Storie di primogeniti e figli unici
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Storie di primogeniti e figli unici

  1. 136 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Storie di primogeniti e figli unici

Informazioni su questo libro

C'è, in queste nove storie di infanzie, adolescenze e giovinezze, tutta l'abilità di Francesco Piccolo di soffermarsi su quei dettagli e sorprese della vita che afferrano però il senso della vita: una frase ricorrente della mamma; un saluto sempre uguale; le caramelle di un tempo che erano un colorante unico; la convinzione tutta meridionale che non piove mai e gli ombrelli non servono.
Con ironia, intelligenza, stupore, e con la consapevolezza che sono spesso le piccole cose a dimostrarsi rivelatrici, Piccolo ci conduce per mano, attraverso episodi semplici, spunti presi da una pacata ma evocativa quotidianità, a scoprire sotto una superficie apparentemente insignificante una profondità inaspettata.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806210366
eBook ISBN
9788858405666

Per terre assai lontane

Il giorno è l’undici luglio del quarantasette. Mino chiede alla madre di fargli una colazione in piú perché il signor De Lucia vuole fare l’inventario e finiranno tardi. Il signor De Lucia vende i bottoni e altre fesserie; Mino fa l’aiutante.
La madre fa il conto di quanto pane ha, ma poi ne taglia un altro pezzo e vede che cosa ci deve mettere dentro. Mino dice che si deve lavare la faccia un’altra volta e non è vero: va a cercare sotto il letto del fratello. Trova. Sente sotto le dita monete e soldi di carta. Il mento è affondato nel materasso e gli occhi sono rivolti verso la porta. Allarga la mano piú che può e acchiappa tutte le monete che ci sono – i soldi di carta no, che poi se quello torna e se ne accorge. Saluta. Esce.
Scende giú e a ogni rampa salta gli ultimi tre scalini. Fa sempre cosí. Davanti alla porta della signora Graziosi c’è la bottiglia di latte: vuota. Lo sapeva. La prende. Va alla fontana. La sciacqua. La riempie fino all’orlo, ma non ha il tappo. Allora ne beve un po’, poi guarda se l’ha svuotata abbastanza per non farla versare mentre cammina. L’ha svuotata abbastanza. Va. Secondo lui mo sono proprio le otto e mezza e dovrebbe già stare all’appuntamento – però se allunga il passo non ci mette piú di cinque minuti ad arrivare a piazza del Duomo. Ha appuntamento con Antonio, il Biondo e Capece.
Antonio è l’amico suo, ed è con lui che da un sacco di tempo sta pensando di fare questa cosa.
Il Biondo lo chiamano cosí perché durante la guerra ha avuto una malattia nervosa e ha perso tutti i capelli – e non c’entra se prima li aveva biondi o neri: non lo conoscevano nemmeno prima, e nessuno glielo chiede; lo chiamano Biondo per sfotterlo e lui non si arrabbia, o non si arrabbia piú.
Capece è il figlio del sarto e lavora col padre non si sa piú da quanti anni. Quando gli chiedono come si chiama risponde: «Giovanni Capece Massimo», perché Massimo è il nome del padre. In questa storia non c’entra niente, e infatti Mino scommette qualsiasi cosa che ieri sera ha detto che veniva tanto per far vedere che pure lui. Ma non verrà.
Gira l’ultimo angolo della via dei Pescivendoli: seduto sui gradini del Duomo ci sta soltanto Capece. Proprio lui. Quando vede Mino si alza e da lontano gli fa segno per dire: è tardi, gli altri che fine hanno fatto?
E bravo Giovanni Capece Massimo. È il primo. Quando Mino si avvicina, gli strappa la bottiglia di mano e si attacca.
«Piano che ci serve» dice Mino. Capece senza smettere di bere gira gli occhi e alza la mano come per dire: aspetta. Poi finalmente si stacca. Mezza bottiglia è andata. Riprende fiato e dice: «ma che fine hanno fatto?» Ha gli occhi arrossati: un altro poco si affogava.
Antonio e Mino ne parlavano ormai tutti i giorni. Dicevano pure che per mettere un poco di soldi da parte avrebbero smesso di andare al casino. Il fatto è che ne parlavano seduti sulle panche della sala della signora Angelina, anzi di Ledi Angelina come si chiamava da quando erano arrivati gli americani; ne parlavano intanto che aspettavano che si liberasse Debora, la loro passione, perché era l’unica che li trattava bene, sorrideva e non andava di fretta. Le altre puttane ridevano buttando la testa indietro e si alzavano la gonna e si buttavano sulle panche a cavalcioni: sí, ma degli americani solamente; mentre a loro li guardavano male perché erano minorenni e non volevano passare un guaio dicevano, e invece soltanto perché loro tenevano i soldi contati e qualche volta pure qualcosa in meno. E se andavano in camera erano scontrose e non vedevano l’ora di finire. Probabilmente per questo Antonio e Mino avevano cominciato a parlare dell’America.
E ora che gli americani erano partiti quasi tutti, da Ledi Angelina erano rimaste poche femmine ancora piú scocciate e scontrose di prima, e l’aria che si respirava nel casino era sempre quella del primo pomeriggio, pure se era notte.
E allora una sera Antonio disse: «ma perché non ce ne andiamo in America pure noi?»
Stavano finendo ormai le grandi quantità di sigarette amare e di gomme americane che i soldati gli avevano regalato, intanto che gesticolando dicevano: «io tornare casa»: e tra un po’ sarebbe toccato andarle a comprare.
«Io tornare casa», «ai go om». Casa uguale «om». Cosí stava scritto su un piccolo taccuino che Mino teneva in tasca per ricordarsi le parole che aveva sentito dagli americani. E ora altre parole non ne aggiungeva. Ne aveva segnate sempre piú raramente, e ormai erano mesi che non ne aggiungeva nessuna sotto l’ultima. Non era necessario alzare la testa, a lui bastava guardare il taccuino per capire che stava finendo tutto, e in paese sarebbero rimasti soltanto quei pochi soldati che avevano sposato le compaesane e adesso avrebbero vissuto lí tutta la vita, e tra un po’ avrebbero cominciato anche loro a comprare sigarette da don Antonio all’angolo di via San Sebastiano.
Quelli lí, Antonio e Mino li disprezzavano. E pure il Biondo e Capece. Loro volevano seguire i soldati alti e sporchi, con quelle risate sguaiate, volevano andare a vedere l’America perché la nominavano sempre, e mentre la descrivevano, alti e forti com’erano, e specialmente quelli con la pelle nera che sembravano dei giganti, piangevano – e come se era strano vederli piangere.
Se ne erano andati: avevano lasciato quei mammalucchi che si erano fatti abbindolare dalla combriccola di Maria Cinone e le sue amiche; e poi avevano lasciato la musica: almeno quella. Mino e Antonio ballavano ogni sera e pure la domenica pomeriggio, come avevano imparato a ballare pochi giorni dopo lo sbarco degli alleati, e se c’era una festa con la bend americana che arrivava da Napoli – e andava bene pure una bend che faceva soltanto finta di essere americana – si presentavano alla festa direttamente dal lavoro, perché volevano stare lí a guardarli fin da quando quelli cacciavano gli strumenti. Poi aspettavano che suonassero le loro canzoni preferite: «in d mud», «munlait sereneid» e quell’altra che li faceva uscire pazzi perché a un certo punto la musica si fermava all’improvviso e tutti urlavano: PENNSILVENIA-SICS-FAIV-O-O-O! E poi la bend ricominciava a suonare, e loro ballavano, sudavano, guardando a terra per controllare i passi e pure per guardare le gambe delle compagne di turno, alle quali tenevano mani sui fianchi nei balli lenti cercando di sentire il calore e le forme sotto i vestiti leggeri coi fiori, e cercando di attirarle piú vicino piano piano, ma quelle a un certo punto dell’operazione puntavano un gomito nella spalla che non faceva andare piú avanti e faceva pure male.
Ora stanno sulla corriera. Tutti e quattro, seduti agli ultimi posti. Hanno detto all’autista: portaci dove sta il fiume. Non sanno come si chiama il paese, ma sanno che questa corriera ferma in un paese dove in mezzo ci passa il fiume. Il fiume si chiama Volturno. E il fiume va dritto nel mare. Almeno cosí sanno.
«Ma come facciamo a sapere da quale parte il fiume va verso il mare e da quale parte va verso la montagna?» chiede il Biondo.
«Dice che si vede dalla corrente, e poi chiediamo a qualcuno» risponde Antonio. Perché tutte le domande sono rivolte a lui.
Contano quante colazioni hanno: tante.
«Bastano per due o tre giorni» dice Antonio.
Però a furia di guardarle sentono un certo languorino. Mangiano con avidità. E senza acqua, perché l’unica bottiglia che hanno è finita subito. Poi, sentono un poco di disturbi allo stomaco, perché la corriera continua a saltare tra un fosso e l’altro, e a ogni curva bisogna tenersi al sedile. Resistono, e nessuno vomita.
Un soldato in particolare era stato amico di Mino e Antonio, e un poco pure del Biondo: si chiamava Giò. Però si scriveva Joe. Veramente tutte le parole americane si scrivevano in modo diverso da come si dicevano, ma Mino non teneva da perdere tempo e sul taccuino le segnava cosí come le sentiva. E veramente non sapevano nemmeno se si chiamava Giò, perché tanto loro chiamavano tutti i soldati americani: Giò.
Giò regalava sigarette e si ubriacava al caffè di piazza Margherita intanto che raccontava tutta la sua vita a quei ragazzi che gli stavano sempre intorno, e la sua vita era piena di storie; cominciava con un misto tra napoletano, italiano e americano, gesticolando molto per farsi capire meglio, i ragazzi annuivano, però poi Giò si faceva prendere e abbandonava il napoletano e l’italiano, abbandonava i gesti e parlava in americano, sempre piú veloce, loro non capivano piú niente ma continuavano ad annuire e ridevano quando lui rideva e stavano zitti quando piangeva e cacciava dalla tasca sempre la stessa fotografia di una donna insieme a due bambini. Poi Giò stava zitto e guardava nel vuoto, loro si passavano la sigaretta senza avere il coraggio di guardarsi in faccia, perché avevano paura che gli scappasse da ridere senza motivo, come capita quando uno non sa che fare, e non stava bene nei confronti di Giò.
Il soldato teneva sempre una mappa in tasca; era la mappa di quella regione. Da un lato era verde e marrone e c’erano segnati tutti i paesi, dall’altro era tutto azzurro.
Era il mare.
Giò puntava il dito su un punto, e in quel punto c’era scritto il nome del paese, e poi tenendolo premuto sulla mappa cominciava a muoverlo verso il mare, e nel mare il dito si tuffava e continuava, la mappa finiva e il dito proseguiva sul tavolino del caffè. Poi Giò lo fermava e diceva: «Tomorrow damani Joe qui: casa».
Ormai lo sapevano bene: per andare in America bisognava attraversare il mare. E nessuno di loro c’era mai stato, al mare, eppure tutti dicevano che non stava tanto lontano dal paese.
«Tomorrow damani» diceva, e ruotava il dito come aveva imparato qui in Italia, e intanto era impossibile spingerlo ad alzarsi dalla sedia e trascinarlo via. Si appendeva alle loro spalle e pesava una bellezza. Lo tenevano cingendogli la vita, e il Biondo si metteva davanti e faceva strada e dirigeva dicendo «mantieni a Giò! Attenti che mo cade Giò! Chiano chiano...»
E poi una volta, quando ormai non ci credevano nemmeno piú che tiumorrou se ne sarebbe andato, Giò veramente non venne piú al caffè. Aveva lasciato al cameriere la sua mappa, dicendogli di regalarla ad Antonio e Mino.
Antonio l’aprí e indicò il mare: «Giò ci ha voluto dire che dobbiamo andare anche noi in America, lo hai capito o no?»
Mino non aveva risposto, però in qualche modo doveva aver detto di avere capito perché Antonio trascinava il dito nel mare e diceva «noi, noi»: «noi dobbiamo andare al fiume, perché il fiume va a finire nel mare, e dal mare andiamo in America. Non ci vuole niente».
Mino teneva segnato sul taccuino: fiume uguale river, mare uguale sí.
Ognuno di loro dice cosa farà in America.
Mino andrà in cerca di Glenn Miller e gli proporrà di aiutarlo a portare gli strumenti se in cambio gli insegnerà a suonare.
Antonio aprirà un negozio di sigarette e gomme americane e ogni tanto manderà dei soldi alla madre cosí non si dispiace che è partito.
Il Biondo comprerà un cappello che ha visto nei film americani.
Giovanni Capece Massimo farà un giro per vedere di che si tratta e poi tornerà al paese ad aiutare il padre.
Che poi i fatti erano precipitati la sera prima. Antonio e Mino avevano piú volte raccontato agli altri il progetto di andare in America. Il Biondo aveva detto sempre: «vengo pure io». Capece aveva fatto un sacco di problemi: ma se non sappiamo nemmeno dove sta, e se è lontana, e poi a mio padre che gli dico, quelli ci vengono ad acchiappare fino a là e ci accidono ’e mazzate.
La sera prima si erano visti come al solito alle sette, dopo il lavoro, ed erano andati alla festa davanti al Comune con l’orchestrina americana vera e le ragazze con i capelli sciolti e i vestiti leggeri che facevano capire qualcosa delle forme che stavano sotto. Avevano ballato fino a sudare, e poi si erano seduti a bere un po’ di vino per riposarsi dopo aver urlato con tutte le forze che avevano: pennsilvenia-sics-faiv-o-o-o.
Fu il Biondo a dire all’improvviso: «Qua facciamo solo chiacchiere....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dello stesso autore
  3. Storie di primogeniti e figli unici
  4. copyright
  5. Dal lato della strada
  6. Il portiere del condominio
  7. La maglia numero undici
  8. Quando il dito indica la luna
  9. Santino
  10. Ombrelli
  11. Le estati del rancore
  12. Il lavoro che avrebbe voluto fare
  13. Per terre assai lontane
  14. Postfazione