Fiabe ebraiche
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Fiabe ebraiche

  1. 496 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Fiabe ebraiche

Informazioni su questo libro

Pa'am Achat: «Una volta». Cosí, il piú delle volte, cominciano le fiabe ebraiche. La formula è usuale, persino scontata. Se non che né prima né dopo quell'«una volta» c'è modo di trovare il verbo, un qualsivoglia attestato di esistenza nel tempo. Da quelle due parole in poi, la fiaba ebraica si dipana sospesa in un tempo che non è dato immaginare, libera dai confini d'ogni concepibile realtà, dove si nutre ogni illusione fuorché quella di collocare la storia in qualche «dove» o «quando». [...]
Ironia, a tratti verace umorismo, sommessa distanza dalla realtà, profonda saggezza e inguaribile pazienza sono le virtú delle fiabe ebraiche - siano esse echi di adagi biblici o rifacimenti di motivi stranieri. In un caso o nell'altro, il filo conduttore del racconto, l'atmosfera che si respira, hanno inequivocabile la connotazione d'Israele. Dalla Prefazione di Elena Loewenthal

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806170554
eBook ISBN
9788858409299

Avventure in cielo, in terra e per mare

Una storia esagerata

C’era una volta il Leviatano. C’era una volta?
Ma quando mai! E dove, nel caso?
Per il Leviatano non c’è posto nel mondo, né oceano che tenga. È uno sberleffo nella storia di Giobbe, il Leviatano, una parola sdrucciolosa che scivola in bocca e guizza subito via come un pesce fuor d’acqua in cerca della via del ritorno.
C’era una volta il Leviatano. Certo che c’era, una volta.
C’era una volta il Leviatano e forse c’è ancora, del resto se c’era una volta perché non dovrebbe esserci ancora, se non fosse che non è facile incontrarlo e ancor meno vederlo, per non parlare di quando ruggisce ed è meglio non udirlo. Quanto all’odore, quello sta sotto il naso, fra il baffo e le labbra.
Che ci fosse o non ci fosse, il Leviatano una volta c’era. Sta scritto fra un prodigio e l’altro, soltanto per strabiliare: dal rigo del versetto su cui, placida come un elefante, secca come una mosca dentro l’ambra, la parola riposa, il Leviatano salta all’occhio, un po’ viscido come spessa pelle di balena. Salta e guizza e guizzando disegna un arabesco in aria, nello spazio che passa fra la pagina e l’occhio: llleeevvviiiaaatttaaannnooooooo, è una piroetta anzi due e poi tre e quattro, la parola spicca il volo bagnata d’inchiostro e d’acqua salmastra.
C’era una volta, dunque, il Leviatano e il Leviatano dormiva sopra un versetto del Libro di Giobbe, di un sonno profondo e senza sogni, muto come il ghiaccio di Settentrione, dormiva per lungo come un cuscino sul letto, solo la coda piegata a uncino, Lewwwwiyyyatan e avrebbe dormito per sempre adagiato sulla pagina della Bibbia, di ruvida e vecchia pergamena, se un giorno un sospiro non l’avesse svegliato. Un sospiro lieve, appena un frusciare d’alito caldo, bastato a scollare l’antico torpore di una parola dal suono di labbra e palato: Leviatano.
C’era una volta il Leviatano che un giorno fu svegliato e svegliatosi saltò su dalla pagina, diretto all’occhio, e saltando guizzò come un pesce sputato dal mare, tirato da un amo immaginario legato a un filo ancor piú immaginario ma tenace e resistente, dalla pagina all’occhio, sospeso su quel sospiro di fiato leggero, il Leviatano risalí voltolando su se stesso, piroettando fra onde immaginarie, allegro da non dirsi. Giunto che fu all’occhio, cominciò la discesa che sempre comincia quando la salita finisce.
C’era una volta il Leviatano (e poi finalmente la storia comincia…) che dall’occhio iniziò la sua discesa in picchiata dentro la fantasia, e scendendo, ma come scendendo? Precipitando vorticosamente cadde sempre piú giú o forse piú su e gira che gira il Leviatano divenne un vortice, un mulinello d’acqua e d’aria, e di pelliccia e anche di suoni e del sonno di millenni ma soprattutto di zampilli. Acqua, luce, parole, figure: precipitando, il Leviatano sparpagliò zampilli di fantasia, ed è per questo che dove finisce una storia ne comincia sempre un’altra anche se in fondo nessuna storia finisce mai, meno che meno quella del Leviatano che da allora continua a precipitare come una tromba d’aria all’incontrario, un mulinello sospinto da una strana gravità, e precipitando continua a inventare storie, creature buffe, animali esagerati.
C’era una volta il Leviatano che qualcuno pensò bene di svegliare dalla pagina dove se ne stava tranquillo e beato, muto come un pesce mastodontico.
Già, il Leviatano è un pesce, un mastodonte di pesce.
C’era una volta il Leviatano, un pesce smisurato che un giorno uscí per sbaglio dalla pagina del Libro di Giobbe, fra un lamento e un’invettiva, e guizzando su e giú ne scaturirono zampilli di storie senza capo né coda.
C’era una volta, c’è ancora e per certo ancora ci sarà il Leviatano. Coda e pinne, pelle e zampilli. E se non ci fosse il Leviatano, non ci sarebbero nemmeno Ornim o forse Ormudz, né la rana poderosa e l’uccello Gambalunga, non ci sarebbe nemmeno il serpente della roccia e la gamba di carne, l’anatra del deserto sarebbe ancora ad aspettare che qualcuno la inventasse e nel mare mancherebbero in tanti, a cominciare dal pesce con gli occhi di luna.
Ma conviene andare per ordine.
C’era una volta Lilit. Lilit era una donna, o meglio una specie di donna, un po’ angelo e un po’ demonio – quasi come tutte le donne –, ma vecchia da non dirsi. Però questa non è la storia di Lilit, e nemmeno, del resto, di suo figlio Ornim piè lesto, che un giorno correva sul parapetto del muro di Mauza. Correva a perdifiato, cosí veloce ma cosí veloce, si racconta, che giú dabbasso il fantino a dorso di destriero non riuscí a raggiungerlo.
Un altro giorno Ornim si dilettò cosí, saltando d’un balzo fra un ponte e l’altro sopra il fiume di Rognag. E non state a chiedere dove si trovi Rognag. Non lo so, e se lo sapessi non lo direi a nessuno. Ovunque sia, qui Ornim giocò a saltarello fra un ponte e l’altro, tenendo in ogni mano due coppe di vino, una per mano, e saltando giocava a travasare il vino di qua e di là da una coppa all’altra, senza che una sola goccia andasse perduta. Il perché questo gioco innocente gli sia costato una condanna a morte è ancora tutto da capire.
C’era un’altra volta Urzilla, la giovane gazzella, alta appena nata già quanto il monte Tabor. Già, ma quant’è alto il monte Tabor?
Quattro parasanghe.
E una parasanga, a quanto corrisponde? Mah, chi lo sa. L’effetto è quello che conta, e quattro parasanghe è un bel dire, eccome.
Il collo di Urzilla era lungo tre parasanghe e quando un giorno decise di evacuare, il suo escremento fermò il corso del Giordano. Mah. Del resto, chi ha mai detto che le storie debbono essere vere…
C’era una volta – parola di Rabba bar Bar – una rana (l’ho vista coi miei occhi, ha detto Rabba bar Bar…) grande quanto Agruta. Benissimo, ma quanto mai sarà grande Agruta? Come sessanta case. Già, ma poi arrivò un coccodrillo che si mangiò la rana, poi arrivò un corvo che si mangiò il coccodrillo e andò a posarsi su un albero: immaginatevi un po’ quanto era grande quell’albero…
C’era una volta (ancora?) un pesce. C’era una volta anche Rabba Baraba che, andando per mare a bordo di un vascello, vide quel pesce, a quel pesce era entrato un parassita nelle narici e l’aveva ucciso. Ma la storia, beninteso, non finisce affatto qui perché, una volta morto, quel pesce divenne una carcassa che il mare rigettò su una riva un bel giorno o un brutto giorno, chissà, e approdando laggiú quella carcassa di pesce distrusse sessanta città, altrettante se ne mangiò (ebbene sí), in pari numero ne salò e da uno soltanto dei suoi globi oculari si ricavarono trecento barili di olio. E come se non bastasse, dodici mesi dopo l’accaduto, a passare da quelle parti si trovavano ancora squadre di falegnami al lavoro fra le lische, da cui ricavavano travi sufficienti per ricostruire tutte, non una di meno, quelle città.
Per chi credeva che la storia potesse finire qui, c’era una volta un pesce. Un altro pesce, con il dorso foderato di terra sulla quale cresceva l’erba. Convinti che si trattasse di un’isola, un giorno alcuni marinai scesero su quel pesce e si misero a cuocere e cucinare vivande d’ogni sorta. Se non che, per il calore quel bestione finí per girarsi, travolgendo l’allegra compagnia che si salvò a stento, arrancando a nuoto verso la nave, lo stomaco ancora vuoto e una gran paura in testa.
C’era una volta – e chi si stupisce piú – un pesce cosí grande che per andare da una sua pinna all’altra ci volevano tre giorni e tre notti, e non a passo lento e cadenzato, macché! Con una nave che, sentite bene, copriva sessanta parasanghe, sessanta non una di meno, nel tempo in cui l’acqua si scalda dentro il bricco. Tanto per essere chiari, piú veloce della freccia scoccata dall’arco di un franco tiratore a cavallo. Udite queste cose, rabbi Ashi alzò le spalle, fece una smorfia di sussiego, sbuffò, accavallò le gambe, piegò leggermente l’angolo del labbro atteggiandolo a un sorriso storto, si grattò la barba per un tempo che a tutti, ma proprio a tutti, parve interminabile, schioccò la lingua contro il palato producendo lo stesso rumore che fa una mosca se la spiaccichi contro il muro, e disse infine, quasi a denti stretti:
– Che mostro piccino…
C’era una volta l’uccello Gambalunga. Forse c’è ancora. Comunque, una volta c’era. Perché si chiama Gambalunga? La risposta potrebbe essere banale, ma in fondo le storie servono anche a questo. A spiegare perché l’uccello Gambalunga si chiama Gambalunga. Anche se forse, chissà, l’uccello si chiama Gambalunga da quando qualcuno ha raccontato la sua storia per la prima volta.
C’era una volta Rabba Baraba che navigava a bordo di un vascello. Un giorno egli avvistò un uccello in piedi sul pelo dell’acqua, la testa che arrivava al cielo. Pensando che il mare in quel punto fosse ben poco profondo, data la calura di quel giorno d’estate torrido come una pietra arroventata sul fuoco, i marinai fecero per tuffarsi quando si udí una voce misteriosa, che piú volte ripeté cosí: – Guai a voi se calerete in questo abisso. Sette anni fa un falegname vi lasciò cadere la sua ascia, e deve ancora toccare il fondo.
C’era una volta di nuovo Rabba Baraba che, viaggiando questa volta per il deserto, incontrò un giorno un branco di oche cosí grasse ma cosí grasse che perdevano le piume tanto erano grasse e perdendo le piume perdevano anche fiumi di grasso, grasso a fiumi. Povere oche.
C’era una volta un pesce che mettendo la testa fuori dall’acqua mostrava occhi grandi come due lune e sbuffando dalle narici produceva due fiumi grandi come quelli di Sura. Quanto son grandi i fiumi di Sura? E chi lo sa?
C’era una volta un pesce che mettendo la testa fuori dall’acqua (no, non lo stesso, un altro) mostrava un paio di corna possenti sopra le quali stava incisa una scritta: «Sono fra le creature del mare una di ben poco conto, son lungo soltanto trecento parasanghe e ora m’accingo a farmi inghiottire dal Leviatano!»
C’era una volta rabbi Yochanan. No, lui non aveva le corna né finí in pasto al Leviatano. In compenso andando per mare sopra un vascello vide un cesto colmo di perle e pietre preziose, circondato da un branco di pesci detti Karisa. Calatosi per agguantare il cesto, un pesce lo notò e a momenti faceva della sua gamba un sol boccone, allora Yochanan prese un otre d’aceto, glielo versò sopra, e il pesce affondò negli abissi.
Sentita questa storia, a rabbi Yehudah l’Indiano ne venne subito in mente un’altra, perché con le storie una tira immancabilmente l’altra e cosí a rabbi Yehudah venne in mente di quel giorno in cui, navigando per mare, vide una gemma attorniata da un serpente. Che cosa ci facesse un serpente sul mare, ebbene, questo nessuno ha ancora avuto l’ardire di chiederlo a rabbi Yehudah. Quanto alla gemma, meglio lasciar perdere.
A metà della storia, dovremmo lasciare perdere? Ma insomma. Sentiamo almeno che cosa ha da raccontare rabbi Yehudah. Dunque, quel giorno un provetto nuotatore si calò in mare per strappare la gemma dalle spire del serpente, ma questi non stette con le mani in mano – si fa per dire – e aprí le fauci per ingoiare la nave con tutto l’equipaggio, se non fosse che in quel momento esatto un corvo planò e con un colpo di becco spaccò la testa del serpente che in un baleno tinse di rosso sangue tutto il mare, a perdita d’occhio. Se pensate che la storia finisca qui, vi sbagliate di grosso. Venne un altro serpente che prese la testa mozzata del collega, la riattaccò al corpo e lo resuscitò, come se niente fosse stato. Tranquillo e beato, il serpente resuscitato fece di nuovo per ingoiare la nave ma il corvo puntuale piombò in picchiata e gli mozzò il capo, cosí finalmente il provetto nuotatore riuscí ad agguantare la gemma e buttarla sul ponte. «Avevamo dei pennuti sotto sale, – dichiara rabbi Yehudah, – ci posammo sopra la pietra preziosa e quelli spiccarono il volo…»
Se pensate che la storia finisca qui, vi sbagliate di grosso. È appena cominciata, anzi forse nemmeno. Dove eravamo rimasti? Già, al Leviatano.
Già, il Leviatano.
Beh, quello merita un’altra storia…

Il giorno in cui papperemo il Leviatano

Di mostri è pieno il mondo: marini e terrestri, d’aria e di cielo. C’è Beemot, ad esempio, che bruca ogni giorno l’erba di mille colli.
Ma Leviatano, lui è un’altra cosa. Come il Leviatano non c’è nessuno.
C’erano una volta Eleazar e Giosua, che viaggiavano per mare a bordo di un vascello. Il primo s’addormentò, l’altro rimase vigile, il freddo lo fece rabbrividire perché era notte fonda e una notte buia da non dirsi, in mezzo al mare, e rabbrividendo si scosse e scuotendosi svegliò Eleazar, il quale, a mezza strada fra il sogno e la veglia, domandò: – Perché mi svegli? – e l’altro rispose sbigottito, come se dentro il sogno ci stesse ancora, lui: – Ho visto una luce grande, nel mare.
– Ma sí, sono gli occhi del Leviatano, la luminaria che hai visto, – rispose Eleazar insaccando il capo fra le spalle e tornando a rannicchiarsi sotto la coperta e, ancor prima di finire di grattarsi una pianta del piede con l’alluce dell’altro, già russava come un montone molto arrabbiato.
Serpente sghembo, serpente tortuoso. È un po’ cosí e un po’ cosà il Leviatano, dipende da come lo guardi, o l’immagini o lo sogni, come quasi per certo capitò quella notte a rabbi Eleazar, dopo che si era grattato il p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Fiabe ebraiche
  3. Prefazione
  4. Nota della curatrice
  5. Fonti
  6. Fiabe ebraiche
  7. Avventure in cielo, in terra e per mare
  8. La fatica di vivere
  9. Volpi, leoni, pentole e pozzi
  10. Vizi e virtú
  11. Glossario
  12. Il libro
  13. Copyright