Marco Presta
Il piantagrane
A Marina,
alle persone poco rumorose,
al mio angelo custode.
Il predatore stava disteso sopra il solito ramo, le macchie sulla pelliccia lo facevano sembrare un portentoso malato di morbillo in agguato. Guardò di sotto il noioso tran tran degli erbivori.
«Che esistenza squallida, – pensò –, brucano, si dissetano al fiume, cercano di proteggere i piccoli e scappano, scappano, scappano di continuo, per un odore improvviso, per un rumore, per un presentimento. Faticano e soffrono per ottenere qualunque cosa, anche l’affetto di una compagna. Poi diventano vecchi e, se sono sopravvissuti alla mia caccia, le iene li divorano. E per i loro figli, la storia si ripete».
Il vento arruffò il pelo del felino, cosa che nessun essere vivente avrebbe mai osato fare.
I ruminanti alzarono tutti insieme la testa dall’erba e fissarono terrorizzati il vuoto.
Allora accadde qualcosa d’improbabile, in grado di far saltare una catena alimentare millenaria con la stessa facilità con cui salta la catena della bicicletta d’un ragazzino.
Il leopardo provò pietà per le sue prede. Un’anomalia certo, come un gorilla albino, l’ennesimo scherzo di cattivo gusto della natura.
Prima commiserò incredulo i cuccioli che, pur camminando a stento, erano già pronti a correre, poi, sempre in preda allo stupore, si sorprese a compatire gli esemplari piú anziani che arrancavano alla periferia del branco, una volta elastici di carne ma ormai solo progetti di carcassa.
Si preoccupò per le giovani madri in allattamento che, in quella stagione torrida, non trovavano abbastanza vegetazione da sostentarsi e si chiese angustiato se i maschi adulti avessero conservato abbastanza energie per condurre la mandria verso i pascoli piú rigogliosi dell’Est.
Decine d’animali sarebbero morti durante il viaggio, lasciando orfani belanti e una colonia indebolita.
«Sono dei disgraziati… guarda quello lÃ, s’è fatto beccare come un cretino da un coccodrillo… poveraccio… è inutile, non sanno stare al mondo… maledizione, mi si è chiuso lo stomaco…»
Fu di cattivo umore per tutto il pomeriggio e per l’intero giorno seguente. Pensieri inauditi e sentimenti inverosimili prendevano forma dentro di lui, frastornandolo.
Quando la fame si faceva sentire, alzava lo sguardo sulla savana imbandita d’erbivori, ma l’istinto di scattare era subito inibito da una nuova, profonda pena per la vittima.
Provate a considerare martiri le polpette al sugo che avete nel piatto e capirete.
I giorni passarono, il leopardo s’indeboliva sempre piú, al punto che mentre cercava di scendere cadde dal ramo e rimase scorticato e afflitto vicino al tronco del colossale albero.
Percepà l’odore acre di un erbivoro a pochi metri da lui e pensò, con una stretta al cuore, che per avvicinarsi cosà tanto doveva appartenere a una specie veramente stupida.
Quella notte fissò le stelle nel cielo, non s’era mai accorto che fossero cosà numerose. All’alba, un rapace gli saltellò intorno per alcuni minuti ma il leopardo non se ne occupò affatto, preso com’era a considerare che la mandria sarebbe dovuta scendere al fiume per abbeverarsi solo nelle ore piú calde, quando i carnivori si rifugiano all’ombra.
D’improvviso i suoi sensi, attutiti dalla debolezza, si acuirono di nuovo e il suo spirito si riempà di luce e di aromi che non conosceva.
Poi la savana cambiò, l’erba fu azzurra come il cielo e gli alberi si mossero leggermente, come per mettersi comodi.
Mentre a Varese un barbiere controllava preoccupato le scadenze del mese sul calendario, il leopardo morà di fame.
Nella cascata, l’acqua continuò a scendere e le scimmie ripresero a inseguirsi.
I motori di un bielica ruppero il silenzio e gli erbivori, per sicurezza, cominciarono a correre.
Franco si commuoveva ascoltando l’inno nazionale prima delle partite, comprese le amichevoli.
Sentiva di amare profondamente la Patria e capà finalmente che il suo unico desiderio era servirla con tutte le forze e con tutta l’anima.
Dopo aver riflettuto a lungo sul come, decise che sarebbe diventato magistrato: avrebbe speso la propria esistenza per contrastare la corruzione, l’immoralità , il degrado che affliggevano il Paese, contribuendo alla ricostruzione di un’etica nazionale.
Si confidò con la madre Ida, lei lo abbracciò in silenzio, con la gola chiusa da un singulto e le dita che tormentavano la giacca di lui, spudoratamente in misto lana.
Franco aveva già trentadue anni e in cuor suo imprecò contro l’irresolutezza che fino ad allora lo aveva bloccato.
Non poteva perdere altro tempo, la situazione del Paese era avvilente e certo si sarebbe aggravata ancora di piú negli anni necessari a conseguire l’obiettivo. Un rischio che il giovane a oltranza si rifiutava di accettare.
Grazie ai risparmi della mamma, quindi, comprò una laurea in avvocatura. I docenti corrotti, gli fu assicurato, erano tra i piú autorevoli in circolazione. Con quel titolo di studio in mano, che era costato tanti sacrifici alla signora Ida, si iscrisse al concorso in magistratura.
«Nessun uomo è un fallito se ha degli amici»: questa massima sentita in un vecchio film gli tornò in mente al cospetto del giudice di Corte d’appello Piserchia, autorevole massone e persona di molteplici influenze. I due uomini condividevano una profonda, reciproca stima da quando Franco aveva presentato all’alto magistrato una sua cugina contorsionista. Piserchia consegnò all’inesperto avvocato i testi già redatti per le tre prove scritte e lo rassicurò riguardo a quella orale.
– Il presidente della commissione è un fratello, – disse Piserchia, girando piano lo sguardo intorno, – ci mancherebbe altro…
Nella vita, per fortuna, ogni tanto le cose vanno come dovrebbero andare se la giustizia fosse l’amministratore delegato della realtà .
Franco superò il concorso, ma tutto quell’impegno sarebbe stato inutile se la sua passione, il suo trasporto, la fede che nutriva nel rispetto delle regole fossero stati confinati a una piccola, insignificante cittadina di provincia. Cosà pregò l’Altissimo di aiutarlo e pensò di rivolgersi a un suo concessionario, lo zio arcivescovo d’Orvieto, monsignor Nicola Cardazio, le cui parole sempre ponderate erano tenute in gran considerazione da tutti, anche dal guardasigilli.
Il prelato intuà immediatamente che quel giovane non era stato creato suo nipote a caso e alzò la cornetta del telefono.
«Il cuore degli uomini è piú grande di quanto si pensi»: questa vecchia, radicata convinzione del religioso trovò l’ennesima conferma quando apprese che gli amici avevano trovato per il suo protetto una collocazione assai opportuna nella procura di una grande città del Nord.
Appena entrato nel suo nuovo ufficio, accolto da faldoni e incartamenti che lo festeggiavano dalla scrivania, Franco per un momento ebbe paura, temette di non essere all’altezza delle sue nuove responsabilità .
Poi vide la bandiera in un angolo, tirò un sospiro e si mise al lavoro.
Non esistono segnali che ci avvertano dell’arrivo di un giorno particolare, diverso dagli altri, destinato a centrifugare la nostra esistenza. La data di una gran vincita alla lotteria e le ennesime ventiquattr’ore insipide si presentano, in genere, allo stesso modo. Basterebbe una sirena, una semplice luce lampeggiante, la telefonata di una vecchia zia che ti chiama dopo anni per benedirti, qualcosa, insomma, che ti metta in guardia e ti sussurri: «Posa le buste della spesa, imbecille… stai per conoscere la moretta seduta alla cassa: ti darà quattro figli e poi scapperà col macellaio», oppure: «Preparati, oggi il tram ti passerà sui piedi».
Quella unicità imprevista ci colpisce spesso all’improvviso e nell’indifferenza del mondo circostante. Il nostro dovere è farci trovare impreparati.
Se si escludono le lauree e le nascite, finte sorprese come le cravatte ai compleanni, tutti gli autentici avvenimenti imponderabili ci mettono alla prova e separano gli inetti dai vigorosi, i fanfaroni dai rassegnati.
A ciascuno spetta almeno una rottura di coglioni al giorno.
Giovanni era convinto che la seccatura di quella mattina fosse costituita dalle cimici dei viburni.
Era un uomo ancora giovane, sui trentotto anni, alto e incurvato in avanti: sembrava essere sempre sul punto di chinarsi a raccogliere qualcosa. Aveva naso pronunciato e mento sfuggente, capelli lisci gli abitavano la sommità della testa e sfarfallavano leggermente quando accelerava il passo.
Possedeva un piccolo vivaio.
Attraversò la strada, assicurandosi prima che non passassero automobili nel raggio di trecento metri. Era un tipo prudente, armato di un orrore istintivo verso ogni forma d’azzardo. Ancora una volta, arrivò sano e salvo a destinazione.
Poche cose al mondo suscitano tenerezza piú di un bar di periferia appena ristrutturato: sembra voler riscattare con il proprio insignificante splendore, con i pavimenti lustri e i tavolini sfavillanti, l’inadeguatezza del vecchio, scalcagnato quartiere che lo circonda e di cui, ormai, si sente prigioniero.
Giovanni sperava di trovare ancora i cornetti alla marmellata, gli unici che gli piacevano davvero. Alle nove del mattino, però, la strage era già avvenuta. Avrebbe voluto raggiungere il vassoio dei lieviti ma i clienti vicini al bancone, pur di non cedere un millimetro del loro spazio vitale, consumavano la colazione con lentezza esasperante.
Una bionda sulla cinquantina, ansiosa di ammortizzare la spesa sostenuta per rifarsi il seno, esibiva il suo paradiso artificiale da una monumentale scollatura incombente sugli astanti. Alzò gli occhi e sbuffò infastidita verso il mondo.
– Una treccia alla crema… – chiese dalle retrovie Giovanni. La sua voce sembrava impercettibile all’orecchio umano come gli ultrasuoni di una nottola.
Allora cominciò a intrufolarsi pian piano tra gli avventori, un rugbista gentile lanciato verso la meta di un latte macchiato. Mise lo scontrino sul bancone e sopra lo scontrino una moneta, sperando che agisse da piede di porco sul menefreghismo blindato del barista.
Un tale leggeva il quotidiano sportivo messo a disposizione dei clienti e mentre Giovanni cercava di sbirciare il titolo in prima pagina, un nuovo arrivato lo scavalcò nella fila.
Un abbattimento profondo s’impossessò del vivaista. Siamo capaci di resistere a malattie, grandi abbandoni, dolori laceranti, poi una piccola prepotenza in un bar ci fa sentire tutto insieme il peso di queste sopportazioni e ci schianta.
Giovanni desiderò andar via di là e rinunciare all’impresa, quella colazione s’era ormai trasformata nella sua Caporetto.
Stava uscendo dal piccolo locale, quando un grido pietrificò i presenti.
Veniva dalla bionda. Guardava terrorizzata all’interno della propria scollatura, il décolleté s’era afflosciato improvvisamente, di nuovo sottomesso alle leggi della natura. Infilò febbricitante le mani nella maglietta, frugò senza pudore e sotto gli occhi di tutti tirò fuori le mammelle flaccide, muovendo la bocca truccata senza riuscire a dire una parola.
Seguirono istanti inverosimili, che incorniciarono un’immagine a metà tra il giornaletto porno e Guernica di Picasso.
Poi un guaito le uscà dalla gola e la donna si sedette in terra a gambe larghe, come una di quelle bambole di porcellana che si tengono al centro del letto.
In molti la soccorsero, le chiesero come stava, si offrirono di accompagnarla al Pronto Soccorso. Il barista le portò un bicchiere d’acqua di rubinetto, poi tornò al suo posto, con la serenità di chi ha fatto tutto quello che poteva fare.
Giovanni assistette a quella piccola tragedia suburbana senza capire, il suo sconforto si trasformò in sconcerto.
– Mi scusi, forse le sono passato davanti involontariamente…
Le parole dell’uomo il cui sorpasso tanto l’aveva amareggiato scossero Giovanni, che lo fissò intontito....