Mi sono svegliato di colpo, mentre stavo vedendo cose strane, bizzarre, e mi sono sentito tristissimo quando ho capito che si trattava soltanto di un sogno. In quel sogno vedevo un vecchio, un vecchio vestito con una pellegrina e che mi girava attorno chiamandomi per nome. Sono sicuro che stesse per rivelarmi il segreto della Storia, solo tirava le cose per le lunghe al fine di torturarmi un po’ prima di parlare. Io che sono convinto, non so perché, che tutto nella vita abbia un prezzo, sopportavo quella sofferenza per amore del sapere, provavo uno strano senso di vergogna, mi ripetevo che dovevo resistere per poter apprendere quel segreto, ma di colpo quella vergogna è diventata intollerabile e mi sono svegliato, zuppo di sudore. Adesso, sento il tumulto della spiaggia, il frastuono delle macchine e delle barche a motore che giunge da oltre il portale. Questa lunga siesta, cosÃ, non mi è servita a niente: avendo passato la notte a bere, mi sento ancora intorpidito. Guardo l’orologio: sono le quattro meno un quarto. È troppo presto per riprendere a bere, ma mi alzo lo stesso.
Esco dalla stanza. La casa è immersa nel silenzio. Scendo le scale, entro in cucina e quando, con gesto automatico, afferro la maniglia del frigorifero, provo ancora lo stesso senso di attesa: l’attesa di qualcosa di nuovo, di una nuova emozione, di un’avventura imprevista. Se accadesse qualcosa nella mia vita, qualcosa che mi facesse dimenticare gli archivi, la Storia e le storie! Apro il frigorifero, ne contemplo lo splendore, proprio come se stessi osservando la vetrina di una gioielleria: bottiglie e boccali multicolori, uova, pomodori, ciliegie, fatemi dimenticare le mie preoccupazioni! Ma quelli parevano rispondermi: non possiamo farci piú niente, ormai, dovrai consolarti rinunciando alle gioie del mondo, o fingendo di farlo, poi aggiungerai l’alcol ai tuoi piccoli piaceri, ai tuoi piccoli dolori, e ti lascerai andare... Mi resta una mezza bottiglia di rakÃ; e se andassi a comprarne un’altra? Chiudo il frigorifero e d’improvviso mi pongo la domanda: non dovrei, come mio padre e mio nonno, lasciare tutto e ritirarmi qui? Andrei ogni giorno a Gebze, mi metterei alla scrivania per consacrarmi alla stesura di un’opera, fatta di milioni di frasi senza capo né coda, legata a quella che chiamiamo la Storia. E, questo lavoro, lo farei non per cambiare il mondo, no, soltanto per dire che cos’è.
Il vento è rinfrescato, adesso soffia con piú forza. Guardo il cielo, le nuvole si sono avvicinate. Ci sarà una bella tempesta di ostro. Ho dato un’occhiata alle persiane ancora chiuse della stanza di Recep, me lo figuro addormentato. Seduta accanto al pollaio, Nilgün legge un libro, si è tolta i sandali, ha posato a terra i piedi nudi. Ho fatto il giro del giardino, sfaccendato come un monello, poso la mano sulla vera del pozzo, sulla pompa dell’acqua, penso alla mia giovinezza. Anche alla mia infanzia. E quando mi sono ritrovato a pensare di nuovo alla mia ex moglie, ho deciso di andare a mangiare qualcosa, sono rientrato in casa. Anziché scendere in cucina, però, sono salito in camera mia e, mentre fissavo con sguardo vacuo il giardino, mi sono chiesto in un sussurro se valeva la pena di affannarmi a correre dietro al miei pensieri, a vivere, insomma: sono davvero capace di avere pensieri che valgano la pena d’essere seguiti? E, per non pensare piú, mi sono buttato sul letto. Apro un libro di Evliya Çelebi, leggo a casaccio.
Racconta di un viaggio nell’Ovest dell’Anatolia; descrive Akhisar, borgo del Mar di Marmara, poi un paesino della stessa zona, e anche le terme. Terme la cui acqua satina la pelle come fosse olio e guarisce perfino la lebbra, se la si beve per quaranta giorni di fila. Riesco a conoscere il modo in cui l’autore fa riparare e pulire una delle vasche e come vi si immerge deliziato. Rileggo questo passo, e il piacere che ne trae Evliya Çelebi, il quale non ha la minima nozione di peccato o di colpa, mi fa invidia, vorrei essere al suo posto. Ha inciso su una colonna della vasca la data in cui è stata effettuata la riparazione. E poi se n’è andato, attraversando il Gediz a cavallo. Racconta senza omettere il piú piccolo particolare, con la serenità , il buonumore del bandista che suona la grancassa. Chiudo il libro e mi chiedo come ci riesca, come riesca ad accordare a quel modo fatti e scrittura, a osservarsi come se osservasse un altro! Se lo facessi io, se cominciassi lo stesso racconto, in una lettera a un amico, per esempio, non riuscirei a dar prova della stessa semplicità , a sentire la sua stessa gioia; vi introdurrei il mio io; il mio pensiero tortuoso, colpevolizzato, velerebbe la nudità dei fatti. Le mie intenzioni si mischierebbero ai miei atti, i miei giudizi di valore agli eventi: non sarei capace di stabilire il legame diretto; genuino che Evliya riesce ad annodare fra sé e le cose, e mi farei dolere le tempie a furia di spremermi le meningi sull’apparenza delle cose!
Riprendo a leggere: ora si parla delle città di Turgutlu e di Nif, di Ulucakli e di una bella serata che vi trascorse Evliya: «Rizzammo le tende in riva a un fiume e, comprato un agnello bello grasso da alcuni pastori del pascolo, lo divorammo, dopo averlo fatto arrostire, senza tanti complimenti». Ecco: il piacere e il buonumore sono sobri quanto il mondo esterno. L’universo è uno spazio concreto dove è piacevole vivere, ora con entusiasmo, ora con una malinconia venata di allegrezza; non è luogo da criticare accalorandosi nella passione, nel desiderio di modificarlo o di conquistarlo...
A un tratto, però, mi dico che Evliya può benissimo aver barato per ingannare il lettore; forse era un tipo come me, con la differenza che lui sapeva scrivere bene, e mentire bene. Forse vedeva questi alberi e questi uccelli, queste case e questi muri esattamente come li vedo io, ma è riuscito a incantarmi grazie al suo talento di scrittore. Non sono tuttavia riuscito a convincermene e, dopo aver letto ancora un po’, ho deciso che in quel caso non si poteva parlare di talento, ma di conoscenza intuitiva. La conoscenza che Evliya Çelebi ha dell’universo, degli alberi o delle abitazioni o degli uomini è radicalmente diversa dalla nostra. D’improvviso mi nasce dentro una strana curiosità : com’era possibile? Come si era formata la conoscenza, la coscienza di Evliya? Quando penso alla mia ex moglie, dopo aver molto bevuto e rimuginato a lungo sulle mie preoccupazioni, mi capita di chiamare in aiuto non so bene chi o che cosa, come succede in un incubo da cui non si riesca a uscire.
Con la stessa disperazione mi pongo la domanda: non potrei essere come Evliya, fare in modo che la struttura del mio cervello somigli alla sua? Non potrei dedicarmi alla descrizione dell’universo tutto, con la sua stessa sobrietà , con la sua stessa semplicità ?
Getto da parte il libro. Tento di darmi forza ripetendomi che ne sono capace, che potrei consacrare la mia vita a questo lavoro, con convinzione. Mi metterò a descrivere il mondo e la storia a partire dal punto in cui li incontrerò. Enumererò i fatti, proprio come Evliya, quando ci dice a chi il sultano ha attribuito la provincia di Manisa, quanti hassi19, quanti zeameti20, quanti timari21, essa comporta, quanti soldati fornisce. Del resto, tutti questi fatti sono a mia disposizione negli archivi, aspettano soltanto me. Potrei trascrivere tutti quei documenti con la pacatezza di Evliya quando ci parla dei monumenti storici o dei costumi e delle usanze. Proprio come lui, non farei intervenire il giudizio nella narrazione di quei fatti. Potrei poi aggiungere questo o quel particolare, come fa Evliya quando ci spiega che la cupola della tal moschea è rivestita di tegole o di piombo. In tal modo, la storia che scriverei sarebbe soltanto una chiara descrizione dei fatti, del tutto simile ai Viaggi. Con la stessa sapienza di Evliya, interromperei di tanto in tanto la mia enumerazione rammentando che nel mondo esistono molte altre cose, e scriverei la parola
Storia
in testa a una pagina, per far capire bene al lettore che i fatti narrati sono del tutto esenti dalle finzioni, tanto piacevoli, tanto divertenti, architettate per blandire le passioni e le emozioni umane. Se un giorno qualcuno leggesse le pagine che avrò scritto a quel modo e che peseranno assai piú delle seicento pagine di Evliya Çelebi, potrà ritrovare in esse, pari pari, la nebulosa della storia che mi pervade la mente; sarà tutto lÃ, nero su bianco, come in Evliya, come una cosa naturale, come una pianta o un uccello o un sasso, e ciò farà sentire al lettore che dietro ogni racconto si cela un fatto altrettanto naturale. In tal modo potrò sfuggire agli strani vermi che sento brulicare nelle sinuosità del mio cervello. E il giorno in cui me ne sarò liberato, potrò finalmente tuffarmi in mare, e il piacere che ne trarrò sarà pari a quello che provava Evliya nella sua vasca: mi stavo dicendo questo, quando ho avuto un brusco sussulto. Una macchina strombazzava con insolenza; questo rumore «moderno», stridente, orrendo, che interrompe le fantasticherie e cancella i ricordi, mi ha messo subito di cattivo umore.
Mi alzo di scatto, scendo precipitosamente le scale ed esco in giardino. Il vento soffia forte, le nuvole sono vicinissime, sta per piovere. Accendo una sigaretta, attraverso il giardino e mi ritrovo in strada; cammino. Dunque, mostratevi bene ai miei occhi, muri, finestre, macchine, terrazze, e la vita su quelle terrazze, palloni e gavitelli di plastica, zoccoli, sandali, bottiglie, creme solari, scatole, camicie, asciugamani da bagno, borse da spiaggia, gambe, gonne, donne, uomini, bambini, insetti, mostratemi i vostri volti smorti, privi di espressione, le vostre spalle abbronzate, i vostri seni giganteschi, le vostre braccia troppo esili, insicure, i vostri sguardi impacciati; spiegate per me i vostri colori e i piani delle vostre forme, perché voglio dimenticare tutto, il naso incollato a quelle superfici; voglio fluttuare, dimenticare me stesso, gli occhi fissi alle luci al neon, ai tabelloni pubblicitari in plexiglas, agli slogan politici, agli schermi televisivi, alle donne nude in mostra nelle vetrine delle drogherie, o fissate alle pareti con le puntine da disegno, alle fotografie dei giornali, ai manifesti pieni di volgarità , sÃ, mostratevi, esibitevi...
Basta! Eccomi arrivato al molo. Che vano ardore: cerco soltanto di ingannare me stesso! So bene, senza osare confessarlo, che amo tutte queste immagini, che nel profondo di me stesso ho bisogno di tutto ciò che definisco volgare e senz’anima, che anch’io faccio parte di ciò che voglio convincermi di detestare. Talvolta riesco a persuadermi che avrei desiderato davvero vivere duecento anni fa, o vivere fra duecento anni, ma è soltanto una menzogna. So beni...