Il costo della vita
eBook - ePub

Il costo della vita

Storia di una tragedia operaia

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il costo della vita

Storia di una tragedia operaia

Informazioni su questo libro

Porto di Ravenna, cantieri navali Mecnavi, 13 marzo del 1987. Mentre alcuni operai stanno ripulendo le stive della Elisabetta Montanari, nave adibita al trasporto di gpl, e altri colleghi tagliano e saldano lamiere con la canna ossidrica, una scintilla provoca un incendio. Le fiamme si propagano con una rapidità inarrestabile. È la tragedia. Tredici uomini muoiono asfissiati a causa delle esalazioni di acido cianidrico.
I tredici uomini erano tutti picchettini, e si chiamavano Filippo Argnani, che all'epoca aveva quarant'anni, Marcello Cacciatori, che di anni ne aveva ventitre, Alessandro Centioni, ventuno, Gianni Cortini, diciannove, Massimo Foschi, ventisei, Marco Gaudenzi, diciotto, Domenico Lapolla, venticinque, Mohamed Mosad, trentasei, Vincenzo Padua, sessant'anni, che stava per andare in pensione e si trovava lí per puro caso chiamato all'ultimo momento per una sostituzione. Vincenzo era l'unico operaio veramente in regola assunto dalla Mecnavi. E ancora: Onofrio Piegari, ventinove anni, Massimo Romeo, ventiquattro, Antonio Sansovini, ventinove, e infine Paolo Seconi, ventiquattro.
Tredici lavoratori morti come topi, come tredici era il giorno di quel mese, tutti asfissiati nel ventre della balena metallica. «Non credevo che esistessero ancora simili condizioni di lavoro, a Ravenna, alle soglie del Duemila», disse il procuratore capo della Repubblica Aldo Ricciuti che svolse le indagini. La tragedia poteva essere evitata? La giustizia ha poi «ripagato» le vittime e i famigliari?
Ognuno dei tredici operai, quel giorno maledetto ha lasciato una famiglia, amici, affetti, ricordi. Ventisei anni dopo, Angelo Ferracuti si fa carico di ciascuna di queste storie e di queste vite interrotte. Decide di andare sul luogo della tragedia e di parlare con i protagonisti: i vigili del fuoco che estrassero i cadaveri, i medici del 118, gli infermieri, gli operai sopravvissuti, i famigliari delle vittime, i sindacalisti, gli imprenditori, il cardinale Ersilio Tonini che pronunciò l'omelia in cui paragonò i picchettini a topi che strisciavano nel ventre delle navi e che lí rimasero intrappolati.
Giorno dopo giorno, Ferracuti ascolta e raccoglie le voci di chi quel 13 marzo c'era, ne attraversa i ricordi, il dolore, la rabbia. Rivive i luoghi, entra piano piano, delicatamente e con partecipazione, nelle vite dei tredici operai e nel loro mondo per cercare di avvicinarsi al peso feroce della tragedia. Una tragedia dopo la quale la vita e i pensieri di chi è rimasto coinvolto semplicemente cambiano e niente sarà piú come prima.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Il costo della vita di Angelo Ferracuti in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806211059
eBook ISBN
9788858408643

Parte prima
Il costo della vita

Capitolo primo

Tempi difficili

Quando arrivo per la prima volta in una città, soprattutto in quelle piccole, non sono mai distratto, cerco di capire la toponomastica, studio le carte, leggo i libri degli scrittori e gli storici che l’hanno abitata o ci sono nati, e poi do una scorsa a tutti i giornali locali. Mi diverte capire cosa accade in quel preciso momento, cosí come mi attrae molto la cronaca nera.
Ricordo che una delle prime volte che arrivai a Ravenna lessi di una badante impazzita che aveva ucciso un vecchio perché credeva fosse posseduto dal demonio, e la cosa mi inquietò parecchio. Un luogo è come una persona, cogli le cose piú vere dai primi sguardi, nel momento in cui i nervi sono scoperti e l’istinto è in agguato. Quando ritorni quel primo sguardo l’hai già perso, ma ti condizionerà per sempre, come accade con le persone. Di Ravenna mi colpí subito il centro storico separato completamente dal resto, come se il teatrino ufficiale della vita cittadina fosse il dedalo di piccole vie e monumenti dove potevi incontrare a passeggio molti turisti stranieri con le guide in mano, come se si volesse rappresentare solo il bello, la prosperità e la civiltà di quella zona dell’Italia dove il Pci ha un tempo creato la ricchezza, il benessere e la democrazia. Di questo passato glorioso credo resti solo la mossa, la coazione a ripetere, la recita, una finzione ipocrita e buffa. Quello che scriveva Pier Paolo Pasolini del Pci, se pensiamo ai suoi eredi piú prossimi, fa sorridere: «Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico»1.
Mi sono chiesto anche perché Michelangelo Antonioni avesse girato proprio qui Deserto rosso, un film sulla disumanità della civiltà industriale, il rapporto schizofrenico tra gli uomini e le macchine, con quei rumori cervellotici perfettamente centrati: una sinfonia di ingranaggi, e i fumi, gli sbuffi dei silos negli stabilimenti, i robot nelle case. In quel film Ravenna resta un po’ irreale, anche se certe suggestioni di luoghi ci sono ancora oggi, nella parte piú selvaggia della città che è fuori dalle mura antiche. Ho pensato che forse in quel film si nasconde il segreto di questo posto, qualcosa di molto profondo, inafferrabile, che non potrò mai capire neanche venendo qui mille volte.
Il mio hotel preferito comunque è il Byron. Arredamento semplice e sobrio, umanamente funzionale. Un albergo può diventare una specie di seconda casa, ti affezioni, conosci le sue stanze a menadito, le reclami al telefono, sai a memoria i corridoi, l’ascensore, cosí come le donne ucraine o russe che puliscono al primo o al secondo piano, le cameriere bosniache o macedoni, il ragazzo tuttofare polacco e impacciato, hai parlato piú volte con le signore della hall che sanno già chi sei, hai raccontato loro che stai scrivendo un libro, e una di queste, una donna minuta con i capelli raccolti e gli occhiali dalla montatura classica, probabilmente di origini meridionali, ti ha pure detto che nel 1987 dentro quella nave ai cantieri Mecnavi, in quella gasiera, ci è morto un ragazzo col quale si vedeva e andava a ballare, un tipo molto simpatico, e lei non potrà piú dimenticarla quella storia, per quanto, tanto o poco, le resta da vivere. E ti ha detto pure che la sua è una questione privata, se la tiene per sé, non ti rilascerà nessuna intervista. Non saprai mai chi era quel ragazzo, anche se ti è venuta la fantasia di immaginarlo, ti resterà questa curiosità fortissima e vorresti violare ogni possibile privacy.
La mattina nella sala dove servono la colazione, una stanza piccola ma molto accogliente e quasi mai troppo affollata, c’è sempre qualche assonnato signore inglese, tedesco o americano arrivato in città attratto dalla meraviglia dei mosaici; di quelli con la camicia a scacchi di flanella e le bretelle, un’aria scettica e vaga da Monsieur Hulot, un po’ bradipi insomma. E ti diverti a osservarli mentre mangiano con gesti lenti, meticolosi le loro uova strapazzate e bevono impassibili tazze di caffè bollenti.
Dalla mia stanza potevo organizzare le partenze e scrivere tutto quello che, visto o sentito pochi minuti prima, avevo paura di dimenticare, o volevo fissare in modo diverso e piú nitido. Certe volte penso che la mia idea di realismo sia troppo ossessiva, insensata: magari lasciavo la macchina nel parcheggio spazioso e tranquillo di largo Giustiniano, con i guardiani un po’ borderline di una cooperativa sociale, che sta di fianco al Museo nazionale con il Mausoleo di Galla Placidia, trainando il trolley raggiungevo comodamente il Byron e mi piazzavo in camera; ripartivo solo piú tardi e arrivavo dove dovevo arrivare, poi tornavo di nuovo all’hotel per mettere il raccolto in uno dei capitoli, battendo frenetico sui tasti del pc. Lo facevo per non perdere l’attimo, non allontanarmi troppo dal vero. Oppure ne rileggevo uno che poteva servirmi a capire un determinato snodo, o semplicemente mi riposavo o facevo una doccia dopo aver vagabondato con l’intento di guardare i movimenti delle persone, le facce, quel qualcosa d’inafferrabile o genius loci che dir si voglia, e ancora spingermi verso le periferie, portarmi nella zona della stazione, che è la piú interessante in determinate ore, specie di notte, quando le giovani prostitute sono sedute ai tavoli in attesa di un cliente buono, e i tossici vanno in cerca di una dose. Uno come me passa di lí per bere una birra o un caffè, osserva tutto, sente le chiacchiere e attacca bottone con qualcuno.
Una sera, proprio da quelle parti, una ragazza ghanese con i capelli ricci e folti alla Gloria Gaynor, seduta al tavolino di un bar con un’amica e un uomo anziano, ha ammiccato come fanno le puttane. Era talmente giovane e bella che le ho sorriso, e per una rapidissima, infinitesima manciata di secondi sono stato al gioco, curioso piú che altro di parlare con lei, conoscere la sua storia. La tipa si è alzata sveltissima e mi ha detto semplicemente: «Andiamo?» Quando, con molta tranquillità, le ho detto di no, deve esserci rimasta male. «Non è possibile», le ho risposto mostrando goffamente la mano dove luccicava la fede, in modo spiritoso però. «E che significa? – ha ribattuto divertita. – Dài!», smascherando il mio gesto da giocoso, finto moralista. Ci siamo messi a parlare, anche se non le volevo rubare del tempo. «Non ho neanche i soldi per ricaricare il telefono e parlare con mia madre in Africa», mi ha confessato. Cosí, naturalmente, la cosa ha subito messo al tappeto la mia cattiva coscienza di occidentale. Ha sorriso ancora invitandomi di nuovo, ammiccante al massimo. Subito dopo era di nuovo al suo posto vicino al vecchio cliente bavoso. Un altro qualsiasi, ho pensato, sarebbe stato comunque meglio di lui.
Ogni tanto fermo la gente per strada, chiedo se ricordano quel fatto accaduto ormai tanti anni fa. Le persone di mezza età possono risponderti: «Sí, morirono come topi», oppure solo: «Poveracci», i piú giovani ti guardano smarriti, si difendono dietro un sorriso, perché non ne sanno niente, si è rotta la cinghia di trasmissione della memoria. Altri ti dicono che non ne vogliono parlare. Con qualcuno il discorso può farsi piú complesso, se hanno una coscienza politica ti confessano che i processi furono una farsa, inutile parlarne dopo tanti anni: «È stato uno schifo». «Guardi, lo scriva, glielo hanno permesso a quello là, sono tutti colpevoli. Possibile che nessuno aveva visto niente?» Oppure possono riferire decisi: «È una storia ancora tutta da scrivere, ci sono molte cose che non sono state dette, secondo me c’era di mezzo anche la malavita organizzata», e questo già mi interessa di piú, allora mi metto in ascolto. Vorrei rispondere che tutte le storie sono cosí, nessuna esclusa. A volte la realtà mente.
Ma una cosa è certa, una mattina del marzo 1987 tredici operai morirono asfissiati, intrappolati nei doppifondi della Elisabetta Montanari. E non bastano i processi, non sono sufficienti le sentenze, piene di verbali, di voci ingorgate, di verità ma anche di menzogna, non tutte le narrazioni terminano nelle aule dei tribunali, nessun grado di giudizio potrà mai mettere la parola fine. Perché le storie continuano la loro vita, non finiscono mai dove sono accadute, ma se ne parla ancora nelle case, nei bar e nei luoghi di lavoro anche dopo molti anni.
Tre dei ragazzi morti dentro quella gasiera erano giovanissimi e al primo giorno di lavoro, ma in quella squadra di portuali c’erano anche un ex tossicodipendente, un cassaintegrato, un uomo a un passo dalla pensione, un egiziano del Cairo venuto a cercare fortuna in Italia. Tredici dei 1500 morti e del quasi un milione di feriti sul lavoro che quell’anno si registrarono, da nord a sud, nel nostro paese.
George Orwell nel suo saggio sui minatori inglesi La strada di Wigan Pier, una cittadina mineraria dell’Inghilterra del sud, a un certo punto scrive sgomento: «La media degli infortuni fra i minatori è cosí elevata, a confronto con altre attività, che le morti sono accettate come cosa normale, quasi come si farebbe in una guerra minore»2. Come succede in Italia, dove attualmente ci sono 8oo ooo invalidi e 130 000 tra vedove e orfani che percepiscono una pensione. È una cosa che viene da lontano se si pensa che nel ventennio 1946-66 si sono verificati 22 860 964 casi di infortunio e di malattia professionale, con 82 557 morti e 966 880 invalidi: quasi un milione di menomati, il doppio di quelli causati dalle due guerre mondiali, che furono mezzo milione. Mentre la media degli infortuni e delle malattie professionali negli anni della ricostruzione e del boom economico è stata lievemente superiore a un milione di casi annui, dal 1967 al 1969 la cifra è salita a oltre 1,5 milioni e nel 1970 a 1 650 0003. Con un primato successivo: il nostro paese nel decennio 1996-2005 è risultato quello con il piú alto numero di morti sul lavoro in Europa. Infatti continuano a creparne piú di quattro al giorno. Rachid Chaiboub, un operaio marocchino di trentadue anni, è morto a Desio mentre stava pulendo una tramoggia spargisale. Ha sollevato la grata di protezione dei rulli ed è precipitato all’interno del macchinario. Fabrizio Pagliano, trent’anni, è morto alla cartiera di Torre di Mondoví: era rimasto impigliato con la tuta in una apparecchiatura che poi ne ha provocato la morte per soffocamento. Francesco Calderaro, operaio di quarant’anni, è scomparso tragicamente a Palagiano cadendo dall’impalcatura di un capannone mentre stava rimuovendo alcune lastre in eternit dal tetto. A San Nicandro Rachid Douioi, trentun anni, bracciante agricolo, è stato travolto brutalmente e senza scampo dalla macchina rotante del trattore mentre recuperava dei tubi per l’irrigazione. Sono alcune vittime di una strage infinita, e sembrano i personaggi della piccola America di fine Ottocento cantati da Edgar Lee Masters nell’Antologia di Spoon River. Dopo un secolo ecco i nuovi Butch Weldy, che saltò in aria mentre la cisterna esplodeva nella fabbrica di scatolame e ricadde «con le gambe spezzate e gli occhi bruciati come uova fritte», o Herman Altman, «arso nella miniera»; per non parlare di quel Mickey M’Grew che per pagarsi la scuola finí operaio giornaliero e morí mentre puliva la torre dell’acqua:
Sempre la solita storia la mia vita:
qualcosa al di fuori di me mi trascinava in basso,
non fu la mia forza ad abbandonarmi.
Ci fu una volta che mi guadagnai i soldi
per andarmene via a studiare,
e all’improvviso mio padre si trovò in difficoltà
e dovetti dargli tutto.
E cosí un giorno mi ritrovai
uomo tuttofare a Spoon River.
E quando si trattò di pulire la torre dell’acquedotto
e mi tirarono su a settanta piedi di altezza,
mi sciolsi la fune dalla cintola,
e slanciai allegramente le braccia gigantesche
verso il liscio orlo d’acquaio della cima della torre –
ma scivolarono sul perfido limo,
e giú, giú, giú, affondai
nella tenebra ruggente!4
Massimo Occhiuzzi, quarantun anni, è stato schiacciato da una pressa in una fabbrica di Avezzano dove si lavorano ferro e profilati. Al povero Gaetano Saraceni, trentuno anni, è stata fatale una sbarra metallica mentre lavorava vicino a un macchinario in un’azienda specializzata in stampaggio di metalli, a Solbiate Arno. Michela Vagaggelli, portalettere di quarantun anni, è morta a Siena: mentre percorreva una via in ciclomotore è stata urtata da un’auto che viaggiava a forte velocità nel senso opposto di marcia. Per lei non c’è stato scampo. Cambiano i nomi, i cognomi, ed eccone di nuovi. Nella società dello spettacolo parlarne significa cancellarli. Sono esistiti per trenta secondi, per un minuto, qualche loro familiare diventa protagonista di un programma di intrattenimento del primo pomeriggio. La faccia di un conduttore mostra un’espressione commossa, l’invitato piange, lo share si alza, si impenna, va su. Per altri di questi operai il lavoro è fisiologicamente letale, perché è rischioso ed espone a malattie a volte incurabili.
Forse pochi lo sanno, ma nel nostro paese ci sono ancora i minatori. Non vanno quasi piú nelle miniere, non scavano cunicoli per estrarre il carbone come accadeva nel distretto di Marcinelle, ma uno di loro, Pietro Mirabelli, crepato a cinquantadue anni nella galleria Alptransit del Canton Obvaldo, in Svizzera, anche lui aveva lavorato insieme ad altri suoi compagni nei cantieri dell’alta velocità del Mugello: otto ore e piú a massacrarsi di fatica nel sottosuolo e una paga da fame. I rischi per la salute sono ancora altissimi: il piú comune si chiama silicosi. Per capire quanto la silicosi sia legata a questo genere di mansioni, basti pensare che qualcuno l’ha soprannominata la tisi dei minatori: una malattia che attacca i polmoni causata dall’esposizione prolungata a un minerale molto pericoloso, il biossido di silicio. I sintomi piú frequenti possono comparire anche dopo tanti anni dall’esposizione: difficoltà respiratorie, tosse, insufficienza cardiaca, tubercolosi. Sempre George Orwell, in quel libro ormai diventato di culto, definí con esattezza estetica la condizione degli uomini del sottosuolo: «Piú di ogni altro, forse, il minatore può rappresentare il prototipo del lavoratore manuale, non solo perché il suo lavoro è cosí esageratamente orribile, ma anche perché è cosí virtualmente necessario e insieme cosí lontano dalla nostra esperienza, cosí invisibile, per modo di dire, che siamo capaci di dimenticarlo come dimentichiamo il sangue che ci scorre nelle vene»5.
Molti di questi lavoratori non li vediamo, nessuno ce li racconta, come gli addetti ai fumi, che rischiano l’avvelenamento da mercurio, o quelli che lavorano nelle cave, soggetti a gravissime malattie dell’apparato uditivo che causano ipoacusia da rumore. Per non parlare della costante esposizione ai gas che aumentano il rischio di cancro ai polmoni. Qualcuno sa dei palombari che resistono alla mitologia di Jules Verne e dei suoi romanzi avveniristici, per caso? Ebbene, molti sono vittime di un’infermità che colpisce chi opera in cassoni subacquei o dentro scafandri elastici. E ancora ci sono gli operai delle fonderie costretti a maneggiare materiali che contengono amianto e quelli che lavorano in spazi ristretti, all’interno di condotti, cunicoli di servizio, oppure pozzi, fognature, serbatoi e caldaie, un lavoro invisibile come i tanti lavoratori che si calano nelle segrete di una nave, nei bassifondi lerci, oscuri, puzzolenti, e che si chiamano in gergo picchettini.
Al porto di Ravenna, nei cantieri navali Mecnavi di proprietà dei fratelli Arienti, il 13 marzo 1987 tredici di loro morirono asfissiati per via delle esalazioni di acido cianidrico provocate da un incendio nelle stive della Elisabetta Montanari, una nave cisterna in secca adibita al trasporto di Gpl. Davanti all’ingresso del palazzo comunale, a metà della scalinata, c’è una lapide che li ricorda, vicino a quella dei partigiani, perché questa è la città di Arrigo Boldrini, il comandante Bulow. Ma la lapide è un po’ troppo generica: «La città di Ravenna alla memoria dei morti sul lavoro». Morti dove, perché? Parafrasando la frase scritta davanti ai cantieri navali di Monfalcone che ricorda i morti per amianto («Costruirono le stelle del mare, li uccise la polvere, li tradí il profitto»), avrebbero potuto scrivere: Pulivano le navi dei petrolieri miliardari, li uccisero i tempi di consegna, li tradí il profitto.
Si chiamavano Filippo Argnani, e aveva quarant’anni, Marcello Cacciatori, ventitre, Alessandro Centioni, ventuno, Gianni Cortini, diciannove, Massimo Foschi, ventisei, Marco Gaude...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il costo della vita
  3. Parte prima - Il costo della vita
  4. Parte seconda - La vita dopo
  5. Parte terza - Lontano nel mondo
  6. Storia di questo libro
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Copyright