Mr Leopold Bloom mangiava di gusto le interiora di animali in genere e di volatili in particolare. Gli piaceva mangiare dense minestre di rigaglie, gozzi ripieni dal sapore pastoso, cuore farcito arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Soprattutto andava matto per i rognoni di castrato alla griglia, che gli lasciavano sul palato un fine sapore di urina lievemente aromatica.
Aveva in mente i rognoni mentre si muoveva per la cucina senza far rumore, sistemando su un vassoio ammaccato le stoviglie per la colazione di lei. La luce e l’atmosfera della cucina erano gelide, ma fuori un dolce mattino estivo s’annunciava dovunque. Il che gli dava un certo languore allo stomaco.
Le braci si stavano arrossando.
Un’altra fetta di pane imburrato: tre, quattro, bene. Lei non voleva il piatto colmo. Bene. Volse le spalle al vassoio, prese la cuccuma dalla mensola e la mise sul fuoco di traverso. L’oggetto stava lí, uggioso e accosciato, col suo becco sporgente. Tazza di tè al piú presto. Ottimo. Bocca secca.
La gatta girava intorno alla gamba del tavolo, impettita con la coda eretta.
– Mgniao!
– Oh, eccoti qua, fece Mr Bloom, distogliendosi dal fuoco.
La gatta miagolò in risposta e di nuovo girò intorno alla gamba del tavolo, con passo altero, miagolando. Come quando cammina superba sulla mia scrivania. Prrr. Grattami la testa. Prrr.
Mr Bloom osservò con interesse e benevolenza la flessuosa sagoma nera. Pulita, si vede: lucido e lisciato il pelo, il punto bianco all’inizio della coda, gli occhi verdi che luccicano. Si chinò verso di lei, le mani sulle ginocchia.
– Latte per la micina.
– Mrrgniao! rispose la gatta.
Li chiamano stupidi. Loro capiscono cosa diciamo, piú di come noi capiamo loro. Lei capisce tutto quel che le pare. Rancorosa anche. Crudele. La sua natura. Strano che i topi non strillino mai. Pare che le piaccia quel gioco. Chissà cosa le sembro io. Alto come una torre? Macché, salta benissimo fino alla mia altezza.
– Ha paura delle galline, però, disse in tono di celia. Paura delle ccco-ccco-ccco-dè. Mai vista una micina cosí stupidina.
– Mrrgniao! rispose sonoramente la gatta.
Guardando all’insú, sbatté gli occhi avidi semichiusi come per pudore, miagolando a lungo lamentosa, mostrandogli i denti bianchi come il latte. Mr Bloom osservò le nere fessure dei suoi occhi stringersi nella bramosia, finché gli occhi non divennero due verdi pietre preziose. Indi andò alla credenza, prese il bricco che il lattaio di Hanlon gli aveva riempito poco prima, versò il latte tiepido-schiumoso in un piattino e con lente mosse lo depose al suolo.
– Gurrrhr! gridò la gatta accorrendo a lappare.
Egli osservò i baffi brillare nella fioca luce come fili metallici, mentre lei si chinava a tre riprese per lappare con piccoli sorsi. Chissà se è vero che a tagliargli i baffi non dànno piú la caccia ai topi. Perché? Forse brillano nel buio, le punte. O sono come antenne nel buio, forse.
La ascoltò leccucchiare. Uova e prosciutto, no. Non ci sono uova buone con questa siccità. Ci vuole acqua fresca e pura. Giovedí: neanche il giorno buono per il rognone di castrato da Buckley. Fritto col burro, una spolverata di pepe. Meglio rognone di maiale da Dlugacz. Mentre la cuccuma bolle. La gattina lappava piú lenta, poi leccò il piattino alla perfezione. Perché hanno le lingue cosí ruvide? Per lappare meglio, piene di buchi porosi. Niente da mangiare per lei? Si guardò intorno. No.
Con scarpe che scricchiolavano lievemente salí la scala fino al vestibolo, fece una sosta sulla porta della camera da letto. Magari lei vorrebbe qualcosa di piú gustoso. Fettine di pane imburrate, questo vuole al mattino. Però forse, una volta ogni tanto.
Nel vestibolo spoglio, comunicò a voce bassa:
– Faccio un salto all’angolo. Torno in un attimo.
E quando ebbe udito la propria voce dire cosí, aggiunse:
– Vuoi qualcosa per colazione?
Un fioco grugnito sonnacchioso rispose:
– Mnn.
No. Non voleva niente. Udí allora un sospiro tiepido e fondo, ancora piú fioco, mentre lei si rivoltava e tintinnavano gli anelli d’ottone sganciati nella testata del letto. Devo proprio chiamar qualcuno a sistemarlo. Peccato. Arrivato fin da Gibilterra. Lei ha scordato quel po’ di spagnolo che sapeva. Chissà quanto ha pagato suo padre per quello. Vecchio stile. Eh sí! Si capisce. Comprato all’asta del governatore. Aggiudicato in fretta. Ghirba dura nel contrattare, il vecchio Tweedy. Sissignore. Era a Plevna. Io vengo dalla gavetta, sissignore, e ne vado fiero! Ma abbastanza cervello da far il colpo coi francobolli. Vuol dire vederci lontano.
La sua mano prese il cappello dal piolo, dove erano appesi il cappotto pesante con le sue iniziali e l’impermeabile di seconda mano comprato all’ufficio oggetti smarriti. Francobolli: figurine con retro adesivo. Direi che molti ufficiali hanno dei barattini. È ovvio. La scritta macchiata di sudore nell’interno del cappello gli disse muta: Plasto cappelli d’alta cla. Gettò una svelta occhiata alla banda di cuoio. Una striscia di carta bianca. Bene, è al sicuro.
Sulla porta si toccò la tasca posteriore cercando la chiave. Non c’è. Nei calzoni che avevo ieri. Devo prenderla. La patata ce l’ho. Armadio scricchiola. Inutile disturbarla. Era ancora assonnata prima quando si rigirava. Mr Bloom si tirò dietro la porta d’ingresso senza far rumore, poi ancora un po’ fin quando lo zoccolo del battente ricoprí adagio il passo della soglia, copertura inerte. Sembrava chiusa. Ad ogni modo va bene finché torno.
Passò dalla parte assolata, evitando la botola malferma della cantina al numero 75. Il sole stava per raggiungere il campanile della George’s Church. Sarà una giornata calda immagino. Specie con questi abiti neri si sente di piú. Il nero è conduttore, riflette (rifrange?) il caldo. Ma non posso andarci con un vestito leggero. Sarebbe come prenderlo per un picnic. Le palpebre gli si abbassarono spesso con mossa lenta mentre camminava in un beato tepore. Il carretto di Boland porta in giro il pane quotidiano su plateaux, ma lei preferisce michette di ieri, rivoltate nel forno con crosta calda croccante. Ti fa sentir giovane. Qualcosa a oriente, mattina presto, mettersi in strada all’alba. Fare il giro della terra, avanti sempre prima del sole, rubargli un giorno di marcia. Avanti cosí sempre, e non si invecchia mai d’un giorno, tecnicamente. Camminare su una spiaggia, terre strane, arrivare alle porte d’una città, là una sentinella, anche lui che viene dalla gavetta, mustacchi come il vecchio Tweedy, appoggiato a una specie di lunga lancia. Girare per strade coperte di teli. Facce inturbantate passano. Oscuri antri dove si vendono tappeti, un omone, Turko il Terribile, seduto a gambe incrociate fuma una pipa avvoltolata come un serpente. Grida di venditori nelle strade. Bere acqua profumata al finocchio, sorbetto. Ciondolare tutto il giorno. Magari incontrare un paio di briganti. Be’, incontriamoli. Si arriva al tramonto. Ombre di moschee lungo un colonnato, un prete con una pergamena arrotolata. Un fremito degli alberi, segnale, il vento della sera. Passo oltre. Cielo dorato va spegnendosi. Una madre mi osserva sulla porta di casa. Chiama in casa i suoi bambini in una lingua oscura. Alto muro: al di là qualcuno pizzica delle corde. Cielo notturno, luna, violetto, colore delle nuove giarrettiere di Molly. Corde, ascolta. Una ragazza suona uno di quegli strumenti, come si chiamano: ribeche. E io passo.
Probabile non sia per niente cosí, nella realtà. Roba che si legge: sulla scia del sole. Sole sfavillante, nella testata col titolo. Mr Bloom sorrise compiaciuto di sé. Cos’ha detto Arthur Griffith sulla testata sopra il fondo del «Freeman»: il sole dell’autonomia sorge a nord-ovest, dal vicolo dietro la Banca d’Irlanda. Prolungò il suo sorriso di compiacimento. Trovata da giudeo, quella: il sole dell’autonomia che sorge a nord-ovest.
S’accostò al locale di Larry O’Rourke. Dall’inferriata della cantina esalava il fortore dolciastro della birra. Dalla porta aperta sgorgavano effluvi di zenzero, di polvere di tè, di polvere di biscotti. Posto come si deve, del resto: proprio là dove termina il traffico cittadino. Per esempio il posto di M‘Auley, laggiú in fondo: loffio come posizione. Naturalmente se un giorno gli fanno passare la linea del tramway per la Circonvallazione nord, dal mercato del bestiame fino al porto, il suo valore va subito alle stelle.
Testa calva dietro la persiana. Vecchio filone, quello. Inutile tampinarlo per un’inserzione. Del resto il suo commercio lo sa meglio di tutti. Eccolo là, il prode Larry, in maniche di camicia, appoggiato al fusto dello zucchero, sorveglia il commesso in grembiule che si dà da fare con secchio e strofinaccio. Simon Dedalus lo scimmiotta alla perfezione quando strizza gli occhi. Sa cosa le dico io adesso? Che cosa, Mr O’Rourke? Lo sa che cosa? I Russi son capaci che se li mangiano come sardelle, i Giapponesi.
Fermati a dire qualcosa: sul funerale magari. Triste cosa, povero Dignam, Mr O’Rourke.
Svoltando per Dorset Street, con fare brioso salutò attraverso il passo della porta:
– Buondí, Mr O’Rourke.
– Buondí a lei.
– Tempo splendido.
– A puntino.
Ma come fanno questi a far quattrini? Arrivano dalla contea di Leitrim, garzoni coi capelli rossi, in cantina sciacquano i vuoti e recuperano i fondi di bicchiere. Poi, tac, sbocciano come tanti Adam Findlater o Dan Tallon. Pensa un po’ alla concorrenza. Una sete generale. Puoi cercar finché vuoi, non la trovi una strada di Dublino senza il suo pub. Far delle economie? Impossibile. Magari pelano gli ubriachi. Segno tre e riporto cinque. E cosa ci cavi? Scellino qua, scellino là, spicciolame. Può darsi facciano la cresta sui prezzi all’ingrosso. Bindoli coi viaggiatori di commercio. Tu piazzi il gancio col padrone e dopo spartiamo la torta, capito?
Chissà che tot ci grattano sulla birra in un mese. Mettiamo dieci barili. Mettiamo il dieci per cento. O di piú. Quindici. Passò davanti a Saint Joseph, scuola statale. Chiasso di ragazzaglia. Finestre aperte. L’aria fresca fa bene alla memoria. Anche ripetere in cadenza. Abicidí eeffegí accaí elleemmeenneò piqú erreessetí uvuzèta. Sono maschi? Sí. Lezione di gioggraffia. Isole di Inishturk, Inishark, Inishboffin. Io ho la mia gioggraffia. Monte Bloom.
Si fermò davanti alla vetrina di Dlugacz, a guardare le collane di salsicce, i sanguinacci, bianchi e neri. Cinquanta moltiplicato per. I numeri gli uscivano di mente, senza soluzioni. Li lasciò sparire, contrariato. Ora divorava con gli occhi le lustre ghirlande di carne insaccata, aspirando beatamente il tiepido alito del sangue di maiale cotto e speziato.
Un rognone trasudava gocce di sangue sul piatto con disegno cinese biancoblu: l’ultimo pezzo. Si fermò al bancone accanto alla servetta dei suoi vicini. Che me lo soffi lei, leggendo la lista delle cose che ha in mano? Mani screpolate, soda del bucato. E una libbra e mezza di salsicce di Denny. Posò gli occhi sulle anche vigorose della servetta. Lui si chiama Woods. Non so cosa faccia. Moglie avanti con gli anni. Sangue nuovo. Vietati i filarini. Un paio di braccia forti. Quando batte il tappeto sulla corda del bucato. Come sbatte, accipicchia! E la gonnella intorcigliata come le va di qua e di là a ogni colpo!
Il norcino dagli occhi di furetto ripiegava le salsicce che aveva staccato con le proprie dita. Dita macchiate, rosa salsiccia. Carne solida quella: come una giovenca stallereccia.
Il negoziante prese un pezzo di carta dalla pila di fogli tagliati: fattoria modello a Kinnereth in riva al lago Tiberiade. Può divenire un sanatorio ideale per l’inverno. Moses Montefiore. Mi pareva fosse lui. Fattoria, muro attorno, bestiame al pascolo u...