(tra parentesi)
Mentre scrivo queste pagine sono a Venezia. Ci sono venuta per un paio d’impegni che avrei potuto sbrigare al massimo in due giorni. Però, complice un’amica che mi ha messo a disposizione casa sua, ho pensato di fermarmi un po’ di piú. Avevo voglia di vivere una Venezia di stagione incerta, quasi senza turisti, sia pure contravvenendo a una delle regole auree dei viaggiatori, quella che recita che non bisogna portarsi dietro il lavoro: potevo permettermi di stare a Venezia, ma non di stare in vacanza a Venezia. E cosí ho impacchettato il lavoro e me lo sono portata dietro, e invece di staccare la spina, ho attaccato quella del computer. Certo, ho passato la maggior parte del tempo davanti a un monitor, ma volete mettere fare la spesa al mercato di Rialto invece che all’Esselunga? E un aperitivo al bacaro al posto di un happy hour?
Poi, per caso, una sera sono entrata in una galleria d’arte, e chiacchierando sono venuta a sapere del progetto di trasformare una torre di avvistamento in sede per mostre d’arte contemporanea. La torre, dicevano, sta su un’isola della laguna piuttosto grande ma poco abitata, l’isola di Sant’Erasmo, nota ai locali non per la torre, ma per essere quello che loro chiamano ‘l’orto di Venezia’.
La mattina dopo, per la prima volta dopo giorni di nebbia, c’è un bellissimo sole, una luce fredda e radente. E a quel punto penso di prendermi qualche ora di vacanza. Della faccenda della torre avrei potuto dimenticarmi, ma non di quella dell’orto, cosí decido di andarci, tanto per dare un’occhiata. Certo, potrei fare qualcosa di piú intelligente, tipo un ripasso delle Gallerie dell’Accademia, o vedere qualche padiglione della Biennale che manca all’appello, ma la curiosità ha la meglio e vince la gita a Sant’Erasmo.
L’isola è uno dei paesaggi piú strani che mi sia capitato di vedere: campi, trattori, orti, e soprattutto acqua: il mare, tutt’intorno, e poi tanti canali che s’infiltrano tra i campi, conferendogli un disegno irregolare e curioso. Alcuni sono canali d’irrigazione, altri della laguna, io non riesco a distinguerli, l’acqua salata si confonde con quella dolce, nello sguardo ma anche nei profumi.
Cammino senza avere una meta precisa, e dopo un po’ mi ritrovo su una spiaggetta deserta, mi siedo e leggo un libro al sole. Poco piú in là c’è un piccolo bar, l’unico sull’isola. Entro ed essendo la sola cliente diventa naturale fare un po’ di conversazione con il barista. E cosí scopro che lí si coltivano i famosi carciofi di Venezia, quelli piccoli piccoli che dai fruttivendoli si vedono immersi in bacinelle d’acqua acidulata. Si chiamano castraure e stanno al carciofo come il tartufo sta ai funghi, per sapore e per prezzo. Il barista mi spiega anche come è fatta, la pianta del carciofo, e dove posso vederne un campo. Inseguo quel campo, tra rumori che invadono questa strana campagna appoggiata sul mare, incrocio un contadino che dà per scontata la mia ignoranza e mi spiega cosa sono le altre coltivazioni che vedo (soprattutto cardi e asparagi).
Conoscendomi, non mi ha stupito ritrovarmi la sera, rientrata in città, impegnata a vagare fino a quando non ho trovato un ristorante che nel menu avesse questi benedetti carciofi, una trattoria che frequentavo molti anni fa e avevo quasi dimenticato, la locanda Montin.
Quando la racconto, questa faccenda di essermene andata per carciofi a Venezia, girando le spalle a gondole, musei, calli e campielli, mostre, spettacoli, concerti e negozi, vedo implodere smorfie bizzarre sulle facce di chi pure ha la pazienza di ascoltarmi. Non che proprio mi rimproverino, però le sopracciglia un pochino le inarcano, e sento come un ronzio nei loro pensieri.
Lo so che un po’ lo pensano, che la mia non è stata una vacanza intelligente, però non mi sento mica tanto stupida ad aver passato una giornata cosí. Anzi, la sparo grossa: sono convinta di avere sempre e solo fatto vacanze intelligenti.
Questo non vuol dire che le mie vacanze siano state una sfilza di visite a musei, un entra ed esci da chiese e palazzi, scarpinate e sudate in siti archeologici e qualsiasi altra voce elencata nel menu proposto a chiunque intenda consumare quanta piú intelligenza possibile nello spazio ridotto di una vacanza.
Penso piuttosto che l’ho davvero voluta e cercata, una vita intelligente, e nel corso del tempo e dei viaggi alla fine sono riuscita a fabbricarmela.
Ma mi rendo conto che perché si capisca dove voglio andare a parare, è necessario fare un passo indietro.
Con una piccola avvertenza: di qui in poi, le parole ‘vacanze intelligenti’ si ripeteranno piú volte per il semplice fatto che non è possibile esprimerlo altrimenti, il concetto di vacanze intelligenti.
Ci ho provato, ovviamente, a cercare dei sinonimi. Ma per quanto mi sia messa d’impegno e abbia consultato dizionari, cartacei e non, alla fine mi sono ritrovata tra le mani definizioni che andavano da un lungimirante ferie assennate a un surreale riposi svegli: locuzioni non prive di fascino involontario ma non adatte allo scopo. Pertanto, tocca rassegnarsi.
Dunque, le cose sono andate piú o meno cosí. Secondo fonti attendibili, il concetto di vacanze intelligenti è un tormentone che fa capolino negli anni Settanta e trova cittadinanza soprattutto nelle pagine di un settimanale molto à la page qual era «l’Espresso» di allora: una testata progressista, promotrice d’inchieste scomode e portavoce delle battaglie civili per il divorzio e l’aborto. Non erano di moda, allora, le indagini di mercato, per cui non conosciamo il profilo dei lettori, ma non credo di sbagliare se affermo che quelli che allora si chiamavano lettori medi e oggi si chiamano target fossero persone di cultura medio alta, anticonformiste, con ogni probabilità politicamente impegnate, spesso intellettuali di professione. Per intendersi, non proprio un pubblico del tipo casalinga di Voghera (personaggio che, incidentalmente, proprio in quegli stessi anni e su quelle stesse pagine stava muovendo i primi passi verso una notorietà che certo non si sospettava cosí duratura nel tempo). Dico questo per dire che non ci vuole molto per immaginarseli, quei lettori occhialuti, che tra una manifestazione, un seminario di economia marxista e un gruppo di lettura, strizzandosi l’occhio facevano battute sulle vacanze intelligenti (anche loro, sicuramente, come me, erano convinti di fare solo vacanze intelligenti; però forse erano anche convinti di essere piú intelligenti di chi faceva vacanze intelligenti). Nel frattempo, tutti gli altri, cioè le tante casalinghe di Voghera con le rispettive famiglie, beatamente ignari se ne andavano in villeggiatura sulla riviera romagnola, e nemmeno sospettavano che esistessero, le vacanze intelligenti.
Eppure, sotto sotto, qualcosa stava cambiando le abitudini vacanziere in modo assai piú significativo. Sempre in quegli anni, nel 1978 per la precisione, viene girato Le vacanze intelligenti, episodio di un film in cui Alberto Sordi e Anna Longhi, nei panni di una coppia di fruttivendoli, anzi fruttaroli, romani che piú romani non si può, sono costretti loro malgrado a un itinerario culturale tra tombe etrusche, improbabili installazioni di arte contemporanea e concerti di musica di avanguardia in cui, letteralmente, si suona il silenzio. L’esito è esilarante, e se per caso vi è sfuggito, prendetevi una pausa e fatevi un giretto su YouTube: almeno l’episodio della Biennale di Venezia è imperdibile.
Che il film ne sia causa o sintomo, sta di fatto che la locuzione ‘vacanze intelligenti’ diventa improvvisamente popolare: tutti sembrano sapere cosa significa, e a dire il vero quello che significa non è lusinghiero, né per la vacanza né per l’intelligenza.
Sarebbe ragionevole supporre che a nessuna persona sana di mente, dopo aver visto quel film, sarebbe venuta la voglia di fare una vacanza intelligente (se non, addirittura, di fare una vacanza tout court). E invece non è andata cosí: per una di quelle inspiegabili bizzarrie della storia dei comportamenti, succede l’esatto contrario. Fatto sta che, nel volgere di pochi anni, le vacanze intelligenti diventano un fenomeno di massa.
A un tratto, migliaia di persone si ritrovano impazienti nelle città d’arte, stanno in fila per ore per entrare in un museo, affrontano chilometri a piedi sotto il solleone per vedere i resti di una villa forse di epoca romana, discutono con disinvoltura dei pregi rispettivi di un Mozart ascoltato in una gelida chiesa sconsacrata o di una lettura di poesie improvvisata in un tendone simile a quelli da circo, solo un po’ piú scomodo. Contro ogni previsione, un numero ragguardevole di persone si rivela dotata di una straordinaria capacità di surfismo culturale, e da che si è manifestato il fenomeno non ha mai dato segni di flessione. Ora queste manifestazioni si chiamano eventi, e se ne fanno piú di prima con sempre meno risorse finanziarie, ma nella sostanza un resistente filo rosso sembra ancora tenere insieme e alimentare l’offerta, con mostre piú o meno grandi, festival per ogni palato, rievocazioni storiche e performance futuristiche o futuribili.
L’unica cosa che è davvero cambiata rispetto agli esordi sono le strategie di marketing, sempre piú agguerrite e fantasiose. Non solo fino a neanche troppi anni fa a nessuno sarebbe venuto in mente d’investire dei soldi per promuovere i suddetti eventi con una vera e propria campagna pubblicitaria, con tanto di affissioni, spot e inserzioni, ma ancor meno ci si sarebbe arrischiati a inventarsi soluzioni piú originali e creative. Come ad esempio è successo a Treviso, dove ai visitatori in coda per entrare in una mostra veniva offerta pasta e fagioli, immagino con la speranza, del resto non mal riposta, di fidelizzarli, (non so se a Treviso, al soggetto della mostra o, piú verosimilmente, alla pasta e fagioli).
Appena un paio d’anni prima, il padre di Dodi Al-Fayed, l’amico e amante di Lady Diana morto con lei nell’incidente di Parigi, si era preoccupato di rifocillare con bevande calde la folla accorsa per assistere ai funerali della principessa. Butto lí quest’analogia giusto per dire che ha davvero ragione chi sostiene che per fare del buon marketing non bisogna avere pregiudizi sui case studies da cui trarre ispirazione…
Per farla breve, nel giro di pochi anni, e molto piú rapidamente di quanto sarebbe stato legittimo ipotizzare, l’incubo dei nostri fruttivendoli romani si è trasformato in una moda e si è stabilmente assestato come format, con l’intelligenza diventata d’un tratto acquistabile in pacchetti all inclusive.
Basta una sbirciatina sul web per rendersi conto dell’infinita varietà di tour operator (e con loro alberghi, agriturismi, compagnie aeree…) che garantiscono di offrire vacanze intelligenti (non mi stupirei se da un momento all’altro spuntasse Avventure intelligenti, con proposte di viaggi pensate per sfidare non i confini della geografia ma i confini della mente: maratone filosofiche in tedesco all’università di Heidelberg, seminari di matematica in arabo, visite guidate a Roma in latino…)
Illuminante a questo proposito un sito, levacanzeintelligenti.it, che, oltre a proporle, va incontro all’utente, che presume evidentemente ancora abbastanza ignorante da non saperlo da sé, cosa sono le vacanze intelligenti, e dunque glielo spiega:
Le «Vacanze Intelligenti» sono una vacanza diversa dal solito: unione di corpo e spirito, di ozio e studio, di riposo e formazione, di relax e apprendimento, di sosta rigenerante e approfondimento culturale.
La cultura e la conoscenza sono anche un riscatto, un affrancamento, una possibilità di crescita ed evoluzione, magari per stimolare una vita spesso ripetitiva. Il viaggio non è piú e non solo il trasferimento in una spiaggia dove abbronzarsi ma una vacanza culturale.
La vacanza non è solo riposo e ozio. Si cerca anche l’arricchimento personale, la crescita interiore, il percorso alternativo, la meta inusuale e originale, la vacanza diversa dal solito.
E chi mai, diciamolo, posto davanti a simili promesse oserebbe lasciarsi sfuggire tutte queste opportunità di crescita ed evoluzione solo per trasferirsi su una spiaggia ad abbronzarsi?
E comunque, non è neppure necessario affidarsi a siti o tour operator: sono sufficienti due chiacchiere con le compagne di palestra, gli amici del bar dell’angolo o i colleghi di lavoro per prendere atto che non c’è scampo, l’unico modo per essere persone intelligenti è fare vacanze intelligenti.
Anche per quanto riguarda l’organizzazione del viaggio, ci si può tranquillamente affidare al fai da te, e scegliere à la carte il proprio itinerario. Quasi tutte le capitali europee, ad esempio, si prestano allo scopo. Attenzione però, questo vale a condizione che non si viaggi in coppia mista (cioè con marito, fidanzato, compagno). Altrimenti è facile che si manifesti un effetto collaterale indesiderato. In queste città, come piú o meno in tutte le città, ma in misura ben superiore, oltre a musei chiese palazzi e monumenti vari, ci sono negozi, mercati, ristoranti, bar, centri benessere…
Insomma, una compilation di piaceri piazzati lí, proprio sotto il nostro naso, all’unico scopo di distrarci dall’intelligenza. E fatalmente va a finire che uno dei componenti della coppia ci casca e si lascia tentare (un po’ come era capitato a Ulisse con il canto delle sirene, senza però avere il buon senso di Ulisse e farsi legare, che so, davanti alla Gioconda o alla Colonna di Traiano. Ecco, no, il nostro turista che fa vacanze intelligenti non ha l’intelligenza di Ulisse, anzi, il piú delle volte assomiglia a Pinocchio per quanto si comporta da allocco…) In fondo sono in vacanza, dice e si dice, e di solito a dirlo non è lui ma è lei (del resto, è storia nota che dai tempi di Eva le donne non hanno fatto altro che andarsene a passeggio nella storia con l’obiettivo d’indurre i maschi in tentazione).
E a questo punto lui, che magari un massaggino se lo farebbe pure fare, né gli dispiacerebbe provare il menu gourmand di sette portate del ristorante che gli ha consigliato il collega, si sente invece in dovere di serrare i ranghi e proseguire il ruolino di marcia, che include una sveglia alle sette per vedere la luce dell’alba filtrare dalle vetrate della cattedrale e finisce alle undici di sera con il concerto di musica gregoriana eseguito da musicisti coreani nella stessa cattedrale, a quell’ora piuttosto buia e pure un po’ freddina.
Si sente in dovere di fare tutto questo non perché ne abbia voglia, né perché lo imbarazzi al rientro dover dire di non aver visto i luoghi deputati (a questo è facile porre rimedio: basta leggiucchiare una guida e prepararsi una piccola lista di aggettivi, tipo ‘particolare’ o ‘curioso’, giusto per dare l’impressione di possedere una certa indipendenza di giudizio. Tanto nessuno ricorda mai cosa ha visto). No, lui lo fa perché, da che mondo è mondo, anzi, da che viaggio è viaggio, le coppie, anche le piú affiatate, sviluppano in trasferta una preoccupante predisposizione a polemizzare, specialmente sulle cose meno importanti. E, soprattutto, sembrano mettercela tutta per interpretare al meglio i rispettivi ruoli, quello del maschio e quello della femmina. Per cui, ad esempio, quand’anche lei fosse sommelier o pilota di formula uno, sarà sempre e comunque lui a scegliere il vino e guidare l’auto, cosí come, se lui è stilista di professione, è scontato che sarà lei quella che perderà tempo davanti alle vetrine. È una delle tante cose poco intelligenti che capita di fare quando si fanno vacanze intelligenti.
Dunque, se tenete alla solidità della coppia, o anche solo al quieto vivere, evitate le città, che saranno pure città d’arte ma sono anche città tout court, e dunque pullulano di tentazioni. Meglio andare sul sicuro e scegliere mete meno pericolose, ovvero posti in cui non c’è nulla da fare se non cose intelligenti. Ad esempio, per contemplare la valle dei Templi ad Agrigento basta voltare le spalle ad Agrigento, e se avete avuto l’accortezza di andarci in inverno non vi verrà neppure la voglia di trasferirvi su una spiaggia ad abbronzarvi, con tanto di riserve d’intelligenza accumulate con fatica che si squagliano sotto il sole. Anche il Guggenheim di Bilbao può essere una buona destinazione: è quello che si dice una cattedrale nel deserto, dunque rappresenta una meta perfetta, visto che intorno c’è, appunto, il deserto (per la verità l’edificio è davvero bello, ma è costruito in un luogo in cui ci si aspetterebbe di trovare un outlet e, considerato quello che ci sta dentro, un po’ gli assomiglia, a un outlet dell’arte contemporanea).
Se invece avete piú tempo e piú fantasia, potete anche costruirvi un itinerario su misura. Ad esempio potreste visitare tutti gli acronimi a forma di museo d’arte contemporanea sparsi per il mondo: dal MOMA di New York al MOCA di Los Angeles, ai FRAC francesi fino ai nostri MART, MAMBO, GAM, PAC, MADRE, MACRO… Personalmente, ho un debole per la GNAM (che sta per Galleria Nazionale d’Arte Moderna, ed è a Roma), perché, come s’intuisce dal nome, disp...