Natura morta
  1. 416 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Seguito della Vergine nel giardino e precursore della Torre di Babele, questo romanzo racconta i progetti, gli incontri, l'educazione sentimentale di Frederica Potter, quando la protagonista della saga di A. S. Byatt era studentessa all'Università di Cambridge negli anni Cinquanta. Frederica ha rinunciato al teatro e inizia ad appassionarsi alla pittura. La figura di Van Gogh, la sua irrequietezza, il suo folle bisogno di dare alle cose luce e colori esatti diventa una sorta di contraltare alle sue contrastanti esperienze. *** «Un grande romanzo, un'opera meravigliosa e fuori del comune». Iris Murdoch

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806176747

Capitolo settimo
Una nascita

I.
A Blesford intanto era arrivato aprile. Il sole non era piú freddo. C’erano fiori primaverili sull’altare. Marcus era irrequieto, ma nessuno se ne accorgeva perché l’attenzione era concentrata sul bimbo di Stephanie. Stephanie appariva sempre piú calma, poiché tale era la sua natura e poiché ormai era quasi ridotta all’immobilità. Ciò che prima nuotava e fluttuava e roteava, era ora compresso tra le sue ossa contro le quali si sfregava, muovendosi di tanto in tanto con forza indipendente, premendo contro le pareti del suo corpo ormai quasi prive di elasticità con un’urgenza che la lasciava stordita e senza fiato. Non navigava piú, era bloccata dalla zavorra e procedeva a fatica, a piedi divaricati. Vivere si identificava con l’attesa, e non era un’attesa paziente. Aveva perso la sua autonomia. Qualcosa viveva la sua vita; lei non viveva.
Aveva paura. Non del parto in sé, su cui aveva riflettuto a fondo, ma delle concomitanti umiliazioni inflitte dagli ospedali – clisteri e rasoi – per i quali ogni tanto versava lacrime lente. Non c’era motivo, si diceva, di temere il parto, che la maggior parte delle donne sopporta e al quale la maggior parte di loro al giorno d’oggi sopravvive, e che dura un tempo limitato, diciamo quarantotto ore al massimo. Ci si può imporre di sopportare per quarantotto ore quasi qualunque cosa, si diceva. All’ambulatorio le donne si erano scambiate racconti orripilanti, che lei aveva ascoltato solo a metà, di parti podalici e lacerazioni da forcipe. Cose che avrebbe affrontato se e quando si fossero presentate. Aveva letto un libro sul parto naturale – come molte donne della sua generazione, si rivolgeva ai libri piuttosto che alla madre – ed era inorridita leggendo delle alternative innaturali. Non cercò di praticare gli esercizi di rilassamento consigliati dal libro. Era sempre stata convinta di avere il pieno possesso del proprio corpo. Immaginava che le donne non fossero cosí civilizzate da aver perso la capacità naturale di reagire a fenomeni tanto naturali da coinvolgerle tutte con la stessa imperiosità del nutrirsi e dell’evacuare. Se rilassarsi era naturale, si sarebbe rilassata, al momento opportuno. Ma clisteri e rasoi la spinsero a proporre a Daniel di far nascere il bambino in casa. Daniel inorridí, disse che se qualcosa fosse andato storto non se lo sarebbero mai perdonato, e le domandò come poteva immaginare di far nascere un bambino in quella casa, con Marcus e sua madre. Stephanie si rese conto allora che quei due erano, a modo loro, imbarazzanti quanto i clisteri e le infermiere. Non riuscí, per una sorta di pudore, a parlare a Daniel dei clisteri. Rinunciò all’idea.
Marcus la udí cantare. Si fermò sul pianerottolo, ascoltandola cantare in cucina, tra un frenetico acciottolio di pentole. Cantava «Resta con me». I Potter avevano solo inni a disposizione, nelle rare occasioni in cui, stonati com’erano, decidevano di cantare. Marcus non ricordava l’ultima volta che l’aveva sentita cantare. Scese silenziosamente al piano di sotto, alle spalle della signora Orton, seduta nella grassa poltrona.
Stephanie aveva mal di schiena, e sotto il peso che portava il dolore la attanagliava come i ceppi di ferro attorno al cuore del servo fedele nella fiaba dei fratelli Grimm. Continuò a cantare, con un’improvvisa chiarezza mentale: aveva deciso di preparare il pane per Daniel, come non faceva da qualche tempo. Aveva letto del flusso di adrenalina all’inizio del travaglio, ma in quel momento se ne dimenticò, perché nella sua mente si era fatta chiarezza. Si chinò a prendere le teglie, e salí su uno sgabello per raggiungere il barattolo della farina. Il cerchio di ferro si strinse, poi si rilassò quando scese. Concluse «Resta con me» e attaccò briosamente «Luce divina». Marcus si affacciò alla porta.
– «Mai cosí non fui, – cantava Stephanie, – né pregai che tu…» Marcus, cosa fai lí?
– Ti sentivo cantare.
– Sono padrona di cantare nella mia cucina, se mi va. Mi aiuti a fare il pane?
– Se vuoi, – disse Marcus, entrando con passo incerto.
– Puoi sciogliere il lievito in quella ciotola di vetro. Io ho mal di schiena. Dovremo usare lievito in polvere. Uno di quei pacchettini, due cucchiaini di sale marino e una mezza pinta di acqua tiepida. «Amavo scegliere e vedere il mio sentiero ma ora tu mi guidi…» – Versò la farina sul piatto della bilancia, canticchiando, si interruppe per riprendere fiato, e si piegò a prendere una grande ciotola di terracotta. Marcus se ne stava impalato di fronte al bollitore, troppo concentrato sul significato di «tiepida». – «Amavo il giorno abbagliante, malgrado la paura l’orgoglio mi governava. Non ricordare gli anni passati…»
Si passò sulla fronte la mano infarinata e il dolore la colpí, nitido come una nota musicale, sgorgando dal tumulto nella spina dorsale, riverberando, affievolendosi. Le sue percezioni erano insolitamente rallentate, dopo aver ripreso fiato si dedicò nuovamente alla farina, creò una fontana al centro del mucchio. Marcus guardava con apprensione la sua faccia arrossata e gli occhi lucidi: intuiva il tumulto, senza essere in grado di definirlo. Nessun tumulto, nel suo mondo, era positivo. Mescolò il lievito, annusandone l’odore acido e vivo, osservandolo gorgogliare, come una creatura viva sotto il fango. Era davvero una creatura viva. Marcus mescolava ed essa sospirava.
– Versa qui, – disse Stephanie. Chinarono insieme le teste sulla ciotola e lei mescolò con un coltello finché il dolore l’aggredí, ancora piú netto, e dovette aggrapparsi al bordo del tavolo, percependo questa volta anche la possente tensione dei muscoli che si contraevano senza alcuna volontà o anche solo acquiescenza da parte sua. – Oh cielo, – disse debolmente Stephanie, e con sguardo cieco fissò Marcus, che fece un passo indietro. – Credo… – disse esitante. Marcus era dietro la cucina economica. – Credo… – ripeté lei, mentre il dolore ritraeva i suoi artigli e lei riprendeva momentaneamente possesso di sé. Inutile chiedere aiuto a Marcus. Uscí dalla cucina e vide la signora Orton che sonnecchiava in poltrona. La signora Orton era una donna. Negli ultimi mesi aveva piú volte rievocato la nascita di Daniel, un monodramma con la sua solitaria protagonista, coraggiosa e perseguitata da uomini, autorità e infermiere incompetenti. Stephanie non era sicura che la signora Orton potesse aiutarla. Disse anche a lei: – Credo… – e la signora Orton la guardò senza espressione, cercando un appiglio per cominciare a lamentarsi.
– Credo di… di dover andare all’ospedale –. Stephanie terminò la frase in modo sensato, innocuo. La signora Orton la fissava senza espressione e, dopo aver riflettuto, la informò che non era il suo solito giorno di visita. Stephanie disse no, ma stava male. La signora Orton, piú ostinata del solito, le fece notare che mancavano ancora due settimane e mezza, e che i primogeniti sono sempre in ritardo. Stephanie, che se l’era già sentito dire, dubitò delle proprie percezioni e tornò remissiva verso la cucina. Un sacco di donne hanno dolori strani, disse autorevolmente la signora Orton. In cucina, Marcus sembrava paralizzato dall’orrore, aprí la bocca e la richiuse, disperato, senza riuscire a parlare. In mezzo a quei due, Stephanie fu improvvisamente colta da una nuova fitta, che quasi la sollevò da terra. Si piegò, afferrandosi al telaio della porta, riprendendo fiato, tastandosi il ventre irrigidito. Nessun segno, nessuna rottura delle acque, dichiarò la signora Orton, senza chiedere, decisa a negare. Stephanie si sentiva oscenamente nuda tra quei due. Non erano in grado di aiutarla. Rimase in piedi ansimante finché la stretta si attenuò, poi andò al telefono e chiamò il 999. Non aveva ancora finito di parlare che già la signora Orton ricominciava a rimproverarla, anche ammettendo che avesse ragione era stata stupida a telefonare, ci sarebbero volute ore e ore, sarebbe stato deprimente passare tutto il giorno in una stanza di ospedale, meglio aspettare che le cose si muovessero sul serio…
Stephanie passò accanto alla suocera e andò al piano di sopra. Si mise a preparare l’indispensabile valigia, a cui non aveva ancora pensato: camicia da notte, spazzola, spazzolino, sapone, Wordsworth, Guerra e pace, Arabella, Il figlio di Venerdí. Chi se non Wordsworth? Cacciò in valigia anche i Quattro quartetti. Suonarono alla porta. A quanto pareva nessuno aveva intenzione di aprire. Stephanie chiuse la valigia e, con la fronte imperlata di sudore, scoprí di non riuscire a raddrizzare la schiena, questa volta il dolore colpiva e torceva, anziché cantare, perché l’angolazione del corpo era sbagliata, perché era tesa. Sollevò con decisione la valigia e scese. Marcus stava lentamente e obliquamente aggirando la poltrona della signora Orton. Stephanie aprí la porta e gli uomini dell’ambulanza entrarono. Stephanie consegnò loro la valigia e disse che avrebbe preso il soprabito.
– Ci penserà questo giovanotto.
– Faccio da sola…
– Non si muova, cara. Questo giovanotto sarà felice di aiutarla.
Marcus le portò il soprabito. Le chiesero se riusciva a camminare: lei disse di sí, ma dovettero sostenerla e quasi trasportarla. Una volta partiti, come succede per altri viaggi piú ordinari, le cose migliorarono.
All’ospedale generale di Calverley l’aiutarono a scendere dall’ambulanza e la costrinsero a sedersi su una sedia a rotelle. Con lo sguardo spiritato a causa dell’adrenalina, lei obiettò che voleva camminare, era in grado di camminare, si sarebbe sentita meglio. Le risposero con fermezza che non era consentito, e la spinsero, rumorosamente, su per le rampe, lungo asettici corridoi. L’apice della pancia gibbosa si sollevò sotto il suo mento, si contrasse, recedette. Le venne il singhiozzo. Arrivarono in sala travaglio.
La parte successiva fu, come temeva, priva di dignità. Invitata a sdraiarsi su un letto alto, duro, simile a una tavola, sentí dentro di sé cose che sfregavano, tiravano e strappavano. C’era acqua che le scorreva tra le gambe: una piccola infermiera, in un camice verde come un panno da biliardo e stretti polsini bianchi fin sopra i gomiti, la asciugò e sbirciò tra le sue gambe attraverso lenti appannate. Gli occhiali, notò Stephanie con distaccata precisione, rendevano ancor piú brutta la sua faccia da coniglio: avevano ali dorate che si alzavano verso le piccole sopracciglia semicircolari. Chiamava Stephanie «mamma», ma non la guardava mai in faccia, la invitava a spogliarsi e a girarsi da questa o da quella parte, sempre rivolta con occhi e orecchie alla dura e pallida prominenza. Si avvicinò la caporeparto, in camice a righe bianche e viola, che invece rivolse a Stephanie uno sguardo gentile mentre le facevano infilare le braccia nude in una tunica di tela bianca che le venne approssimativamente allacciata sulla schiena. L’infermiera le parlò della rasatura e del clistere, e Stephanie, che credeva nella buona educazione, riprese fiato e disse che andava bene, sapeva che era necessario. Aggiunse che aveva paura del clistere, non poteva farci niente. Sperava che confessare la paura avrebbe, come spesso succede, reso piú facile affrontare sia la paura sia la cosa in sé. Avrebbe preferito infermiere piú anziane: sembravano entrambe piú giovani di lei, e percepiva una certa tensione sotto la loro brusca giovialità. Portarono una bacinella metallica a forma di rene, acqua saponata e un gelido rasoio da uomo, arrotolarono la succinta tunica bianca e le rasarono il pelo pubico, provocando arrossamenti nelle pieghe interne delle gambe di Stephanie, raggelando quelle parti di lei che già non scottavano, interferendo – come avrebbero fatto ripetutamente – con i ritmi del dolore, alterandone con scatti e dissonanze il canto fino a quel momento severo. Appoggiarono mani fredde, e imbuti argentei ancora piú freddi, sui crinali e le pianure di quella prominenza dilatata, e Stephanie avrebbe voluto gridare, allontanare tutto ciò, ma era troppo educata per fare qualsiasi cosa che non fosse inarcare le sopracciglia. Cronometrarono le contrazioni, le dissero che stava andando «bene» e le fecero il clistere. Allora Stephanie sentí l’infiammazione e l’irritazione diffondersi quasi ovunque, e provò una sorta di timor panico. Obbediente e gocciolante, scese dal lettino e arrancò fino al bagno dove l’acqua correva e la tazza era in attesa. Si chiese come, perché, se non le era permesso camminare lungo i corridoi, poteva rimanere in bagno tutta sola e impotente. Era dilaniata da un turbinio di dolori, come onde che si avvolgono su se stesse per l’alta marea, come agitate correnti trasversali in un estuario. Rimase seduta, in attesa che la furia del clistere si esaurisse, e pianse un po’, silenziosamente, per non farsi sentire. Ebbe un qualche sollievo quando lo strazio si placò nelle viscere. Si tolse cautamente la tunica, che comunque le ricadeva sul davanti, lasciandola in gran parte nuda. Entrò nella vasca e strofinò con acqua tiepida i punti dove era stata rasata, sospirando, sentendo, udendo, o credendo di udire, ossa che scricchiolavano e si spezzavano nel suo bacino. Il fondo della vasca era freddo e sabbioso, forse per il Vim. Uscí dalla vasca rapidamente, troppo rapidamente: mentre sollevava una gamba fu colta dall’ennesima ondata di dolore e rimase bloccata, pesante, assurda, in trappola, gli umidi riccioli biondi incollati sul collo e le guance. Le infermiere entrarono e la sostennero, legarono i sottili lacci della tunica, le diedero una vestaglia e la rimisero sulla sedia a rotelle.
La portarono in una stanza spoglia con un letto bianco, un comodino, una sedia e un minuscolo lenzuolo bianco teso su un telaio di tubi metallici, che solo in un secondo momento, mentre si stendeva docile su quel nuovo letto, identificò come una culla. E fu solo vedendo quella piccola culla che Stephanie capí cosa stava succedendo: capí che non si trattava di un tormento concepito per metterla alla prova, c’erano due persone in gioco. Capí che quanto stava accadendo riguardava due persone, qualcuno doveva uscire. Pensò che era inconcepibile che il corpo femminile fosse abbastanza aperto o elastico per permettere di uscire a qualcosa con le dimensioni di un bambino. Che malgrado tutto doveva esserci una fine – doveva… Le infermiere stavano per lasciarla sola in quella stanza. Rivelando per la prima volta la sua agitazione disse che voleva i suoi libri, le dovevano portare i suoi libri. Libri? domandarono quelle.
– Nella valigia.
– Non si portano valigie in sala parto.
– Voglio i miei libri.
– Vedremo… quando qualcuno avrà tempo… siamo molto occupate… sono arrivate quattro partorienti tutte insieme, è un vero tour-de-force. Che libri vuole, allora?
– Li voglio tutti. Come faccio a sapere quale! Wordsworth. Tutti quanti. Wordsworth in particolare.
– Wordsworth?
– Le poesie. Se ha un attimo di tempo.
– Le poesie di Wordsworth –. L’infermiera ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Natura morta
  3. Ringraziamenti
  4. Prologo Postimpressionismo: Royal Academy of Arts, Londra 1980
  5. I. Prenatale: dicembre 1953
  6. II. Case
  7. III. Natale
  8. IV. Il Midi
  9. V. Il Mas Rose e il Mas Cabestainh
  10. VI. Scena di mare
  11. VII. Una nascita
  12. VIII. À l’éclat des jeunes gens en fleurs, I
  13. IX. À l’éclat des jeunes gens en fleurs, II
  14. X. Norme e mostri, I
  15. XI. Norme e mostri, II
  16. XII. Ecco il bambino
  17. XIII. Le mummie
  18. XIV. Figure del discorso
  19. XV. Wijnnobel
  20. XVI. Prime idee
  21. XVII. Ricerche sul campo
  22. XVIII. Hic Ille Raphael
  23. XIX. Serata poetica
  24. XX. Germinazioni
  25. XXI. Un albero particolarmente felice
  26. XXII. Nomi
  27. XXIII. Comus
  28. XXIV. Due uomini
  29. XXV. Cultura
  30. XXVI. Storia
  31. XXVII. Nomi di erbe
  32. XXVIII. La sedia gialla
  33. XXIX. Londra
  34. XXX. Unus passerum
  35. XXXI. Daniel
  36. XXXII. Sparizioni
  37. XXXIII. Tre scene
  38. Il libro
  39. L’autore
  40. Dello stesso autore
  41. Copyright