1. 1973.
In cima a una collina, qualche chilometro a est di Gerusalemme, Hanan Cohen vide la polvere alzarsi in lontananza e capà che era scoppiata una guerra. Le strade rimangono vuote nel giorno dell’Espiazione, e la nube sollevata da un convoglio che filava a tutta velocità verso il deserto poteva significare soltanto una cosa. Hanan alzò una mano per ripararsi gli occhi dal sole, sperando di vedere meglio. In quella posizione, con la barba mossa dal vento, la lunga tunica bianca e il tallit sulle spalle, sembrava – immobile fra quelle colline antiche – un uomo fuori dal tempo.
Fece ritorno alla sua baracca, un’unica stanza in cui viveva con la moglie e i tre figli adolescenti. Si svestÃ, indossò l’uniforme e prese il fucile, in modo che fosse chiaro a tutti che cosa aveva visto.
I ragazzi dissero: – Veniamo anche noi. Troveremo un modo per dare una mano.
– Rimanete con vostra madre, – disse Hanan.
E Rena, che non intendeva lasciare quella decisione al marito, disse: – Andate in città con vostro padre, e cercate un modo per rendervi utili al paese in questo momento di necessità .
Hanan fece un cenno d’assenso. E insieme ai suoi tre figli si incamminò verso la guerra.
Quella notte Rena non chiuse occhio, preoccupata com’era per il marito e i figli. La preoccupazione era aggravata dal fatto di trovarsi in quel luogo sconosciuto e primitivo. Costruita al centro di un uliveto, la baracca era priva di acqua corrente ed elettricità . I segnali radio che non venivano inghiottiti dalle montagne circostanti erano bloccati dagli alberi. Una casa rurale come quella non era raggiunta dalle linee telefoniche.
Quando interruppe il digiuno, dopo il tramonto, Rena pensò di scendere giú nella valletta e risalire la collina di fronte. Perché su quella piccola cima sorgeva un’altra baracca, che ospitava un’altra famiglia. Gli unici ebrei nel raggio di chilometri. Là dentro viveva una coppia di coniugi con la loro neonata. Il marito, Skote, era un amico di Hanan; insieme avevano concepito l’idea, comprato la terra e deciso di colonizzare quella zona della Samaria, con l’intenzione di far sorgere dalle loro due famiglie una città grande e potente.
Rena immaginava che anche Skote avesse visto il polverone. E che, quando lui era partito per andare a combattere, Yehudit avesse preso la piccola e seguito saggiamente il marito fino alla strada piú vicina. Rena sperava sinceramente che fosse andata cosÃ. Anche nei momenti migliori, quello non era un posto sicuro dove rimanere soli. Nella baracca c’era un walkie-talkie, e Rena chiamò Yehudit, ma sui vari canali non si sentiva niente, solo sprazzi interrotti, come lampi, di chiacchiere passeggere. Rena decise di non attraversare la valletta. Non voleva ritrovarsi sola sulla sommità della collina opposta, per poi dover tornare indietro nell’oscurità .
Si sedette con la schiena appoggiata alla porta e gli occhi fissi sulla finestra. Recitò i salmi con il fucile in grembo, attenta a qualunque movimento sul versante della collina. Rimase cosà fino al mattino, continuamente spaventata dal fruscio delle foglie sui rami rigidi. E terrorizzata, a maggior ragione, da ciò che non poteva vedere, dal cerchio sempre piú ampio della frontiera nascosto dall’albero davanti alla finestra.
Dopo essersi lavata le mani e aver recitato le preghiere, Rena uscà con l’accetta per valutare la portata dell’impresa. Era l’albero piú grosso dell’uliveto, con un diametro di quattro metri buoni. Alzò lo sguardo verso la chioma e capà che poteva sconfiggerlo. Perché l’albero, come gli uomini di quel paese, era molto piú basso di quanto lasciasse presagire la sua robustezza. Rena si sputò sulle mani. Raccolse l’accetta e colpà la base nodosa con tutta la sua forza. Continuò a vibrare colpi, senza fare grandi progressi. Quando non ce la faceva piú, quando era troppo esausta per menare altri fendenti a quel tronco caparbio, guardava oltre l’albero e il margine della collina, verso il paesino arabo sottostante. E poi ricominciava.
Vedendo quella bella donna, madre di tre figli, che lavorava con i capelli raccolti in un foulard, dominando la splendida collina in mezzo a un mare di colline, in una giornata cosà limpida che si poteva distinguere chiaramente il profilo violetto delle montagne di Moab, nessuno avrebbe colto la gravità del momento. O almeno l’avrebbe colta solo quando Rena, che ogni tanto lanciava un’occhiata verso l’orlo del pendio roccioso, scorse un ragazzo magro che risaliva i terrazzamenti antichi e malandati, e allora piantò l’accetta nel terreno e raccolse il fucile.
Rena mise un colpo in canna. Appoggiò il calcio contro la spalla e prese di mira il ragazzo che risaliva zigzagando la collina. Quando fu cosà vicino che avrebbe potuto scegliere se sparargli al cuore o spingerlo giú con la canna del fucile, il ragazzo disse, in arabo: – Smetti di tagliare il mio albero.
Rena non sapeva l’arabo, oppure non intendeva rispondere. E cosà il ragazzo ripeté la frase in ebraico.
Di nuovo, fu come se non avesse parlato. A quel punto, quasi fosse lei ad avviare la conversazione, Rena disse: – Chi sei?
– Sono il tuo vicino, – rispose il ragazzo, – abito ai piedi della collina.
– E allora restaci, – disse Rena.
– Ci sarei restato, – disse lui. – Ma ho guardato su e ho visto che stavi facendo una cosa che non si può disfare.
– Questo albero è mio, cresce sulla mia terra, nel mio paese. È mio e lo taglio quando mi pare.
– Se fosse tuo, ti avrei vista al mio fianco l’anno scorso, durante il raccolto. Ti avrei vista l’anno prima, e dieci anni prima, e cento.
– Tu non eri nato, cent’anni fa. E comunque, – disse Rena, – non sei risalito abbastanza indietro. Il patto su questa terra è molto antico.
– Una pretesa mitica, priva di senso come quella che stai avanzando ora.
Il ragazzo tacque, mentre sopra di loro passava l’ombra di uno stormo di caccia. Poi aspettò ancora un momento, perché sapeva che lo avrebbe seguito lo schianto del cielo squarciato.
– Vedrai, – le disse. – Il tribunale ebraico ci restituirà la collina. E comunque sembra che non sarà un giudice a decidere, ma la guerra. Domani, direi, dopodomani al massimo, questo albero sarà in Giordania, in Egitto, oppure, se Dio vuole, a casa sua, in Palestina.
– Prima di domani, – disse Rena, – sarà ai piedi della collina. E allora potrai portarlo dove ti pare, insieme alla tua famiglia.
Il ragazzo si rabbuiò come se fosse passato un altro aereo, anche se in realtà il cielo era sgombro.
– Se troverò un solo ramo di questo ulivo ai piedi della collina, – disse, alzando un dito, – pianterò te al suo posto, con le mie stesse mani. Un altro colpo d’accetta, ti dico, e una maledizione ricadrà sulla tua testa… sulla tua casa.
– Hai un bel fegato, per essere un ragazzino con un fucile puntato al cuore.
– Se fossi una colona che spara senza motivo mi avresti già sparato.
Detto questo, si girò e ridiscese la collina. Era arrivato a metà strada quando Rena lo chiamò, suo malgrado. – Ragazzo, – gridò. – Cugino! Stiamo davvero perdendo la guerra?
Rena si accanà contro l’albero per tutta la mattina. A ogni colpo pensava alla maledizione del ragazzo, alla sua minaccia, e si chiedeva se quella sera sarebbe davvero venuto a cercarla, se mai fosse riuscita ad abbattere l’ulivo. Ma l’albero era di legno solido e compatto. E la sua accetta aveva la lama smussata. E per quanto Rena fosse forte, le sue braccia avevano bisogno di irrobustirsi, o almeno di riposare per una notte, per poter finire il lavoro. Quando capà che non ci sarebbe riuscita, tornò nella baracca. Mise via la tazza e il piatto e rovesciò il tavolo su un lato. Poi lo spinse contro la finestra, per bloccarla, e girò la sedia verso il lato opposto della stanza. Si sedette di spalle alla finestra, con il fucile in grembo e lo sguardo fisso davanti a sé, su quella porta cosà fragile che al calar della notte la luce delle stelle trapelava dalle fessure.
Nel cuore di quella notte sentà bussare alla porta, ed ebbe la certezza che il ragazzo fosse venuto a vendicarsi. Rena, la mente annebbiata dal sonno, si alzò immediatamente e imbracciò il fucile, pronta a sparare, e mentre tirava il grilletto, spinta dalla paura, si ricordò in ritardo che potevano essere suo marito o i suoi figli. In quel medesimo istante, un istante troppo breve per suddividerlo in frazioni, alzò la canna del fucile e sparò a una tegola del tetto.
Rena sentà la sua vicina Yehudit urlare al di là della porta. Corse ad aprire, recitando una decina di preghiere contemporaneamente per ringraziare di non aver ucciso l’amica. Quando Yehudit e la sua bambina furono al sicuro dentro la baracca, Rena richiuse la porta con il chiavistello, alzò la fiamma della lampada a forma di alveare e l’avvicinò alla donna davanti a sé. E allora vide che la bambina non stava dritta fra le sue braccia. Da come Yehudit la teneva, Rena pensò che fosse già morta.
– È… – disse.
– Malata, – rispose Yehudit. – Ha la febbre altissima. Ho provato tutti i rimedi, recitato tutte le preghiere –. E poi, in preda al panico, disse: – Perché siamo venuti qui? Chi ha detto che tocca a noi ricostruire questa nazione? Due famiglie sole in mezzo agli ulivi e ai nemici. L’avevo detto a Skote, prima di tutto questo: «E se capitasse un’emergenza mentre siamo qui, tagliati fuori, senza telefono, senza strade, circondati dalle colline? E se succedesse qualcosa dopo la nascita del bambino?»
– Vuoi che venga giú con te? – disse Rena, cercando un orologio. – Arriveremo al crocevia prima che sorga il sole.
– È troppo lontano, troppo pericoloso. E lo vedi anche tu, il destino di questa bambina si deciderà stanotte.
– Dammela, – disse Rena. Prese in braccio la piccola, che scottava come un tizzone ardente. Le labbra screpolatissime si spellavano come cartapecora, gli occhietti la guardavano asciutti e vuoti. Rena pensò che fosse impossibile salvarla. La restituà alla madre e prese la coperta che teneva piegata sulla branda.
– Cosa fai? – disse Yehudit.
– Ti preparo un giaciglio, cosà posso occuparmi della piccola mentre tu dormi. Questa notte la veglieremo a turno.
– Non sono venuta a cercare compagnia. Non ho intenzione di restare.
– Be’, cosa posso fare che non hai già fatto tu?
– Puoi comprare la bambina.
– Cosa? – disse Rena.
– Come si faceva nel vecchio continente: per ingannare il destino. È cosà che mia nonna fu salvata dall’Angelo della Morte.
– Reciterò i salmi con te fino a consumare le pagine, – disse Rena, – ma la superstizione, la magia?
Yehudit posò una mano sulla nuca della bambina e scostò la spalla su cui la teneva appoggiata, come se Rena potesse essere la Morte sotto mentite spoglie.
– Ma non vedi? – disse. – Perché altrimenti Dio avrebbe chiamato mio marito a combattere nel giorno di Yom Kippur? Per poi entrare in casa mia e riprendersi la benedizione che mi ha appena mandato? E questo dopo che ho abbandonato la mia famiglia. Dopo che mi sono trasferita in cima a una collina sperduta, dopo che ho sacrificato la mia felicità per ricostituire Israele. No, qui è stato commesso un peccato. Ci dev’essere una colpa di cui sono ignara. Ma è la mia colpa. Questa bambina, sola in questo luogo sperduto, è del tutto innocente.
– E tu pensi che basti venderla per guarirla da questo febbrone?
– Se non fosse piú mia figlia, – disse Yehudit, – se mi curassi cosà poco di lei da arrivare a venderla per un’inezia. Se appartenesse sul serio a un’altra madre, magari quelle forze che la vogliono deciderebbero che non ne vale la pena. E se davvero non fosse piú mia figlia, – aggiunse, riconoscendo la nube scura che incombeva sopra di lei, – forse il destino non saprà neppure dove guardare.
Rena fece un cenno d’assenso. Rovistò dentro una cassetta della frutta piena di libri, cercando quello che lei e Hanan usavano come nascondiglio per i soldi. Tirò fuori un fascio di banconote e lo offrà a Yehudit, che ne sfilò una da sopra, senza valore. – Shtei prutot1, – disse Yehudit. – Non accetterò piú soldi per lei di quanti ne accetterei per una pagnotta –. Poi restituà la banconota a Rena e si raddrizzò, preparandosi allo scambio.
– Dichiaro questa bambina figlia di questa casa, – disse Yehudit. – Rinuncio a ogni diritto su di lei –. Passò la piccola febbricitante a Rena e le tolse di mano la banconota. – Ti chiedo solo – aggiunse – di prendere in considerazione un’umile richiesta.
– S� – disse Rena, con gli occhi lucidi per la gravità di quello scambio.
– Nel rendere vincolante questo accordo, vorrei liberarti dall’impegno di crescere tua figlia finché non sarà donna. Mi prenderò cura di lei come se fossi sua madre, anche se non lo sono. La crescerò con amore e le insegnerò le usanze di Israele, e anteporrò la sua vita alla mia, se me ne concederai il diritto. Accetti queste condizioni?
– No, – disse Rena. Un’espressione di terrore si dipinse sul volto di Yehudit. – Ti concederò in prestito mia figlia fino a quando sarà cresciuta, – proseguà Rena, – ma solo se stanotte dormirete qui. Mia figlia non può andarsene in questo stato, in una notte cosà buia e fredda.
– Certo, certo, – disse Yehudit, facendo un passo avanti. – I patti sono patti –. E a questo punto abbracci...