Io sono il Libanese
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Io sono il Libanese

  1. 136 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Io sono il Libanese

Informazioni su questo libro

Roma, primi anni Settanta. Il Libanese è un ragazzo di strada. Ha un sogno: diventare il re della Roma criminale. Ma la scalata è dura, quando sei nato nei vicoli e i tuoi unici alleati sono il cervello e il coltello. Giada è una ragazza dei quartieri alti. Anche lei ha un sogno: cambiare il mondo. Sono destinati a incontrarsi, scontrarsi, perdersi, ritrovarsi. Ma è piú facile cambiare il mondo che uno come il Libanese.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806254995
eBook ISBN
9788858406335

Io sono il Libanese

I.

Roma, ottobre 1976
Se ne stava appoggiato al muro, dove insisteva il sole di mezza mattina, e fumava con l’aria indolente di chi in carcere si sente a casa propria.
La rissa scoppiò sul lato opposto del cortile. Non si precipitò a curiosare. Non si rifugiò in cella per evitare guai. Non erano affari suoi.
Accorsero guardie, roteando i manganelli. Si diffuse un suono lacerante di sirene. Rimase dov’era, indifferente a tutto, immerso in sogni che il tempo stava beffardamente sgretolando.
Ma il ragazzo coperto di sangue si abbatté lamentandosi ai suoi piedi, e l’armadio umano che lo inseguiva levò alta la scheggia di latta appuntita e si preparò a vibrare il colpo di grazia.
Riconobbe il ragazzo. Comprese che la sorte gli stava offrendo la grande occasione, forse l’ultima, e con una mossa fulminea immobilizzò a mezz’altezza il braccio dell’assalitore.
L’altro fissò interdetto quel giovane robusto, scuro, non molto alto, il volto incorniciato da una barba disordinata, gli occhi freddi. Poi cercò di colpirlo con una ginocchiata.
Mossa sbagliata.
Lui ci sapeva fare, e a mani nude e col coltello. Aveva imparato da bambino, da una maestra che non perdona: la strada. Là dove ti guardano e capiscono subito se sei pecora o leone. Se il tuo destino è crescere, o morire.
Schivò il colpo, e partì di testa. Fra uno schianto di ossa rotte, l’altro si portò gemendo le mani al naso e perse l’arma. Lui raddoppiò con un calcio fra le gambe. Quello crollò. S’impadronì della latta, gli si mise a cavalcioni sul petto, spinse la punta contro la gola.
Quando l’altro cercò di disarcionarlo, lui lo punse appena, giusto per fargli capire che non era aria.
– Ma chi sei?
– Io sono il Libanese, – rispose, piano, quasi un sussurro. – Ricordatelo, ’sto nome.
Poi le guardie gli piombarono alle spalle, incassò un colpo, poi un altro, finché non perse i sensi.
Si risvegliò in infermeria.
Medici premurosi si affaccendavano intorno al suo capezzale. Il capo dei secondini si scusò di averlo scambiato per il cattivo del film. Il direttore lo elogiò per aver salvato una preziosa vita umana.
Sorrise a tutti, fece capire che aveva bisogno di riposo, e lo lasciarono in pace.
Il Libanese aveva venticinque anni, un nome di battaglia che conoscevano ancora in pochi, troppo pochi, e un’ossessione.
Voleva diventare il re di Roma.
L’avevano preso per una storia di armi, e si era subito messo al lavoro: dal carcere potevano nascere grandi cose.
I camorristi dettavano legge, i romani chinavano il capo. I romani dormivano. Il suo compito: svegliarli.
Aveva sondato il terreno con uno spacciatore del Tufello, un cassettaro di Borgo Pio, un giovane rapinatore della Borghesiana e un usuraio di piazza del Fico.
Niente da fare.
Finché si manteneva sul vago, lo stavano a sentire, sembravano persino interessati. Eh, certo, Roma nun è piú quella de ’na vorta… qua le cose nun vanno… nun semo piú padroni a casa nostra… tocca inventasse quarche cosa… Ma appena si azzardava a scendere sul concreto, partivano moccoli e scaracchie. Che? Un progetto? Organizzazione? Ma noi siamo già organizzati. Ognuno ci ha la sua batteria, e basta e avanza, ché a Roma, se sa, due semo troppi, e tre è già ’na folla. Che te sei messo in testa, ’a Libano? De pensa’ in grande? Te voi inventa’ ’na banda? Ma nun è pane pe’ li denti tua… e poi, a pensare in grande c’è già il Terribile. Sì, certo, come no.
I romani non erano gruppo, non erano squadra, non erano niente di niente. E lui, che li voleva coesi, determinati, invincibili, lui era solo un sognatore.
Il Libanese si era sentito meschino, invisibile. Aveva vacillato. Pensava seriamente di cambiare vita. Trovarsi un lavoro, una donna.
Forse non era cosa per uno nato e cresciuto nei vicoli di Trastevere.
Forse davvero Roma non vuole un re perché non è piú regina di niente. È solo una vecchia cortigiana stanca, che succhia l’ultimo sangue ai suoi giovani figli e quando ne ha abbastanza li getta via.
Poi quel ragazzo coperto di sangue gli era caduto ai piedi. Ciro, il nipote di Pasquale ’o Miracolo: una leggenda della camorra.
Ora Pasquale gli doveva un favore: e se era, come dicevano, uomo d’onore, non avrebbe tardato a farsi vivo.
Il Libanese avrebbe ottenuto una sponda nella camorra. Un modello a cui ispirarsi. Un modello da far proprio, per poi gettarlo via e inventare qualcosa di diverso. Qualcosa che ancora non esisteva, e che lo avrebbe fatto re.
Ma i giorni passavano, i segni delle percosse svanivano, il Libanese vegetava in attesa di un segnale che non voleva arrivare.
Tutto era dunque stato inutile?
Era insomma tornato al punto di partenza quando, la sera in cui lo riportarono in cella, il detenuto «spesino», un vecchio avanzo della banda del Gobbo del Quarticciolo, gli recapitò l’invito a cena.
Pasquale ’o Miracolo si era manifestato.

II.

– Trase, trase, guagliu’… ti stavamo aspettando.
Sprofondato in una poltrona di velluto rosso, ’o Miracolo congedò con un cenno di sufficienza una guardia e invitò il Libanese a farsi avanti.
– Bravo. Si’ stato bravo.
– Non ho fatto niente, sul serio…
– E nun fa’ ’o modesto, jamme!
’O Miracolo poteva avere quarant’anni, era basso, biondo e cominciava a perdere i capelli. La sua vita era dipinta sulla faccia scavata, negli occhi acquosi che si accendevano di lampi di improvvisa crudeltà, nella cicatrice da coltello che sembrava spaccargli a metà la fronte. Aveva un sorriso obliquo e falso e una buona quota di denti d’oro. Coperto di tatuaggi, indossava una vestaglia rossa e babbucce all’orientale. La sua non era una cella, ma qualcosa di simile alla suite di un grande albergo, di un vero albergo: oltre alla poltrona, un divano, il letto coperto da una bandiera del Napoli calcio, un tavolino sul quale spiccavano un vassoio di frutta secca, un’enorme mozzarella di bufala, bottiglie di vino e avanzi di spinelli.
Intorno a lui, vigili, due ragazzi della stessa età del Libanese e, seduto sul divano, il tipo che aveva sottratto alla furia dell’accoltellatore. Il Libanese lo osservò con attenzione: era giovanissimo, si poteva facilmente scambiarlo per un minorenne.
– Questo è mio nipote Ciro. Ciro, saluta ’o Libanese.
Ciro si sollevò a fatica, e trascinando la gamba ferita andò a stringere la mano al Libanese.
– Ti sei preso la coltellata mia. Ti devo un favore.
Il Libanese ricambiò la stretta, annuendo, convinto. Non sapeva bene che cosa dire, come comportarsi. Il silenzio, e un sorriso educato, gli sembravano la politica piú giusta da adottare.
– E quelli sono Maurizio e Ciccillo. Su, guagliu’, salutate.
Seguirono altre strette di mano, altri ringraziamenti, altri sorrisi. Il Libanese continuava a starsene rigido e impalato.
– Vuoi bere qualche cosa? Vuoi farti una canna? Su, approfitta, non fare complimenti! E asséttate, mettiti qua, vicino a me… Com’è che ti trovi qua dentro?
– Armi.
– Roba tua?
– Mia e di altri. Facevo la «retta».
– E quanto ti davano?
– Un tanto al mese.
– Ti sei dato colpevole?
– Me so’ buttato a Santa Nega.
– E che gli hai raccontato, a ’e surice, ai poliziotti?
– Le armi le tenevo in due borse dentro una roulotte. La roulotte ha i vetri rotti. Chiunque può avercele messe, per danneggiarmi.
– E se l’hanno bevuta?
– Sono incensurato.
– Buono. ’A fenesta rotta… Può funzionare…
Due whisky dopo, il Libanese cominciò a sentirsi meno a disagio. Quanto al fatto di Ciro, Pasquale gli spiegò che a Napoli c’era ’nu poco di ammuina, anzi, per dirla tutta, una bailamme del diavolo. Il suo diretto superiore nonché capo assoluto della Nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo, detto ’o Prufessore, era entrato in urto con certi rappresentanti delle vecchie famiglie.
– Gente che non sanno stare al mondo!
Insomma, c’era guerra. Guerra senza quartiere nelle strade e nelle carceri. Non si contavano piú ormai i caduti. L’accoltellamento di Ciro era uno dei tanti episodi di quella guerra: si era armata la mano a un sicario, un eroinomane seppellito da anni di galera al quale era stata promessa chissà quale ricompensa per la sua missione di morte.
– Ma non ci ha avuto tempo di godersela, povera creatura! – sospirò, teatrale, ’o Miracolo.
– L’hanno trasferito nel carcere sbagliato, – precisò Ciro.
Grasse risate, che ’o Miracolo sottolineò con uno sputo e una bestemmia: ai morti suoi, e di tutte ’e famiglie ’e mmerda! Il Libanese si limitò a un mezzo sorriso: in fondo, che ne sapeva lui, dei codici dei camorristi? ’O Miracolo si ricompose.
– Comunque, siamo in debito con te. Noi non siamo gente che ci piace dovere niente a nisciuno. Perciò, addimmanna. E se è nelle nostre possibilità, quello che chiedi ti verrà dato.
Il Libanese si prese un tempo per riflettere. Il passaggio era delicato. Chiedere significava sottomettersi, e la sottomissione non è mai una buona politica. Non chiedere significava manifestare orgoglio, e anche l’arroganza non è una buona politica. Non quando sei il piú debole. Però, una scelta bisognava pur farla. Ora che aveva agganciato Pasquale, non doveva assolutamente mollarlo.
– Allora, guagliu’?
Ciro si rollava una canna. Gli altri lo fissavano con occhi inespressivi. Pasquale si passava una lima sulle unghie ben curate, apparentemente distratto.
– Io sto bene cosí, don Pasquale… mi basta sapere che posso onorarmi della vostra amicizia.
Il camorrista sorrise. Il Libanese conosceva quel genere di sorriso, ambiguo, indecifrabile. Lo conosceva perché gli apparteneva. Era un altro modo per prendere tempo. Per capire se ci avevi davanti, come gli aveva spiegato una volta un...

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