
- 408 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Norwegian Wood. Tokyo Blues
Informazioni su questo libro
Murakami Haruki in uniform edition Super ET, con le copertine di Noma Bar.
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Uno dei piú clamorosi successi letterari giapponesi di tutti i tempi è anche il libro piú intimo, introspettivo di Murakami, che qui si stacca dalle atmosfere oniriche e surreali che lo hanno reso famoso, per esplorare il mondo in ombra dei sentimenti e della solitudine. Norwegian Wood è anche un grande romanzo sull'adolescenza, sul conflitto tra il desiderio di essere integrati nel mondo degli «altri» per entrare vittoriosi nella vita adulta e il bisogno irrinunciabile di essere se stessi, costi quel costi. Come il giovane Holden, Toru è continuamente assalito dal dubbio di aver sbagliato o poter sbagliare nelle sue scelte di vita e di amore, ma è anche guidato da un ostinato e personale senso della morale e da un'istintiva avversione per tutto ciò che sa di finto e costruito. Diviso tra due ragazze, Naoko e Midori, che lo attirano entrambe con forza irresistibile, Toru non può fare altro che decidere. O aspettare che la vita (e la morte) decidano per lui.
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Uno dei piú clamorosi successi letterari giapponesi di tutti i tempi è anche il libro piú intimo, introspettivo di Murakami, che qui si stacca dalle atmosfere oniriche e surreali che lo hanno reso famoso, per esplorare il mondo in ombra dei sentimenti e della solitudine. Norwegian Wood è anche un grande romanzo sull'adolescenza, sul conflitto tra il desiderio di essere integrati nel mondo degli «altri» per entrare vittoriosi nella vita adulta e il bisogno irrinunciabile di essere se stessi, costi quel costi. Come il giovane Holden, Toru è continuamente assalito dal dubbio di aver sbagliato o poter sbagliare nelle sue scelte di vita e di amore, ma è anche guidato da un ostinato e personale senso della morale e da un'istintiva avversione per tutto ciò che sa di finto e costruito. Diviso tra due ragazze, Naoko e Midori, che lo attirano entrambe con forza irresistibile, Toru non può fare altro che decidere. O aspettare che la vita (e la morte) decidano per lui.
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Informazioni
eBook ISBN
97888584072406.
La mattina di lunedí mi svegliai alle sette, mi lavai e mi sbarbai in fretta, e senza fare colazione andai subito alla stanza del direttore a chiedergli il permesso di assentarmi un paio di giorni per fare una gita in montagna. Siccome avevo già fatto gite del genere ogni volta che avevo avuto del tempo, il direttore mi accordò il permesso senza commenti. Salii su un métro affollatissimo di gente che andava al lavoro, scesi alla stazione di Tōkyō, feci il biglietto dello Shinkansen fino a Kyōto e salii letteralmente al volo sul primo treno in partenza. Al posto della colazione presi un caffè caldo e un sandwich, quindi mi appisolai per un’oretta.
Arrivai alla stazione di Kyōto un po’ prima delle undici. Seguendo le indicazioni di Naoko, presi un autobus fino a Sanjō, andai alla stazione di una linea privata di pullman e chiesi da dove e a che ora partiva il numero 16. Alle undici e trenta, mi fu detto, dalla fermata piú in fondo, e il viaggio sarebbe durato poco piú di un’ora. Dopo aver fatto il biglietto entrai in una libreria lí vicino, comprai una mappa e poi andai a sedermi su una panchina nella sala d’attesa e controllai l’esatta posizione dell’Amiryō. A giudicare dalla mappa sembrava trovarsi nei piú profondi recessi della montagna. Il pullman andava verso il nord, oltrepassando diverse montagne, e arrivato fino a un punto oltre il quale non poteva piú proseguire, ritornava indietro in città. Secondo le indicazioni di Naoko, la fermata a cui sarei dovuto scendere io era un po’ prima di quel punto. Da lí avrei dovuto prendere un sentiero di montagna, e dopo circa venti minuti di cammino sarei arrivato all’Amiryō. Se è un posto tanto sperduto tra i monti sarà molto tranquillo, pensai.
Dopo aver caricato una ventina di passeggeri il pullman si mise in moto e, costeggiando il Kamogawa, si diresse a nord di Kyōto. Man mano che procedevamo, le case si facevano sempre piú rare e si cominciavano a notare campi e tratti di terra non abitati. Tetti neri di tegole e serre di plastica luccicavano sotto il sole dell’autunno ancora all’inizio. Finalmente il pullman cominciò a inoltrarsi nella montagna. La strada era tutta curve e l’autista doveva ruotare continuamente il volante da destra a sinistra, senza un attimo di pausa. Io avevo un po’ di nausea e sentivo il caffè risalire pericolosamente, ma per fortuna dopo poco le curve diminuirono, tirai un sospiro di sollievo e il pullman entrò in una freschissima foresta di cedri. Gli alberi si stagliavano alti e fitti come in una foresta vergine, ostacolando i raggi del sole e avvolgendo ogni cosa nell’ombra. Il vento che entrava dal finestrino s’era fatto di colpo piú freddo e umido, e lo si avvertiva subito sulla pelle. Dopo aver proseguito per un bel pezzo nella foresta, costeggiando un torrente, proprio quando uno cominciava a pensare che il mondo si fosse trasformato in una sola immensa distesa di cedri, la foresta di colpo finí e sbucammo in una specie di vallata circondata da ogni parte dai monti. Campi di un verde smagliante si estendevano tutt’intorno e un bel fiume correva lungo la strada. In lontananza un filo di fumo bianco saliva nel cielo, qui e là si vedevano panni stesi ad asciugare, e si sentivano dei cani abbaiare. Davanti alle case c’era legna accatastata fin sotto alle grondaie, e un gatto sopra che dormiva. Diverse case come queste fiancheggiavano la strada per un tratto, ma degli abitanti non si vedeva neanche l’ombra.
Lo stesso paesaggio si ripeté piú volte. Il pullman entrava in una foresta di cedri e ne usciva per entrare in una zona abitata, poi usciva anche da questa per tornare a inoltrarsi nella foresta di cedri. Ogni volta che il pullman si fermava in un centro abitato qualcuno scendeva, ma non c’era mai nessuno che salisse. Circa quaranta minuti da quando eravamo partiti dalla città, arrivati a un passo di montagna da cui si godeva un’ampia vista, il conducente fermò il pullman e disse che ci saremmo fermati lí cinque o sei minuti, cosí se volevamo potevamo approfittarne per scendere. Di passeggeri ne erano rimasti quattro me compreso, comunque scendemmo tutti, chi per sgranchirsi un po’, chi per fumare o per guardare dall’alto il panorama di Kyōto che si stendeva sotto i nostri occhi. Mentre il conducente urinava da una parte, un uomo sulla cinquantina dalla pelle molto abbronzata, che era salito con uno scatolone legato da una corda, mi chiese se ero venuto lí per salire sulla montagna. Risposi di sí. Era piú semplice.
A un certo punto un pullman salí dal lato opposto e si fermò accanto al nostro. I due conducenti chiacchierarono per qualche istante, poi ognuno ritornò sul proprio pullman. Anche noi tornammo ai nostri posti. Poi le due vetture ripresero il cammino in direzioni opposte. Allora capii perché il nostro pullman aveva dovuto fermarsi su quel passo per aspettare l’altro. Nel punto in cui la strada cominciava a scendere per la montagna, si faceva improvvisamente piú stretta e sarebbe stato impossibile per due grossi pullman passare allo stesso tempo. Infatti incrociammo alcuni furgoni e camioncini, ma ogni volta qualcuno doveva fare retromarcia e poi cercare di prendere la curva piú stretto che poteva.
I gruppi di abitazioni che fiancheggiavano il torrente erano molto piú piccoli di quelli di prima, e anche i terreni coltivati erano molto piú ristretti. La montagna si era fatta incombente e dal pullman potevamo quasi toccarla. Dove c’erano case c’erano cani che abbaiavano minacciosi al nostro passaggio.
Ma dove dovevo scendere io, attorno non c’era niente. Né case né campi. Un cartello solitario che segnalava la fermata, un piccolo torrente, l’inizio della strada per la cima della montagna e nient’altro. Mi misi lo zaino in spalla e cominciai a salire. La strada era fiancheggiata a sinistra dal torrente, a destra da un bosco. Dopo aver proseguito per un quarto d’ora su quella lieve salita, si apriva sulla destra un’altra stradina, da cui a occhio e croce poteva passare al massimo un’auto, e all’entrata un cartello con su scritto «Amiryō – Vietato l’ingresso ai non addetti».
Sulla stradina all’interno del bosco si distinguevano chiaramente delle tracce di pneumatici. Ogni tanto giungeva da qualche parte tra gli alberi un battito d’ali, stranamente vivido, come amplificato. A un tratto si udí in lontananza un ppon!, come un colpo secco di rivoltella attutito.
All’uscita del bosco cominciava un muro di cinta bianco. Piuttosto basso in verità per un muro di cinta: arrivava piú o meno alla mia altezza e non era sormontato da nessuna rete o filo spinato, cosí chiunque volendo avrebbe potuto scavalcarlo. C’era un cancello nero d’acciaio, dall’aspetto molto resistente, ma era spalancato e nella guardiola del custode non si vedeva nessun custode. C’era invece un cartello uguale a quello di prima con la scritta «Amiryō – Vietato l’ingresso ai non addetti». Nella guardiola alcune tracce indicavano che qualcuno era stato lí fino a poco prima. Nel portacenere c’erano tre mozziconi, in una tazza era rimasto del tè, in uno scaffale c’era una radio a transistor e al muro un orologio che scandiva il tempo con un secco tic-tac. Decisi di aspettare lí che tornasse il custode, ma dato che nessuno si faceva vivo dopo un po’ provai a suonare due tre volte una specie di campanello. Subito oltre il cancello c’era un parcheggio con dentro un minibus, un Land Cruiser a quattro ruote motrici e una Volvo blu scuro. Ci sarebbe stato spazio per almeno trenta vetture, ma c’erano solo quelle tre.
Dopo due o tre minuti dalla strada nel boschetto arrivò su una bicicletta gialla il custode in un’uniforme blu. Era un uomo alto, un po’ stempiato, sulla sessantina. Appoggiò la bicicletta gialla alla guardiola e mi disse: – Eccomi, scusi tanto, – ma senza aver l’aria di darsi troppa pena. Sul paraurti della bici c’era un 32 scritto con vernice bianca. Dopo avergli detto il mio nome, prese il telefono e lo ripeté un paio di volte a qualcuno. Dall’altra parte gli dissero qualcosa, e l’uomo rispose: – Va bene, ho capito, d’accordo, – poi riattaccò.
– Vada all’edificio principale e chieda della professoressa Ishida, – mi disse il custode. – Vede quel boschetto? Lei prende quella stradina, poi c’è una rotatoria e lei gira alla seconda da sinistra. È chiaro? La seconda da sinistra. Poi si troverà davanti a un vecchio edificio, da lí gira a destra, passa per un altro boschetto e sbuca davanti a una costruzione in cemento. Quello è l’edificio principale. Comunque ci sono anche i cartelli, non può sbagliare.
Seguii, come mi era stato detto, la rotatoria, e attraversata fino in fondo la seconda strada a sinistra, mi trovai davanti a un vecchio edificio ricco di atmosfera che probabilmente un tempo doveva essere stato una villa privata. Il giardino era decorato con rocce di forme particolari e lanterne di pietra, e si vedeva che le piante erano tenute con cura. Sí, sicuramente un tempo doveva essere stata la villa di qualcuno. Girando a destra entrai nel boschetto e sbucai di fronte a un edificio di cemento a tre piani. In realtà, dato che sorgeva in una specie di avvallamento del terreno, l’edificio sembrava piú piccolo ed era tutt’altro che imponente. La sua architettura era semplice ed estremamente pulita.
L’ingresso era al primo piano. Salii la scala, aprii un portone di vetro ed entrai. All’accoglienza sedeva una giovane donna con un vestito rosso. Dissi il mio nome e spiegai che mi era stato detto di chiedere della professoressa Ishida. Con un sorriso cordiale la donna mi indicò un divano beige che era lí nell’ingresso e mi disse a voce bassa di accomodarmi e attendere. Poi formò un numero al telefono. Mi tolsi lo zaino dalle spalle, sprofondai nel soffice divano e mi guardai intorno. L’ingresso era pulito e accogliente. C’erano diversi vasi di piante, al muro alcuni quadri astratti scelti con gusto, e il pavimento era stato lucidato fino a luccicare. Per tutto il tempo che aspettai restai a contemplare le mie scarpe che si riflettevano sul pavimento.
A un certo punto la donna di prima mi disse di pazientare ancora un attimo. Mai visto un posto cosí silenzioso, pensavo io. Non c’era il minimo suono. Sembrava fosse l’ora della siesta. Era talmente tranquillo che tutto, non solo persone ma animali, insetti, piante, sembrava dormire profondamente.
Poco dopo, preceduta dal suono felpato di scarpe dalla suola di gomma, apparve una donna sulla quarantina dai capelli cortissimi, quasi rasati, si sedette con un gesto rapido accanto a me e accavallò le gambe. Mentre ci stringevamo le mani, lei osservò la mia da dritto e rovescio.
– Almeno da qualche anno a questa parte, non devi aver toccato nessuno strumento, vero? – furono le prime parole che disse.
– È vero… – dissi io sorpreso.
– Si capisce subito dalle mani, – disse lei sorridendo.
Era una donna a dir poco singolare. Le rughe che le ricoprivano il viso erano la prima cosa che saltava all’occhio. Ma la cosa strana era che non solo non la facevano sembrare piú vecchia, ma anzi esaltavano qualcosa di molto giovanile in lei che andava al di là dell’età. Facevano talmente parte del suo viso che sembravano nate con lei. Quando sorrideva le rughe sorridevano con lei, e quando assumeva un’espressione concentrata le rughe facevano altrettanto. Quando non era né sorridente né concentrata le rughe si distribuivano su tutto il viso in un’espressione calda e allo stesso tempo sottilmente ironica. Poteva avere dai trentacinque ai quarant’anni ed era immediatamente simpatica, ma soprattutto aveva un suo fascino particolare. Ne fui subito conquistato.
Aveva i capelli tagliati in modo molto irregolare, con qualche spuntone qua e là, e anche sulla fronte la cortissima frangetta non era dritta, eppure quella strana pettinatura le stava bene. Portava una camicia blu da lavoro su una T-shirt bianca, larghi pantaloni di cotone color crema e ai piedi scarpe da tennis. Era magrissima, quasi completamente senza seno, e piegava spesso la bocca da un lato in un sorriso ironico, mentre le rughe attorno ai suoi occhi si muovevano fitte. Faceva pensare a un’artigiana abile e gentile, con una buona dose di disincantata saggezza.
Indietreggiò lievemente con la testa, e sempre con quella sua smorfia sulle labbra, mi squadrò per un po’ da capo a piedi. Mi aspettavo quasi che da un momento all’altro tirasse fuori dalla tasca un metro e cominciasse a prendermi tutte le misure.
– Sai suonare qualche strumento? – chiese.
– No, nessuno, – risposi.
– Che peccato, ci saremmo divertiti se avessi saputo suonare qualcosa.
Sí, che peccato, ripetei, ma non capivo perché fosse cosí fissata con gli strumenti.
Tirò fuori dal taschino sul petto un pacchetto di Seven Stars, se ne mise una tra le labbra, la accese e cominciò a fumare con evidente piacere.
– Allora, Watanabe… è cosí che ti chiami, vero? Abbiamo pensato che prima di incontrare Naoko sarebbe stato meglio che io ti spiegassi alcune cose su questo posto. Cosí faremo prima una chiacchieratina noi due. Questo è un posto un po’ diverso dagli altri, perciò senza qualche spiegazione preparatoria si può rimanere sconcertati. Tu non ne sai ancora molto, vero?
– Praticamente nulla.
– Allora, comincio dall’inizio… – fece per dire, poi, come se le fosse improvvisamente venuta un’idea, schioccò le dita. – Tu non avrai ancora mangiato, no? Non hai fame?
– Un po’ di fame la avrei, – risposi.
– Vieni con me allora. Ti porto alla mensa. Parleremo mentre mangiamo. Veramente siamo un po’ fuori orario per il pasto di mezzogiorno, ma se ci sbrighiamo troveremo ancora qualcosa.
Si avviò a passo spedito per il corridoio, seguita da me, poi scendemmo le scale e arrivammo alla mensa che si trovava a piano terra. C’erano posti per almeno duecento persone, ma al momento dovevano venirne utilizzati metà, perché l’altra metà era divisa da paraventi. Sembrava un po’ di stare in un albergo di villeggiatura fuori stagione. Il menu di mezzogiorno consisteva in stufato di patate con noodles, verdure miste, pane e succo d’arancia. Come aveva scritto Naoko nella lettera, le verdure erano di una bontà inimmaginabile. Ripulii il piatto fino all’ultima briciola.
– Mangi proprio con gusto, – disse lei quasi con invidia.
– Era veramente buono. E poi stamattina non ho mangiato quasi niente.
– Se ti va mangia anche la mia parte. Io sono già piena. Posso dartela?
– Se davvero non le va, la mangio volentieri, – dissi.
– Io ho lo stomaco piccolo, cosí non ci entra molto. Per il fumo invece non ci sono problemi di spazio, – disse lei, mettendosi tra le labbra un’altra Seven Stars e accendendola. – A proposito, chiamami Reiko, come fanno tutti, e dammi del tu.
Io divorai anche il pane e lo stufato che lei non aveva quasi toccato, mentre lei guardava con vivo interesse la scena.
– Lei… tu sei la dottoressa di Naoko? – le chiesi.
– Dottoressa io? – fece lei sbalordita, con una specie di smorfia. – Cosa ti fa pensare che io sia un medico?
– Beh, mi hanno detto di chiedere della professoressa Ishida…
– Ah, ho capito. No, vedi, io qui do lezioni di musica. Per questo c’è qualcuno che mi chiama «professoressa». Ma in realtà io sono una paziente. Solo che sono qui da sette anni, e insegno musica e do una mano in ufficio, cosí non si ca...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Norwegian Wood. Tokyo Blues
- Introduzione di Giorgio Amitrano
- Nota dell’autore
- Norwegian Wood
- Capitolo primo
- Capitolo secondo
- Capitolo terzo
- Capitolo quarto
- Capitolo quinto
- Capitolo sesto
- Capitolo settimo
- Capitolo ottavo
- Capitolo nono
- Capitolo decimo
- Capitolo undicesimo
- Postscriptum
- Glossario
- Copyright