La ballata del caffè triste
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La ballata del caffè triste

  1. 168 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La ballata del caffè triste

Informazioni su questo libro

In uno sperduto villaggio del profondo Sud degli Stati Uniti, Miss Amelia, una donna matura e indipendente, si guadagna da vivere con la sua bottega, ma soprattutto producendo e vendendo liquore di contrabbando. La sua esistenza cambia all'improvviso con l'arrivo del cugino Lymon, un nano capace di ingraziarsi l'intero paese, e di convincere Amelia a trasformare la bottega in uno scalcinato caffè, punto di ritrovo per la comunità. La felicità di Amelia è però a breve durata, perché il ritorno dell'ex marito, cacciato di casa la prima notte di nozze per ragioni mai chiarite, innesca una spirale di conflitti e violenze che cambierà la vita della donna e dello stesso villaggio. *** «Tutti i personaggi di Carson McCullers sono accomunati da una medesima ossessione: la loro esistenza, fino all'ultimo istante, consiste nell'innamorarsi di una speranza, destinata a svanire». Harold Bloom

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806192273
eBook ISBN
9788858407677

La ballata del caffè triste

Il paese in sé è squallido: non c’è nulla tranne la filanda del cotone, le case di due stanze dove vivono gli operai, pochi alberi di pesco, una chiesa con due finestre colorate e una misera via principale, lunga appena un centinaio di metri. Il sabato vengono gli affittuari delle fattorie vicine per una giornata di chiacchiere e commerci. Altrimenti il paese è solitario, triste, come un luogo remoto ed estraniato da tutti gli altri nel mondo. La fermata ferroviaria piú vicina è Society City e gli autobus della Greyhound e della White si servono della nazionale sulle Forks Falls, a tre miglia di distanza. Qui gli inverni sono brevi e crudi, le estati bianche d’un caldo accecante e feroce.
Se cammini lungo la via principale in un pomeriggio d’agosto, non avrai nulla da fare. L’edificio piú grande, proprio nel centro del paese, è tutto chiuso da tavole e talmente sbilenco sulla destra che ha l’aria di poter crollare da un momento all’altro. La casa è vecchissima. Con un curioso aspetto decrepito che ti rende perplesso finché all’improvviso non ti accorgi che un tempo, molto tempo fa, il lato destro del portico era stato dipinto, e un pezzo del muro; ma la pittura venne lasciata a metà e una parte della casa è piú scura e piú sudicia dell’altra. Il fabbricato appare completamente deserto. Tuttavia, al secondo piano, c’è una finestra senza tavole; a volte, nel tardo pomeriggio quando il caldo è al culmine, una mano apre adagio l’imposta e un viso si piega a guardare giú, sul paese. È un viso opaco e terribile come se ne vedono in sogno: senza sesso e bianco con due grigi occhi strabici, incrociati tra loro tanto acerbamente che sembra si scambino un lungo e segreto sguardo di dolore. Il viso indugia alla finestra quasi un’ora, poi le imposte tornano a chiudersi ed è probabile che non si veda piú altra anima viva nella via principale. In quei pomeriggi d’agosto – finito il turno non ti resta assolutamente nulla da fare – tanto vale andarsene giú sulla statale delle Forks Falls ad ascoltare la catena dei forzati.
Eppure qui, in questo stesso paese, c’era una volta un caffè e la vecchia casa con le tavole inchiodate era diversa da ogni altra per miglia e miglia. C’erano tavolini con tovaglie e tovaglioli di carta, nastri colorati appesi ai ventilatori elettrici e gran folla le notti di sabato. Proprietaria era Miss Amelia Evans, ma la persona cui andava il merito del successo e dell’allegria del locale era un gobbo chiamato cugino Lymon. Un’altra persona ha parte nella storia di questo caffè: l’ex marito di Amelia, un losco figuro che, tornato in paese dopo una lunga condanna nel penitenziario, portò con sé la rovina e se ne andò poi di nuovo per la sua strada. Da allora, ed è molto tempo, il caffè è rimasto chiuso, ma ancora lo si ricorda.
Non era sempre stato un caffè. Miss Amelia aveva ereditato il fabbricato dal padre ed era una bottega che per lo piú teneva generi alimentari, fertilizzanti e altri prodotti come farina e tabacco da fiuto. Miss Amelia era ricca. Oltre la bottega aveva in funzione, a tre miglia nell’interno della palude, una distilleria da cui usciva il miglior liquore della zona. Era una donna alta e scura, con ossa e muscoli da uomo, i capelli tagliati corti e spazzolati all’indietro sulla fronte e nel viso bruciato dal sole un che di teso e sofferto. Avrebbe potuto essere bella se già allora non fosse stata un po’ strabica. E c’era anche chi l’avrebbe corteggiata, ma Miss Amelia non si curava dell’amore degli uomini e preferiva la solitudine. Il suo matrimonio era stato diverso da ogni altro mai celebrato nella contea, un matrimonio strano e pericoloso che era durato solo dieci giorni e aveva lasciato stupefatto e scandalizzato l’intero paese. Tranne per questo bizzarro matrimonio, Miss Amelia aveva vissuto sola per tutta la vita. Spesso, in calzoni da lavoro e stivali di gomma, passava le notti nel suo capannone in palude a vigilare il fuoco basso della distilleria.
Con ogni sorta di cose da fare usando le mani, Miss Amelia prosperava. Vendeva sanguinacci e salsicce nella città vicina. Nelle belle giornate d’autunno macinava il sorgo, e lo sciroppo dei suoi tini aveva un colore d’oro cupo e l’aroma delicato. In due sole settimane si costruí il gabinetto di mattoni dietro la bottega, ed era abile in falegnameria. Solo con la gente Miss Amelia non si trovava a proprio agio. La gente – a meno che non fossero creature senza volontà o malate – non poteva essere presa in mano e trasformata nel corso d’una notte in qualcosa di piú pregevole e vantaggioso. Perciò l’unico uso che Miss Amelia faceva del prossimo era cavarne soldi. E vi riusciva. Ipoteche su proprietà e raccolti, una segheria, denaro in banca… in un raggio di miglia e miglia era la donna piú ricca. Sarebbe stata ricca come un senatore, non avesse avuto un gran difetto: la passione per le cause e i tribunali. Sulla minima sciocchezza era capace d’impiantare liti interminabili e feroci. E si diceva che, se fosse appena inciampata in un sasso per la strada, d’istinto si sarebbe guardata attorno in cerca di qualcuno da citare per danni. Processi a parte però, viveva una vita regolata; ogni giorno non era diverso dal precedente. E a eccezione di quel suo breve matrimonio, non accadde nulla a mutare questo stato di cose fino alla primavera in cui Miss Amelia compí il suo trentesimo anno.
Fu verso mezzanotte, una dolce, calma sera d’aprile. Il cielo era colore dell’iris azzurro di palude, la luna chiara e brillante. Il raccolto prometteva bene quella primavera e nelle scorse settimane alla filanda s’era fatto il turno di notte. Giú presso lo stagno la fabbrica quadrata di mattoni era gialla di luce, e ne veniva il debole, uguale ronzio dei telai. Era una di quelle notti in cui fa bene sentire da lontano, attraverso i campi bui, la canzone lenta di un nero avviato a far l’amore. Ed è piacevole starsene seduti tranquilli a pizzicare la chitarra o semplicemente a riposarsi in solitudine, senza pensare a nulla. La strada quella sera era deserta, ma la bottega di Miss Amelia illuminata, e fuori sul portico stavano cinque persone. Uno era Stumpy MacPhail, caposquadra dalla faccia rossa e le mani paonazze e delicate. Sul primo scalino c’erano due ragazzi in tuta, i gemelli Rainey, tutt’e due dinoccolati e lenti, con i capelli bianchi e gli occhi verdi assonnati. Il quarto era Henry Macy, persona timida e schiva dai modi gentili e nervosi, seduto sull’orlo dello scalino di fondo. E l’ultima era Miss Amelia in persona, che sedeva appoggiata allo stipite della porta aperta, i piedi incrociati nei grossi stivali da palude, occupata con pazienza a sciogliere i nodi di una corda che le era capitata sottomano. Da molto nessuno apriva bocca.
Uno dei gemelli, che stava guardando la strada vuota, fu il primo a parlare.
– Viene qualcuno.
– Un vitello sperso, – disse il fratello.
La figura che si avvicinava era troppo lontana per vederla bene. La luna disegnava sul margine della via le ombre opache e contorte dei peschi in fiore. Nell’aria il profumo dei boschi e della tenera erba primaverile si mescolava al caldo sentore acido della palude vicina.
– Macché. Sarà il marmocchio di qualcuno, – disse Stumpy MacPhail.
Miss Amelia osservava la strada in silenzio. Aveva posato la corda e con le mani scure e ossute si toccava le bretelle della tuta. Fece una smorfia e una ciocca nera di capelli le cadde sulla fronte. Mentre aspettavano, da una delle case in fondo alla via partí l’ululato rauco e selvaggio di un cane e continuò finché una voce non s’alzò ad acquietarlo. Solo quando la figura fu vicinissima, entro il cerchio di luce gialla del portico, videro chiaramente chi era.
Un forestiero, ed è raro che un forestiero entri in paese a piedi a quell’ora. E poi, gobbo. Non era alto piú di un metro e venticinque, con un cappotto sbrindellato e polveroso che gli arrivava appena ai ginocchi. Le gambette storte parevano troppo sottili per reggere il peso del gran petto deforme e della gobba che gli sedeva sulle spalle. Aveva la testa molto grossa con occhi azzurri incavati e la bocca piccola e sottile. Il viso era a un tempo tenero e insolente, e in quel momento la pelle pallida era ingiallita dalla polvere, con ombre lilla sotto gli occhi. Portava una valigia vecchia e sbilenca, legata da una fune.
– ’sera, – disse, e gli mancava il fiato.
Miss Amelia e gli uomini sul portico non risposero al saluto né parlarono. Si limitarono a guardarlo.
– Cerco Miss Amelia Evans.
Miss Amelia si tirò via i capelli dalla fronte e alzò il mento: – Per cosa?
– Sono suo parente, – disse il gobbo.
I gemelli e Stumpy MacPhail alzarono gli occhi verso Miss Amelia.
– Sono io, – lei disse. – Che intendete per «parente»?
– Perché… – cominciò il gobbo. Sembrava a disagio, come se stesse per piangere. Posò la valigia sullo scalino di fondo, ma non tolse la mano dalla maniglia. – Mia madre era Fanny Jesup e veniva da Cheehaw. Aveva lasciato Cheehaw da una trentina d’anni quando sposò il primo marito. Ricordo di averla sentita parlare d’una sorellastra di nome Martha. E giú a Cheehaw oggi mi hanno detto che era vostra madre.
Miss Amelia ascoltò con la testa appena girata. Mangiava da sola il pranzo della domenica, casa sua non era mai affollata da uno stuolo di parenti e lei anzi proclamava di non essere consanguinea di nessuno. Aveva avuto una prozia, proprietaria di una scuderia da noleggio a Cheehaw, ma adesso era morta. E a parte lei, c’era solo un cugino di primo grado che abitava in un paese a venti miglia di distanza; ma questo cugino e Miss Amelia non andavano molto d’accordo e, quando capitava che s’incontrassero, sputavano sul ciglio della strada. Altri ogni tanto si erano sforzati di elaborare qualche sorta di remota parentela con Miss Amelia, ma sempre senza successo.
Il gobbo attaccò una lunga tiritera accennando nomi e luoghi, sconosciuti agli ascoltatori sul portico e che pareva non avessero nulla a che fare con l’argomento.
– Dunque Fanny e Martha Jesup erano sorellastre. E io sono figlio del terzo marito di Fanny. Perciò voi e io… – Si chinò e prese a slegare la valigia. Aveva le mani come zampette sporche di passerotto, e tremavano. La valigia era piena d’ogni specie di rifiuti… panni laceri e cianfrusaglie spaiate che a vederle parevano i pezzi di una macchina per cucire, o roba altrettanto inutile. Il gobbo frugò tra questi beni e tirò fuori una vecchia fotografia. – Ecco mia madre e la sua sorellastra.
Miss Amelia non parlò. Muoveva adagio la mascella qua e là e dalla faccia non si poteva capire a cosa pensasse. Stumpy MacPhail prese la fotografia e l’alzò verso la luce. Era il ritratto di due bambine pallide e appassite, sui due o tre anni d’età, i visi due minuscole macchie, e avrebbe potuto essere una vecchia fotografia nell’album di chiunque.
Stumpy MacPhail la restituí senza commenti. – Da dove venite? – chiese.
La voce del gobbo era incerta. – Viaggio.
Miss Amelia ancora non parlava. Se ne stava appoggiata al lato della porta e teneva lo sguardo abbassato sul gobbo: Henry Macy ammiccò nervoso e si strofinò le mani; poi senza rumore abbandonò lo scalino di fondo e scomparve. Era un’anima buona e la situazione del gobbo gli aveva toccato il cuore. Perciò non voleva essere presente quando Miss Amelia lo avrebbe cacciato dalla sua proprietà, dandogli la fuga dal paese. Il gobbo se ne stava in piedi con la valigia aperta sullo scalino: tirava su col naso e la bocca gli tremava. Forse cominciava a rendersi conto della propria situazione disperata. Forse sentiva la miseria d’essere uno straniero nel paese, con una valigia piena di rifiuti, e pretendere parentela con Miss Amelia. Comunque fosse, sedette sugli scalini e improvvisamente si mise a piangere.
Non era una cosa comune un gobbo sconosciuto che arrivava a mezzanotte nella bottega, si sedeva e si metteva a piangere. Miss Amelia tirò via i capelli dalla fronte, e gli uomini si guardarono imbarazzati. Tutto intorno il paese taceva.
Alla fine uno dei gemelli disse: – Sia dannato se questo non è un Morris Finestein.
Tutti sentirono e furono d’accordo perché l’espressione aveva un significato speciale. Ma il gobbo pianse piú forte non potendo sapere di che cosa parlavano. Morris Finestein era un tale vissuto anni prima in paese: un piccolo ebreo svelto e saltellante che piangeva quando lo chiamavano «assassino di Cristo» e ogni giorno mangiava pane fermentato e salmone in scatola. Gli era successa una disgrazia e aveva dovuto trasferirsi a Society City. Ma da allora, quando uno era troppo suscettibile o piangeva, si faceva subito la fama di un Morris Finestein.
– Be’, soffre, – disse Stumpy MacPhail. – Una ragione ci sarà.
Con due passi lenti e dinoccolati Miss Amelia traversò il portico. Scese gli scalini e stette a guardare pensierosa il forestiero. Cautamente, con il lungo indice bruno gli toccò la gobba sulla schiena. Il gobbo continuava a piangere, ma adesso piú piano. La notte era silenziosa e la luna ancora brillava di una luce dolce e chiara: stava venendo il freddo. Poi Miss Amelia fece una cosa insolita: tirò fuori della tasca dei calzoni una bottiglia e, dopo averne pulito con il palmo l’imboccatura, la diede da bere al gobbo. Di rado Miss Amelia si lasciava persuadere a vendere liquore a credito, e darne via gratis sia pure un goccio per lei era una novità.
– Bevi, – disse. – Ti scalderà lo stomaco.
Il gobbo smise di piangere, si leccò le lacrime dalla bocca e fece come gli era stato detto. Quando ebbe finito, Miss Amelia prese adagio una sorsata, se ne scaldò e sciacquò la bocca e la sputò. Poi anche lei bevve. I gemelli e il caposquadra avevano le loro bottiglie, regolarmente pagate.
– Va giú liscio, – disse Stumpy MacPhail. – Miss Amelia, per quel che ne so io non l’avete mai sbagliato una volta.
Il whisky che bevvero quella sera (due grosse bottiglie) è importante. Altrimenti sarebbe difficile spiegarsi quanto seguí. Forse senza di esso non ci sarebbe mai stato un caffè. Perché il liquore di Miss Amelia ha una qualità particolare. Lo senti forte e pulito sulla lingua, ma una volta dentro vi splende per un bel pezzo. E non è tutto. Si sa che quando un messaggio è scritto col succo del limone su un foglio di carta bianca, non ne resta traccia. Ma se la carta viene tenuta un minuto sopra il fuoco, le lettere scuriscono e se ne legge il significato. Immaginatevi che il whisky sia il fuoco, e il messaggio ciò che è noto solo all’anima di un uomo, e potrete meglio capire il pregio del liquore di Miss Amelia. Cose passate inosservate, pensieri nascosti nel fondo oscuro della mente, d’improvviso si riconoscono e si comprendono. Un filatore ha pensato solo e sempre al suo telaio, alla gavetta del mangiare, al letto e ancora al telaio; avviene che questo filatore beva un po’ il sabato sera e poi trovi un giglio di palude. E terrà il fiore sul palmo studiandone la delicata coppa d’oro, e dentro di sé sentirà a un tratto una dolcezza acuta come una pena. E il tessitore che improvvisamente alza gli occhi, vedrà per la prima volta il freddo, magico splendore del cielo di mezzanotte in gennaio, e una paura fonda per la propria piccolezza gli fermerà il sangue. Ecco che cosa accade quando un uomo beve il liquore di Miss Amelia. E potrà soffrirne o goderne, ma l’esperienza gli ha mostrato la verità ed egli si è scaldato l’anima e ha letto il messaggio che vi è riposto.
Bevvero finché fu passata la mezzanotte e la luna si coprí di nuvole cosí che la notte era fredda e buia. Il gobbo ancora sedeva sugli scalini di fondo, curvo e avvilito, la fronte posata sul ginocchio. Miss Amelia se ne stava in piedi con le mani in tasca e un piede sul secondo gradino della scala. Da molto tempo taceva. E in viso aveva l’espressione che si nota spesso negli strabici quando pensano profondamente, un’espressione a un tempo saggia e demente. Alla fine disse:
– Non so come ti chiami.
– Sono Lymon Willis, – disse il gobbo.
– Bene, entra, – disse lei. – È avanzata un po’ di cena nella stufa e potrai mangiare.
Solo poche volte nella vita Miss Amelia aveva invitato qualcuno a mangiare con lei, a meno che non stesse tramando d’imbrogliarlo per un verso o per l’altro, o di cavarne denaro. Cosí gli uomini sotto il portico sentirono che c’era qualcosa di storto. In seguito avrebbero detto fra loro che lei doveva aver bevuto quasi tutto il pomeriggio laggiú nelle paludi. Comunque sia, lasciò il portico e Stumpy MacPhail e i due gemelli se ne andarono a casa. Lei inchiavardò la porta d’ingresso e si guardò in giro per vedere se tutto era in ordine. Poi andò nella cucina, che si trovava dalla parte del retrobottega. Il gobbo la seguí trascinando la valigia; tirava su col naso e se lo strofinava sulla manica del cappotto sudicio.
– Siedi, – disse Miss Amelia. – Ora ti riscaldo quello che c’è.
Fecero un buon pasto insieme quella sera. Miss Amelia era ricca e non risparmiava nel cibo. C’era pollo fritto (e il gobbo se ne tirò il petto sul piatto), purea di radici, cavoli verdi e patate dolci calde e dorate. Miss Amelia mangiava adagio col gusto di una bracciante. Seduta con tutt’e due i gomiti sul tavolo, si curvava sul piatto, le ginocchia larghe e i piedi puntati sui regoli della sedia. Quanto al gobbo, inghiottiva la sua cena come se non annusasse cibo da mesi. Durante il pasto una lacrima gli scivolò lungo la guancia polverosa, ma era una lacrima avanzata e non significava nulla. Il lume sulla tavola ardeva pulito e azzurro agli orli dello stoppino gettando una luce allegra nella cucina. Quando ebbe mangiato la sua cena, Miss Amelia pulí con cura il piatto con una fetta di pane, poi vi versò sopra il proprio sciroppo, dolce e chiaro. Il gobbo fece altrettanto, ma piú schizzinoso chiese un piatto pulito. Finito che ebbe, Miss Amelia inclinò all’indietro la sedia, strinse il pugno e si tastò i muscoli duri e flessibili del braccio destro, sotto la stoffa azzurra della manica; abitudine istintiva in lei al termine di un pasto. Poi prese il lume dalla tavola e accennò con la testa in direzione delle scale, come invito al gobbo a seguirla. Sopra la bottega c’erano le tre stanze dove Miss Amelia aveva vissuto tutta la vita: due camere da letto con un gran salotto nel mezzo. Poca gente le aveva mai viste, ma era risaputo che erano bene arredate ed estremamente pulite. E adesso Miss Amelia vi portava un sudicio forestiero gobbo, venuto Dio sa da dove. Miss Amelia camminava adagio, due scalini alla volta, reggendo alto il lume. Il gobbo le si teneva cosí vicino che la luce oscillante proiettava sulla parete delle scale un’unica immensa ombra deforme. Ben presto le stanze sopra la bottega furono al buio come il resto del paese.
La mattina dopo fu sereno, con un’aurora d’un caldo violaceo mista al rosa. Nei campi intorno al paese i solchi erano arati di fresco e fin dalle prime ore i contadini si misero all’opera sulle giovani, fitte piante verdi del tabacco. Corvi selvatici volavano raso terra, gettandovi rapide ombre azzurre. In paese la gente uscí di casa presto con la gavetta del pranzo, e le finestre della filanda erano di un oro accecante nel sole. L’aria era fresca e gli alberi di pesco leggeri come nuvole di marzo con i loro fiori.
Miss Amelia scese verso l’alba come il solito. Si lavò la testa sotto la pompa e poco dopo era già in faccende. Nel corso della mattinata sellò il mulo e andò a vedere un pezzo di terra coltivato a cotone vicino alla strada delle Forks Falls. A mezzogiorno, naturalmente, tutti sapevano del gobbo venuto alla bottega nel cuore della notte, ma nessuno ancora lo aveva veduto. La giornata presto si fece calda, il cielo di un magnifico azzurro meridiano. E ancora nessuno aveva posato gli occhi sullo strano ospite. Pochi ricordavano che la madre di Miss Amelia avesse una sorellastra, e c’era diversità di opinioni sul fatto che fosse morta o scappata con un tale che infilava tabacco. Quanto alla pretesa del gobbo, tutti pensavano che fosse una montatura. E il paese, conoscendo Miss Amelia, decise che doveva averlo messo alla porta dopo avergli dato da mangiare. Ma verso sera, quando il cielo sbiancò e finí il turno, una donna sostenne di aver visto una faccia storta alla finestra di una delle stanze sopra la bottega. Miss Amelia, lei, non diceva nulla. Aveva lavorato un po’ in negozio, litigato per un...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dello stesso autore
  3. La ballata del caffè triste
  4. La ballata del caffè triste
  5. Wunderkind
  6. Il fantino
  7. Madame Zilensky e il re di Finlandia
  8. Il forestiero
  9. Dilemma domestico
  10. Un albero. Una pietra. Una nuvola
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Copyright