Stava per incontrare un uomo di cui si era recentemente e improvvisamente innamorata. Era in uno stato d’ansia spaventoso. Tanto per cominciare, il tizio era sposato con una coreana che descriveva come l’incarnazione di tutto ciò che di femminile ed elegante esiste al mondo. Per di piú, un sensitivo le aveva detto che una relazione con lui avrebbe potuto danneggiarla emotivamente per il resto dei suoi giorni. E come se non bastasse, era tormentata dalla sensazione di apparire inadeguata. Magari il suo corpo si inclinava eccessivamente in avanti quando camminava, magari la sua giacca le faceva un busto sproporzionato rispetto ai polpacci e alle caviglie, probabilmente gracili. Si sentiva come un oggetto sul punto di sfasciarsi. In fibrillazione per l’incontro, la notte precedente non era riuscita a dormire; cosà aveva ingurgitato qualche anfetamina e ciò acuiva quel senso di disgregazione.
Arrivò all’angolo e lui non c’era. Si appoggiò al muro di un palazzo, cercando di sistemare il proprio corpo nella postura meno respingente possibile. Il suo disagio cresceva. Attraversò la strada e attese all’angolo opposto. Sembrava che tutti i passanti stessero mangiando. Un uomo d’affari grosso e distratto transitò con un hot dog consumato a metà . Passarono due ragazze, pescando anacardi dallo stesso sacchetto bianco. Il cibo accentuava la sua impressione che il mondo fosse caotico e sgradevole. Prese violentemente coscienza della spazzatura per strada. Il vento la rimestava; un incarto di dolciumi intrappolato nelle maglie di un cestino pubblico traboccante si agitava miseramente. Era tutto sbagliato, tutto orribile. Quell’incontro doveva essere perfetto e senza scorie. Non sopportava il pensiero di schifezze sventolanti. Perché lui non era là ad aspettarla? I minuti passavano. Lei si incassava nelle spalle.
Entrò in un negozio di fiori. Il negozio era bianco e pulito, tranne che per qualche strisciata sul pavimento di linoleum. Dietro il bancone c’erano degli omosessuali che parlavano con voce sommessa. Steli ordinati carichi di fiori assurdi si protendevano da sobri vasi rotondi affollando il passaggio. Fu travolta da una fantasia. Lui la teneva tra le braccia, inerme e in deliquio. Erano sorretti da una soffice palla di un materiale spugnoso blu. Con la testa cinta da rose senza spine. Lo sguardo di lui la penetrava con un’intensità tale che era come se le ficcasse la mano nel torace e cominciasse a tastarle le costole a una a una. Lei lo lasciava fare. – Non ho mai provato niente di simile per nessun’altra, – diceva lui. – Ti amo –. Le faceva fare cose che non aveva mai fatto, e poi andavano a passeggio e ammiravano i tulipani nuovi che dovevano essere cresciuti nel frattempo. Niente di tutto ciò sembrava stupido o stucchevole, ma lei sapeva bene che lo era. Cercò penosamente di recuperare il senso della misura. Fissò i fiori. Erano un’esplosione di luminosa, composta bellezza. Non poteva farci niente. Voleva regalargli dei fiori. Voleva essere con lui in una stanza piena di fiori. Si visualizzò in piedi davanti a lui, con un impeccabile mazzo di fiori prigioniero dell’orrida carta color pastello che il fiorista ci avrebbe pinzato intorno. Una visione spietatamente imbarazzante, troppo per occuparle i pensieri piú di qualche secondo.
Uscà dal negozio. Lui non c’era. L’ansia rasentò la disperazione. Avrebbero dovuto passare il weekend insieme.
Lui mangiava un trancio bisunto in piedi in un’anonima pizzeria al taglio dall’altra parte della strada, e la guardava là ferma all’angolo. La sua ansia gli era palese. Sconcertante e stranamente attraente insieme. Per il resto aveva un aspetto sgradevole. Non riusciva bene a metterne a fuoco il motivo. Forse era quella traccia di umiltà nel vestito, di desiderio di passare inosservata o, peggio, di banale indifferenza rispetto a come le stavano i vestiti.
L’aveva incontrata a una festa la settimana precedente. Gli aveva subito ricordato una ragazza conosciuta anni prima, Sharon, una ragazza di una serietà terrificante con un pallido, dolce faccino, che per due anni aveva tormentato a fasi alterne salvo poi scaricarla per sposare sua moglie. Sebbene lasciarla gli avesse procurato immensa soddisfazione, farle male gli era mancato per anni, e si era piú o meno consapevolmente lanciato alla ricerca di una donna che presentasse una combinazione analogamente fatale di orgoglio, debolezza e quella smania assurda per qualcosa che sembri passione. Incontrando Beth era rimasto sorpreso da quanto apparisse, parlasse e si muovesse come la sua precedente vittima. Era raffinatamente morbosa in ogni suo gesto, suscettibile, arrogante, sensibile all’adulazione. Oscillava tra accessi di convinzione smodata e improvvise, esitanti sospensioni, durante le quali sembrava cercare il suo consenso. Era innamorata dell’intelligenza, e sopravvalutava la propria. A dispetto dell’aggressività con cui la sfoggiava, era possibile, lo intuiva, strapparle da sotto i piedi la sua conoscenza del mondo senza troppa, o alcuna difficoltà . Gli aveva detto: – Spero che tu sia scatenato.
Quella sera era andato a casa sua. Si era steso con lei sul materasso a una piazza sfondato e tutto gobbe, rovesciando la testa per soffiare il fumo nella stanza. Lei gli aveva sbattuto la fronte sul petto. Il materasso cigolava a ogni movimento. Lui le disse di Sharon. – Anch’io quand’ero all’università ho avuto una relazione simile, – disse lei. – Uno che mi ha aperta in un modo su cui non avevo nessun controllo. Mi ha fatto male. Mi ha completamente cambiata. Adesso non riesco piú a fare sesso in modo normale.
La stanza era pateticamente decorata con cartoline, foto di personaggi dei cartoni animati giapponesi con i loro occhi enormi, e minuscoli, esasperanti giocattoli che aveva chiaramente fatto di tutto per scovare, disposti sul comò in una schiera fitta e disordinata. Un fragile modellino di aeroplano penzolava dal lampadario sopra il comò. Accanto al mobile era incollata la vignetta di una ragazza dai capelli rosa rannicchiata a bocca aperta davanti a un giovane bifolco con la cresta, occhiali e pantaloncini. La forza della sua espressione minacciosa le sollevava la gonna, scoprendole le mutandine. Chi è che metterebbe una porcheria simile sul proprio muro?
– Mi fai paura, – mormorò lei.
– Perché?
– Perché cosÃ.
– Tranquilla. Non ti farò piú male di quanto tu possa reggere.
Lei gli si raggomitolò contro e premette insieme i piedi come un gatto che si stira. Aveva delle calze brutte e spesse, e dei piedi troppo grandi per la sua statura. Particolari del genere avrebbero potuto disgustarlo, ma quei piedi lunghi, sporchi e premuti insieme gli ispiravano tenerezza. Disse: – Voglio una schiava.
– Non so, – disse lei. – Vedremo.
Lui le aveva proposto di passare il weekend insieme tre giorni dopo.
Sul momento gli era sembrata una buona idea, ma adesso avvertiva un irritante misto di ansia e senso di colpa. Pensò alla moglie, che preparava la colazione con quei suoi movimenti delicati, metodici, o che in bagno si applicava con cura il kohl sotto i grandi occhi, rimuovendone gli eccessi con graziosi, volatili gesti delle dita, gli esili gomiti sollevati, gli occhi svuotati dalla concentrazione. Pensò a Beth, nuda e legata, una benda sugli occhi e stesa a X sul pavimento del suo appartamento ingombro. I suoi cartoni animati ridacchiavano mentre la frustava. Sui seni, sulle cosce, sul ventre e sulle braccia le si aprivano delle piaghe. Urlava e si contorceva, dimenando il collo da una parte e dall’altra. Sarebbe rimasta deturpata a vita. Di lei aveva anche un’altra immagine: seduta di fronte a lui in un ristorante, il busto eretto, un braccio sul tavolo, la faccia seria e assorta. I suoi grandi occhiali le facevano abbassare il viso, conferendole un’aria malinconica ed elegante. Fumava una sigaretta aspirando lente, meste boccate. Queste immagini si sovrapponevano le une alle altre, formando una griglia terribilmente confusa. Come avrebbe fatto a distinguerle? Riuscà a isolare l’immagine di sua moglie e l’originale di Beth bendata e a tenerle separate. Si figurò di dividersi felicemente tra l’una e l’altra. Forse, con il passare del tempo, sarebbe riuscito a portare Beth a casa e a farla picchiare anche da sua moglie. Lei avrebbe lavato i piatti e servito a tavola. La griglia si richiuse e la sua pancia diede segni di cedimento. La faccenda era complessa e potenzialmente faticosa. Guardò l’inquieta ragazza all’angolo. Gli aveva detto che voleva provare dolore, ma sospettava che non capisse quello che significava.
Probabilmente avrebbe fatto meglio a restare nella pizzeria e osservarla finché non se ne fosse andata. Poteva essere divertente vedere quanto avrebbe aspettato. Un po’ gli faceva pena. E al tempo stesso, da quella prospettiva sotto vetro, si sentiva come se stesse torturando un insetto. Mangiava la sua pizza e godeva.
Al culmine dell’ansia lei lo vide oltre il vetro della pizzeria. Notò subito l’espressione compiaciuta. Nel suo modo di guardare e stare in attesa riconobbe quella componente di gelido disprezzo che era l’opposto di un benvenuto. Questo le fece male, ma solo per un istante; poi perse la testa. Sorrise e attraversò la strada con un’irragionevole fiducia nel potere del proprio sorriso.
– Sarei venuto io, – disse lui. – Ma prima dovevo mangiare. Stavo morendo di fame –. Piegò a metà l’avanzo di pizza e se lo ficcò in bocca.
Lei notò che gli era rimasto tra i denti un frammento color arancio vivo, e questo glielo rese ancora piú irresistibile.
Uscirono dalla pizzeria. Lui camminava a larghe falcate, e il suo pesante cappotto nero ondeggiava licenziosamente, pensò lei, sopra gli stivali. Era un ragazzo magro e slanciato, con un volto stretto e pallido e capelli biondi che gli cascavano a ciocche sulle sopracciglia. Con quell’ampio cappotto sembrava il giovane pupillo di un nascente corpo segreto di polizia. Pensò che era bellissimo.
Lui fermò un taxi e chiese all’autista di portarli all’aeroporto. Guardò lei che gli sedeva accanto. – Sento che sarà un disastro, – disse. – Finirà che ti lascio là e me ne torno da solo.
– Spero di no, – disse lei. – Non ho soldi. Se mi lasciassi lÃ, non saprei come tornare.
– Mi dispiace per te. Perché non lo escludo –. La scrutò in viso aspettando una reazione. Ci lesse disagio e agitazione e qualcosa che poteva soltanto definire stupidità , come se avesse appena lasciato cadere un vassoio di bicchieri in pubblico. – Stai tranquilla, non lo farei, – disse. – Ma mi piace pensare che potrei farlo.
– Anche a me –. Era tremendamente angosciata. Voleva buttargli le braccia al collo.
Lui pensò: c’è qualcosa che non va. La sua passività era gradevole, come pure il suo silenzio e la sua disponibilità a mettersi nelle sue mani. Ma in lei avvertiva la presenza di un altro elemento che non riusciva a definire e che non gli piaceva. Le sue mani chiuse a pugno erano nervose e respingenti. La postura esibita era fragile, non flessibile. Aveva una rigidezza che se forzata non avrebbe prodotto nulla. Lo turbò rendersi conto che comunque non sapeva se sarebbe riuscito a forzarla. Cominciava a sentirsi a disagio. Forse il weekend sarebbe stato un disastro.
Arrivarono all’aeroporto con un’ora di anticipo. Andarono a bere in un bar. Il bar era un cubo non meglio definito con un’insegna al neon rossa che diceva «Cocktail». L’interno non trasmetteva alcun senso di riparo. Il mobilio era scarno e nudo, e non c’erano porte a proteggerti dalla vista dei passeggeri frastornati e poco attraenti che vagavano per l’aeroporto coi loro bagagli. Lei ordinò un Bloody Mary.
– Non posso credere che hai ordinato quello, – disse lui.
– Perché no?
– Perché io voglio una bloody Beth –. Le lanciò un’occhiata che le fece pensare a un cane nevrotico con la lingua penzoloni, in attesa di mordere qualcuno.
– Ah, – disse.
Lui le offrà una sigaretta.
– Non fumo. Te l’ho già detto due volte.
– Be’, dovresti cominciare.
Rimasero là a bere in silenzio per svariati minuti.
– Ti piace guardare la gente? – domandò lei.
Era chiaro che si sforzava di parlargli. Lui vide che adesso aveva la faccia parecchio tesa. Avrebbe potuto accrescere il suo disagio, ma per il momento aveva perso l’energia. – SÃ, – disse. – Mi piace.
Passarono un po’ di tempo a osservare la gente intorno a loro. Erano a corto di materia prima. Nel bar c’era solo qualche cliente; perlopiú uomini in giacca e cravatta che se ne stavano là apparentemente intrappolati in quella rete di abitudini e accumulato rancore che chiamavano personalità , inconsapevoli del proprio groviglio al punto da considerarsi chiaramente uomini di mondo, pur avendo smesso di occuparsene da tempo. Poi entrò una coppia carica di bagagli. Lei aveva una gonna sgargiante che dardeggiava a ogni passo. Lui la precedeva. Camminava troppo in fretta e lei non gli teneva dietro. Sembrava in affanno. Aveva occhi spalancati e scuri e incrostati di trucco; e un neo sul mento. Lui indugiò, come considerando se fermarsi a bere qualcosa. Decise di no e ripartÃ. Lei lo seguà in un tremolio di orecchini. Si lasciarono alle spalle una vaga scia di sesso e delusione.
Beth guardò i fianchi di lei muoversi sotto la gonna. – Quei due avevano un che di sgradevole, – disse.
– Decisamente.
Questo punto di contatto la rincuorò. – Perdonami se sono poco loquace, – disse.
– Nessun problema –. Di nuovo, i suoi occhi stretti si fecero ferini. – Le donne dovrebbero stare zitte –. A un tratto lei pensò che non ci sarebbe stato niente di strano se fosse balzato in avanti e l’avesse morsa in faccia.
– Sono d’accordo, – disse lei tagliente. – Non ci sono tutti questi uomini con cui valga la pena parlare.
Quel tono stizzoso lo lasciò stupefatto. Forse, pensò, l’aveva immaginato.
Non era cosÃ.
Sull’aereo continuarono a bere. Si videro servire un grosso pezzo di dolce all’uva con la glassa bianca in un sacchetto di carta rossa. Lui non aveva fame, ma quella torta pacchiana lo attirava e se la ficcò in valigia.
Ebbero un breve scambio a proposito di scarpe, in termini di costo ed estetica. Parlarono di intelligenza e di arte. C’erano lunghi intervalli di silenzio scoraggianti per entrambi. Lei cominciò a parlare degli anziani, di quanto potevano essere simpatici. Lui se la vide inginocchiata per terra in calze nere e manette. L’immagine si fece indistinta, intollerabilmente statica, quindi offuscata dalla conversazione. Provò uno spaventoso struggimento. Rievocò l’immagine, che non gli diede piú alcun piacere. La sovrappose a un’immagine di sé in piedi in un nightclub la settimana precedente, una bibita in mano e impegnato in una conversazione con una ragazza piuttosto battagliera che voleva il suo numero.
– Alcuni anziani sono di una bellezza sovrannaturale, – continuò lei. – L’altro giorno all’alimentari ho visto una vecchia signora che doveva aver passato i novanta. Era cosà fragile e carina, sembrava un folletto.
Lui la guardò e disse: – Poi diventi spiritosa o sarai solo una gran palla?
Lei non rispose subito. Non capiva cosa c’entrasse con il suo commento sulla vecchia. – Non lo so.
– Non ti trovo molto erotica, – disse lui. – Non sei quella che avevo creduto la prima volta che ti ho vista.
Questo la ferà al punto che faticò a rispondere. Alla fine disse: – Posso essere molto erotica o molto antierotica, dipende dalla persona con cui mi trovo, e dalla situazione. Dev’essere una cosa che mi va a genio. Sono un tipo piuttosto cerebrale. Credo che perlopiú rispondo al...