
- 160 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La figlia del capitano
Informazioni su questo libro
Un padre severo, un figlio ribelle spedito a prestare il servizio militare all'avamposto di Belogorsk, un bandito, una giovane donna contesa.
Sullo sfondo di una Russia attraversata dalla rivolta cosacca di Pugacëv, tra duelli, scontri e prigionie, Aleksandr Puskin narra il contrastato amore tra due giovani, il nobile Grinëv e la dolce Masa, che per coronare il loro sogno dovranno superare innumerevoli traversie.
Ultima prova letteraria di Puskin, La figlia del capitano fonde magistralmente le vicende dei protagonisti con la Storia, in un romanzo che si legge come un'«antica fiaba russa».
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Informazioni
Print ISBN
9788806211875eBook ISBN
97888584055121.
Sergente della guardia
– Sarebbe della guardia doman già capitano.
– Ma non importa: presti servizio nell’armata.
– Ben detto! Si abbia pure la vita tribolata…
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
– Ma il padre suo chi è?
(KNJAŽNÍN).
Mio padre, Andréj Petrovič Grinëv, nella sua gioventú aveva servito sotto il conte Münnich1, ed era andato a riposo col grado di primo maggiore nel 17… Da quel momento egli aveva vissuto nella sua campagna di Simbírsk, e lí aveva sposato la signorina Avdot´ja Vasíl´evna Ju., figlia di un nobile povero del luogo. Eravamo nove figli. Tutti i miei fratelli e sorelle morirono nell’infanzia. Io fui immatricolato al reggimento Semënovskij2 come sergente, grazie al maggiore della guardia principe B., nostro prossimo parente. Ero considerato in licenza fino al termine degli studi. A quel tempo non si veniva educati al modo di oggi. Dall’età di cinque anni fui dato in mano al bracchiere Savel´ič, per sobria condotta promosso mio aio. Sotto la sua sorveglianza, nel mio dodicesimo anno, imparai a leggere e scrivere in russo, e potevo giudicare assai rettamente delle qualità di un cane levriero. Allora il babbo mi assunse un francese, Monsieur Beaupré, che avevano fatto venire da Mosca insieme con la provvista annuale di vino e di olio. Il suo arrivo non piacque troppo a Savel´ič.
«Sia lodato Iddio, – egli borbottava tra sé; – a quanto pare, il bambino è lavato, pettinato, saziato. È proprio necessario sprecar denaro e prendere un musié, come se i nostri non bastassero!»
Beaupré nella sua patria era stato parrucchiere, poi soldato in Prussia, poi era venuto in Russia pour être outchitel 3, senza capire molto bene il significato di questa parola. Era un bravo ragazzo, ma sventato e scapestrato all’estremo. La principale sua debolezza era la passione per il bel sesso; non di rado per le sue tenerezze riceveva degli urtoni, a causa dei quali gemeva per delle giornate intere. Oltre a ciò, non era neanche, secondo la sua espressione, un nemico della bottiglia, cioè, per dirla in russo, amava bere piú del necessario. Ma poiché da noi il vino si serviva solamente a pranzo, e per di piú un bicchiere a testa, mentre il maestro di solito lo saltavano, il mio Beaupré si abituò molto presto all’acquavite russa, e anzi cominciò a preferirla ai vini della sua patria, come senza paragone piú salutare per lo stomaco. Noi c’intendemmo subito, e sebbene per contratto egli fosse obbligato a insegnarmi il francese, il tedesco e tutte le scienze, preferí imparare alla svelta da me a chiacchierare bene o male in russo, e poi ciascuno di noi si occupò delle sue faccende. Noi vivevamo a cuore a cuore. Un altro mentore non lo desideravo. Ma presto il destino ci separò, ed ecco in quale occasione.
La lavandaia Palaška, una grossa e butterata ragazza, e la guercia vaccara Akul´ka, non so come, si accordarono per gettarsi insieme ai piedi della mamma, accusandosi di colpevole debolezza e lagnandosi, fra le lacrime, di musié, che aveva sedotto la loro inesperienza. La mamma con queste cose non amava scherzare e si lamentò col babbo. Lui aveva la giustizia spiccia. Fece chiamare quella canaglia di francese. Gli riferirono che musié mi stava dando la sua lezione. Il babbo venne nella mia camera. In quel frattempo Beaupré dormiva sul letto il sonno dell’innocenza. Io ero occupato. Bisogna sapere che per me era stata fatta venire da Mosca una carta geografica. Essa era appesa alla parete senza essere mai adoperata, e da un pezzo mi tentava con l’ampiezza e la bontà del foglio. M’ero deciso a farne un aquilone e, profittando del sonno di Beaupré, mi ero messo al lavoro. Il babbo entrò nel momento stesso che applicavo una coda di stoppa al capo di Buona Speranza. Vedendo le mie esercitazioni di geografia, il babbo mi tirò un orecchio, poi corse verso Beaupré, lo svegliò senza nessuna cautela e si mise a colmarlo di rimproveri. Beaupré, turbato, voleva sollevarsi, e non poteva: il disgraziato francese era ubriaco fradicio. Una cosa valeva per tutte. Il babbo lo tirò giú dal letto per il bavero, lo spinse fuori della porta e quello stesso giorno lo cacciò di casa, con indescrivibile gioia di Savel´ič. E con ciò finí la mia educazione.
Io vivevo da ragazzino, inseguendo i colombi e giocando a cavallina coi monelli della servitú. Intanto compii sedici anni. Allora il mio destino mutò.
Un giorno, d’autunno, la mamma faceva cuocere in salotto della marmellata al miele, e io, leccandomi le labbra, ne guardavo la schiuma bollente. Il babbo, vicino alla finestra, leggeva l’Almanacco di Corte, che riceveva annualmente. Questo libro aveva sempre un forte influsso su di lui: non lo rileggeva mai senza un particolare interessamento, e questa lettura gli suscitava sempre uno straordinario rimescolio di bile. La mamma, che sapeva a memoria tutte le sue usanze e abitudini, cercava sempre di cacciare il disgraziato libro piú lontano che fosse possibile, e in tal modo l’Almanacco di Corte a volte non gli capitava sotto gli occhi per mesi interi. In cambio, quando per caso lo trovava, accadeva che non se lo lasciasse piú sfuggir di mano per delle ore intere. E cosí il babbo leggeva l’Almanacco di Corte, ogni tanto stringendosi nelle spalle e ripetendo a mezza voce: «Luogotenente generale!… L’ho avuto nella mia compagnia come sergente!… Cavaliere di entrambi gli ordini russi!... Ma è un pezzo che noi...?» Finalmente il babbo scaraventò l’Almanacco sul divano e si sprofondò in una fantasticheria che non presagiva nulla di buono.
A un tratto egli si rivolse alla mamma:
– Avdot´ja Vasíl´evna, ma quanti anni ha Petruša?
– Ma è entrato ora nel diciassettesimo anno, – rispose la mamma; – Petruša è nato nel medesimo anno che divenne guercia la zia Nastas´ja Geràsimovna, e quando ancora…
– Bene, – interruppe il babbo, – è tempo di fargli cominciare il servizio militare. E ora che smetta di correre per le stanze delle serve e di arrampicarsi sulle colombaie.
Il pensiero di un prossimo distacco da me colpí tanto la mamma che lasciò cadere il cucchiaio nella casseruola, e le lacrime le cominciarono a scorrere per il viso. Al contrario, è difficile descrivere il mio giubilo. Il pensiero del servizio militare si fondeva in me coi pensieri della libertà, dei piaceri della vita di Pietroburgo. Mi immaginavo ufficiale della guardia, il che, secondo la mia opinione, era il colmo della felicità umana.
Il babbo non amava né mutare i suoi proponimenti, né differirne l’esecuzione. Il giorno della mia partenza fu fissato. Il giorno prima il babbo dichiarò che aveva intenzione di scrivere per mezzo mio al mio futuro superiore, e chiese penna e carta.
– Non dimenticare, Andréj Petrovič, – disse la mamma, – di salutare anche da parte mia il principe B.: digli che spero che non priverà Petruša dei suoi favori.
– Che scempiaggine! – rispose il babbo accigliandosi. – Perché dovrei scrivere al principe B.?
– Ma hai pur detto che volevi scrivere al superiore di Petruša.
– Be’, e che c’entra?
– Ma il superiore di Petruša è il principe B. Petruša è immatricolato al reggimento Semënovskij.
– Immatricolato! E a me che importa che sia immatricolato? Petruša a Pietroburgo non ci andrà. Che cosa imparerebbe, prestando servizio a Pietroburgo? A far lo spendaccione e il birichino? No, che presti servizio nell’esercito, e tiri la carretta, e fiuti la polvere, e sia un soldato, e non un bellimbusto della guardia! Dov’è il suo passaporto? Dàllo qua.
La mamma trovò il mio passaporto, che era custodito nel suo scrignetto insieme con la camicina in cui mi avevano battezzato, e lo consegnò al babbo con mano tremante. Il babbo lo lesse con attenzione, lo mise davanti a sé sulla tavola e cominciò la sua lettera.
La curiosità mi tormentava. Dove mai mi mandavano, se non era a Pietroburgo? Non distoglievo gli occhi dalla penna del babbo, la quale si moveva abbastanza lentamente. Infine egli terminò, sigillò la lettera in uno stesso piego col passaporto, si tolse gli occhiali e, chiamatomi a sé, disse:
– Eccoti una lettera per Andréj Kàrlovič R., mio vecchio compagno e amico. Tu vai ad Orenbúrg a prestar servizio sotto il suo comando.
E cosí tutte le mie brillanti speranze crollavano! Invece dell’allegra vita di Pietroburgo mi aspettava la noia in una regione sperduta e lontana. Il servizio, al quale un momento prima pensavo con tanto entusiasmo, mi sembrò una grave sciagura. Ma non c’era da discutere! Il giorno dopo, di mattina, fu condotto all’ingresso un carro da viaggio; ci misero dentro la valigia, una cassetta col servizio da tè e degli involti di panini e pasticcini, ultimi segni delle domestiche mollezze. I miei genitori mi benedissero. Il babbo mi disse: – Addio, Pëtr. Servi fedelmente colui al quale presterai giuramento; obbedisci ai superiori; non correr dietro alla loro benevolenza; nel servizio non farti avanti; dal servizio non ti schermire; e ricordati del proverbio: Tieni da conto l’abito fin che è nuovo, e l’onore fin da giovane –. La mamma in lacrime raccomandava a me di aver cura della mia salute, e a Savel´ič di badare al bambino. Mi fecero indossare un pellicciotto di lepre, e di sopra una pelliccia di volpe. Montai sul carro con Savel´ič e mi misi in viaggio, struggendomi in lacrime.
In quella stessa notte giunsi a Simbírsk, ove dovevo passare ventiquattr’ore per l’acquisto delle cose necessarie, faccenda affidata a Savel´ič. Mi fermai in una locanda. Savel´ič fin dal mattino se ne andò per le botteghe. Annoiatomi di guardare dalla finestra il sudicio vicolo, andai a girare per tutte le stanze. Entrato nella camera del biliardo, vidi un signore alto, sui trentacinque anni, con dei lunghi baffi neri, in veste da camera, con la stecca in mano e la pipa tra i denti. Egli giocava col segnatore, che vincendo tracannava un bicchierino di acquavite, e perdendo doveva ficcarsi sotto il biliardo camminando a quattro zampe. Mi misi a guardare il loro gioco. Quanto piú a lungo esso durava, tanto piú le passeggiate a quattro zampe diventavano frequenti, finché da ultimo il segnatore rimase sotto il biliardo. Il signore pronunciò su di lui alcune energiche espressioni a mo’ di discorso funebre e mi propose di fare una partita. Io rifiutai, non sapendo giocare. Questo, evidentemente, gli parve strano. Mi guardò quasi con compassione, tuttavia ci mettemmo a discorrere. Seppi che egli si chiamava Ivàn Ivànovič Zurin, che era capitano nel *** reggimento degli ussari e si trovava a Simbírsk per prendere in consegna le reclute, e stava alla locanda. Zurin m’invitò a pranzare insieme a lui, con quel che Dio mandava, alla militare. Acconsentii volentieri. Ci sedemmo a tavola. Zurin beveva molto e ne versava anche a me, dicendo che bisognava abituarsi al servizio; mi raccontava delle storielle militari, a sentir le quali per poco non mi rotolavo dalle risa, e ci alzammo da tavola ottimi amici. Allora egli si offrí d’insegnarmi a giocare al biliardo.
– Questo, – egli diceva, – è indispensabile per noialtri militari. Durante una campagna, per esempio, arrivi in un paesetto; di che ti vuoi occupare? Non si può mica sempre picchiare gli ebrei. Per forza vai alla trattoria e ti metti a giocare al biliardo; e per questo bisogna saper giocare!
Io ne fui pienamente convinto e con la massima diligenza mi accinsi allo studio. Zurin m’incoraggiava rumorosamente, si meravigliava dei miei rapidi progressi, e dopo alcune lezioni mi propose di giocar di denaro, a un soldo per volta, non per il guadagno, ma cosí, solo per non giocare a vuoto, che era, secondo le sue parole, la peggiore fra le abitudini. Io acconsentii anche a questo, e Zurin fece servire del ponce e mi esortò ad assaggiarlo, ripetendo che al servizio militare bisognava abituarsi; e senza ponce che servizio era mai? Io gli diedi retta. Intanto il nostro gioco continuava. Quanto piú spesso io accostavo le labbra al mio bicchiere, tanto piú diventavo ardito. Le palle mi volavano ogni momento fuori di sponda; mi accaloravo, sgridavo il segnatore, che contava Dio sa come, di momento in momento aumentavo la posta, insomma, mi comportavo come un monello che ha acquistato la libertà. Intanto il tempo era passato inavvertitamente. Zurin guardò l’orologio, depose la stecca e mi dichiarò che avevo perduto cento rubli. Questo mi turbò un pochino. Il mio denaro lo aveva Savel´ič. Cominciai a fargli delle scuse. Zurin mi interruppe:
– Ma figurati! Non dartene nemmeno pensiero. Posso anche aspettare; e intanto andiamo da Arínuška.
Che volete? La giornata la finii cosí scapestratamente come l’avevo cominciata. Cenammo da Arínuška. Zurin ogni momento mi riempiva il bicchiere, ripetendo che bisognava abituarsi al servizio militare. Alzatomi da tavola, mi reggevo appena in gambe; a mezzanotte Zurin mi riportò alla locanda.
Savel´ič ci accolse all’ingresso. Fece un «ah!» vedendo i non dubbi segni del mio zelo per il servizio militare.
– Che cosa ti è accaduto, signore? – egli disse con voce pietosa, – dove ti sei sborniato? Ahimè, signore! un peccato come questo non s’è visto mai!
– Taci, barbogio! – io gli risposi, balbettando: – sei certo ubriaco; va’ a dormire… e mettimi a letto.
Il giorno dopo mi svegliai col mal di capo, richiamandomi confusament...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Copyright
- La figlia del capitano
- Nota introduttiva di Leone Ginzburg
- Nota bio-bibliografica
- La figlia del capitano
- 1. Sergente della guardia
- 2. La guida
- 3. La fortezza
- 4. Il duello
- 5. L’amore
- 6. Il moto di Puga?ëv
- 7. L’assalto
- 8. L’ospite non richiesto
- 9. La separazione
- 10. L’assedio della città
- 11. Il sobborgo dei ribelli
- 12. L’orfana
- 13. L’arresto
- 14. Il giudizio