nel corso della quale, come ricordo, percorremmo contromano la suddetta statale da Vicenza fino a Marostica, sterzando all’ultimo momento per evitare di scontrarci frontalmente contro il malcapitato di turno, o, come si dava piú spesso il caso, costringendo gli altri a farsi da parte per lasciar passare quella Golf Gti grigio metallizzato lanciata contromano a tutta velocità , alla cui guida, concentrato, ma tranquillo, sedeva lui, Pinocchio, e al cui fianco, impassibile, ma niente affatto tranquillo, sedevo io. Eppure non avevo fatto nulla per scatenarlo, e quando, appena usciti dalla città , Pinocchio aveva imboccato la Marosticana sulla corsia di sinistra, spiegandomi che, siccome si era appena iscritto a un corso di inglese, con l’intenzione di calarsi il piú possibile nell’idea dell’inglese, da quel momento, anziché tenere la destra, avrebbe guidato tenendo la sinistra, come se fossimo effettivamente in Inghilterra, io, conoscendolo, non avevo battuto ciglio, e con voce calma avevo detto: In effetti, in Inghilterra si circola a sinistra. Sapevo bene che era capacissimo di farlo, ed ero stato particolarmente attento nella scelta delle parole, e ancora piú attento a come le avevo pronunciate. Un tono anche solo vagamente irridente, o incredulo, lo avrebbe immediatamente attivato, costringendolo a tener fede alle sue parole; d’altra parte, se nella mia voce egli avesse percepito il benché minimo timore, allora si sarebbe divertito a scoprire il limite oltre il quale quel timore si sarebbe trasformato in panico; e se, tecnica che avevo piú volte sperimentato, con risultati sempre disastrosi, il tono fosse stato quello di un complice incoraggiamento, ebbene, egli l’avrebbe preso per quello che non era: un invito ad andare fino in fondo. Avevo fatto tutto per bene: non avevo mostrato paura, non mi ero opposto, non lo avevo sfidato né incoraggiato, e, cosa altrettanto pericolosa, non mi ero mostrato indifferente. E lo stesso non era servito. Ma noi siamo in Inghilterra, aveva risposto lui. Almeno fino a Marostica, aveva aggiunto, trovando il tempo, mentre scalava le marce in vista della prima curva, di tirar fuori dalla tasca della camicia il pacchetto di Ms, cavarne una e mettersela in bocca. Naturalmente, pensavo leggendo senza leggere, non si era iscritto a nessun corso di inglese, e da dove mai gli fosse venuta quell’assurda idea di guidare tenendo la sinistra, non mi è dato sapere. Gli era scappato detto, ed era abbastanza. Come se fosse egli stesso a pretendere di vedere le sue stesse carte, come se al nostro tavolo, non importa quanto affollato, fosse seduto, sempre e comunque, un altro giocatore, invisibile a tutti, ma non a lui; un giocatore che godeva di credito illimitato, che arrivava con lui e si alzava con lui, sempre disposto a coprire il piatto, per quanto assurda e sproporzionata la posta. E se almeno si fosse davvero trattato di uno stupido poker, allora avrei detto no, per me è troppo: me ne vado. Ma il solo fatto di essermi seduto a quel tavolo, ovvero in quell’auto, con mio cugino Pinocchio alla guida, voleva dire che in fondo anch’io volevo giocare. Era sempre stato cosÃ, e anche quella notte, non appena capii che non c’era piú niente da fare, che lui, Pinocchio, avrebbe messo effettivamente in pratica il suo assurdo disegno, cioè guidare contromano, alla massima velocità possibile, almeno fino a Marostica, gli sfilai la sigaretta di bocca, l’accesi, gliela rimisi tra le labbra, mi allacciai la cintura di sicurezza e, perso per perso, mi trasformai nell’ottimo navigatore che, in anni di esperienza, mi ero abituato a essere in casi come quello. In fondo, pensai alzando lo sguardo a fissare un punto preciso, ma indefinito, davanti a me, quella notte anch’io mi ritrovai costretto a mostrare le mie carte a quel giocatore invisibile che, seduto al centro del sedile posteriore, tutto piegato in avanti, le braccia appoggiate sui sedili anteriori, la testa protesa all’altezza delle nostre spalle, osservava tranquillo, come se anche quella notte ci fosse tutto il tempo per vivere e per morire. In un certo senso, pensai aprendo di nuovo il «Giornale di Vicenza» alla pagina dei morti, pagina sulla quale, da quando ho lasciato Vicenza, non manco mai di soffermarmi con particolare attenzione, io giocavo la mia partita semplicemente mettendo la mia vita nelle mani di Pinocchio, e cosÃ, mettendo la mia vita nelle sue mani, ero stato in grado di spingermi là dove, senza di lui, non mi sarei mai spinto, e soprattutto non sarei mai stato in grado di provare quella particolare sensazione, giustamente denominata ebbrezza della velocità , quell’essere presenti a se stessi in ogni momento mentre il resto del mondo ci viene incontro a tutta velocità , quella sensazione di essere piú vicini alla realtà delle cose e di essere parte integrante di quella stessa realtà . Sarà davvero cosÃ? Tenuto conto che, com’è noto, siamo tutti sparati nello spazio a una velocità folle, i pensieri di cui sopra sembrano meno assurdi, e non è questo il punto, né si può ridurre il tutto alla questione della velocità . Pinocchio, prima ancora di essere mio cugino, era il mio migliore amico, pensai leggendo l’annuncio sulla pagina dei morti. No, neanche questo si può dire cosÃ, pensando di essere compresi; e non si può nemmeno lasciar correre, sapendo benissimo che nessuno ci comprenderà comunque. Non sono il tipo. Compreso o non compreso, la cosa non mi riguarda: so solo che devo andare avanti. Mio cugino Roberto era qualcosa di piú, era l’amico, la persona a cui piú tenevo al mondo, che non avrei mai tradito, a cui sarei sempre stato fedele, nella buona e nella cattiva sorte, l’incarnazione dell’amicizia, ovvero, per me, l’incarnazione del sentimento piú alto che possa legare due esseri umani. Da dove mi sia venuta questa idea dell’amicizia non saprei dire. Forse aveva ragione mia madre, era solo qualcosa che avevo letto nei libri, la vita è tutta un’altra cosa, diceva, a un certo punto gli amici bisogna lasciarli perdere e pensare a se stessi, visto che tutti, anche quelli che dicono di essere nostri amici, in realtà pensano sempre prima di tutto a se stessi. Pinocchio non le era mai piaciuto, pensavo, lo ha sempre ritenuto un individuo pericoloso per sé e per gli altri, e soprattutto dannoso per me che, passando tutto quel tempo insieme a lui, avrei finito per diventare altrettanto pericoloso. Io però non le ho mai dato retta e, quando potevo, passavo il mio tempo soprattutto con lui, e in effetti, come mi resi conto piú tardi, ero completamente soggiogato dalla sua personalità , cosà diversa dalla mia. Di fatto, pensavo, avrei voluto essere come Pinocchio, in tutto e per tutto uguale a lui, che non aveva mai paura di niente e di nessuno, e non si tirava mai indietro davanti a niente e a nessuno. Con lui mi sentivo sicuro, completo, funzionale, come se, solo accanto a lui, io avessi il mio posto nel mondo. Strano sentimento, sentirsi cosà legati a una persona, e sentire ogni giorno il bisogno di vederla, di poterle parlare, di fare qualcosa insieme. La sensazione di non essere soli, di avere qualcuno, una persona che ci accetta per quello che siamo, e viene da noi accettata per quello che è, una persona di cui ci possiamo fidare: un amico. Ma il significato di questa parola, pensavo, ora non è piú lo stesso, e non lo è piú da molto tempo, da ben prima che io decidessi di abbandonare Pinocchio al suo destino, qualsiasi esso fosse, e di non voler avere piú niente a che fare con lui. A un certo punto, pensavo, qualcosa si era rotto in modo definitivo e irreparabile, e quando, un paio di volte all’anno, tornavo a Vicenza per far visita alla mia vecchia madre, mi guardavo bene dall’avvisarlo, e se mi capitava di incontrarlo, cosa quasi inevitabile in una simile città , facevo finta di non vederlo. Nemmeno lui, del resto, mi ha mai piú cercato, e probabilmente anche lui avrà fatto finta di non vedermi. Mi sono cosà allontanato da lui, pensavo, che nella foto piú recente non l’ho neanche riconosciuto. Eppure, se penso alla parola amicizia, se voglio dare a questa parola il suo senso piú pieno, è a Pinocchio che devo tornare. Nessun altro legame è stato altrettanto profondo, a nessun’altra persona sono stato legato come sono stato legato a lui, la verità è questa, pensavo, ed è qualcosa che non si può cancellare. La mia stupida idea dell’amicizia, pensai, che è andata a farsi fottere, insieme a tutto il resto. Non ci siamo uccisi per impedirci di crescere, come piú di una volta ci eravamo promessi. A un certo punto, pensai con rabbia, anche Pinocchio mi ha abbandonato. Ha scelto di vivere, e io, da solo, senza di lui, non ho mai piú trovato il coraggio di farla finita. Alla fine mia madre aveva ragione: a un certo punto, quando si è cresciuti abbastanza, bisogna cominciare a pensare a se stessi, cosa che io ho iniziato a fare troppo tar...