
- 568 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Lo spettro
Informazioni su questo libro
Sono passati tre anni da quando Harry Hole è andato via. Via da Oslo, via dalla polizia, via dalla donna che amava. Ma ora ha un valido motivo per tornare: Oleg, il ragazzo che ha cresciuto come un figlio, è in carcere, con l'accusa di aver ucciso il suo migliore amico. Secondo gli investigatori è un regolamento di conti nel mondo della droga, ma Hole non ci crede. E per dimostrare l'innocenza del ragazzo deve lottare contro il tempo, in cerca di una verità diversa da quella già decretata. Una verità che si nasconde nelle maglie dei sentimenti piú profondi e nei quartieri dello spaccio, con l'ombra di un nemico inafferrabile che lo vuole morto.
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Informazioni
Parte prima
I.
Le strida la chiamavano. Come lance sonore penetravano tutti gli altri suoni serali del centro di Oslo: il ronzio ininterrotto delle auto fuori della finestra, la sirena lontana che aumentava e diminuiva di intensità, le campane che avevano appena cominciato a rintoccare nelle vicinanze. Proprio a quell’ora, verso sera, ed eventualmente poco prima dell’alba, usciva in cerca di cibo. Passò il naso sopra il linoleum sudicio della cucina. Rilevava gli odori e con velocità fulminea li suddivideva in tre categorie: commestibile, minaccioso o irrilevante per la sopravvivenza. L’odore acre della cenere grigia di tabacco. Il dolce sapore zuccherino del sangue su un batuffolo di ovatta. Il puzzo amaro di birra sul tappo di una bottiglia di Ringnes. Molecole gassose di zolfo, salnitro e biossido di carbonio fuoriuscite da un bossolo vuoto fatto per contenere un proiettile nove per diciotto millimetri, detto anche semplicemente Makarov, dalla pistola per la quale il calibro era stato realizzato in origine. Il fumo di un mozzicone di sigaretta ancora acceso con il filtro dorato e la carta nera con sopra impressa l’aquila dello stemma russo. Il tabacco era commestibile. E poi: un’esalazione di alcol misto a cuoio, grasso e asfalto. Una scarpa. L’annusò. E concluse che sarebbe stato piú facile mangiare il giubbotto nell’armadio, quello che puzzava di benzina e dell’animale decomposto con cui era fatto. Quindi il cervello da roditore si concentrò su come forzare l’ostacolo che aveva di fronte. Aveva provato su entrambi i lati, tentato di far passare a forza i venticinque centimetri e il mezzo chilo scarso del suo corpo, ma invano. L’ostacolo giaceva sul fianco con la schiena contro il muro e ostruiva il buco d’accesso alla tana e agli otto piccoli appena nati, ciechi e nudi, che invocavano le sue mammelle a voce sempre piú alta. La montagna di carne sapeva di sale, sudore e sangue. Era un essere umano. Un essere umano ancora vivo: con le orecchie sensibili riusciva a cogliere i deboli battiti del cuore in mezzo agli strilli affamati dei piccoli.
Era terrorizzata, ma non aveva scelta. Allattare i piccoli era piú importante di ogni pericolo, di ogni sforzo e di ogni altro istinto. Perciò rimase immobile con il naso in aria in attesa che le si rivelasse la soluzione.
Ormai le campane suonavano a tempo con il cuore umano. Un rintocco, due. Tre, quattro…
Snudò i denti da roditore.
Luglio. Cazzo. Non si può morire in luglio. Sono veramente campane quelle che sento, oppure c’era un allucinogeno in quei maledetti proiettili? Okay, allora finisce qui. Del resto, chi se ne frega? Qua o là. Ora o piú tardi. Ma mi merito veramente di morire in luglio? Con il canto degli uccelli, il tintinnio di bottiglie, le risate che salgono su dal fiume, l’Akerselva, e un’allegria estiva del cazzo proprio qui fuori della finestra? Mi merito di stare sdraiato sul pavimento di un sudicio covo di tossici, con in corpo un buco di troppo che è un fiotto continuo di vita, secondi e flashback di tutte le cose che mi hanno portato fin qui? Tutte le cose grandi e piccole, la serie infinita di coincidenze e di scelte poco convinte: sono davvero io? È tutto qui? È questa la mia vita? Avevo dei progetti, non è vero? E adesso non sono che un sacco di polvere, una barzelletta senza la battuta finale, talmente corta che riuscirei a raccontarla prima che le campane finiscano di suonare. Ah, lanciafiamme di merda! Nessuno mi aveva detto che è cosí difficile morire! Ci sei, papà? Non svignartela, non ancora. Ascolta, ecco la barzelletta: mi chiamo Gusto. Sono arrivato a diciannove anni. Tu eri un poco di buono che si era scopato una poco di buono e nove mesi dopo nacqui io e venni spedito in una famiglia affidataria prima ancora che imparassi a dire «papà»! E là combinavo quanti piú casini possibili, ma loro non facevano altro che stringermi ancora di piú nella soffocante coperta della premura e chiedermi cosa volessi per darmi una calmata. Uno stramaledetto gelato? Non capivano mica che a quelli come te e me bisogna sparargli subito, eliminarli come animali nocivi, perché spargiamo il contagio e il degrado e ci riproduciamo come ratti non appena ci si presenta l’occasione. Devono ringraziare solo se stessi. Però pretendono anche. Tutti vogliono qualcosa. Avevo tredici anni quando per la prima volta lessi nello sguardo della mia madre affidataria cosa voleva.
«Sei bellissimo, Gusto», mi disse. Era entrata in bagno dopo che avevo lasciato la porta aperta ed evitato di aprire la doccia per non avvertirla della mia presenza. Esitò esattamente un secondo di troppo prima di uscire. E io scoppiai a ridere, perché ormai lo sapevo. Ecco, questo è il mio talento, papà: riesco a capire cosa vuole la gente. Ho preso da te? Eri anche tu cosí? Dopo che fu uscita mi guardai nel grande specchio. Me lo aveva già detto, che ero bello. Mi ero sviluppato prima degli altri ragazzini. Alto, magro, muscoloso e con le spalle larghe. I capelli talmente neri che brillavano, come se tutta la luce vi si riflettesse. Zigomi pronunciati. Mento forte e dritto. Una bocca grande e avida, labbra carnose come quelle di una ragazza. La pelle scura e liscia. Occhi castano scuri, quasi neri. «Ratto marrone» mi aveva soprannominato uno dei miei compagni di classe. Didrik, si chiamava cosí? Comunque, da grande voleva fare il pianista concertista. Io avevo compiuto quindici anni e lui disse ad alta voce in classe: «Per la miseria, il ratto marrone non sa nemmeno leggere».
Io mi limitai a ridere, e naturalmente sapevo perché lo aveva detto. Sapevo cosa voleva. Kamilla, di cui era segretamente innamorato, era meno segretamente innamorata di me. Alla festa di classe avevo dato una tastata a quello che nascondeva sotto la maglietta. Niente di che. Ne avevo accennato a un paio di ragazzi e poi probabilmente Didrik lo era venuto a sapere, e aveva deciso di escludermi. Non che ci tenga tanto a essere incluso, ma un’espulsione è un’espulsione. E allora andai da Tutu al club dei biker. Avevo già spacciato un po’ di hashish per loro a scuola, e gli spiegai che se volevo lavorare bene la gente mi doveva rispettare. Tutu mi disse che avrebbe pensato lui a Didrik. Dopo, Didrik si rifiutò di spiegare come avesse fatto a rimanere con due dita incastrate proprio sotto il cardine superiore della porta dei gabinetti dei ragazzi, però non mi chiamò piú ratto marrone. E – in effetti – non divenne neanche mai un pianista concertista. Cazzo, che male! No, non ho bisogno di essere consolato, papà, ho bisogno di una pera. Solo un’ultima pera, poi lascerò questo mondo zitto zitto, lo prometto. È suonata di nuovo l’ora. Papà?
II.
Era quasi mezzanotte a Gardermoen, l’aeroporto di Oslo, quando il volo SK-459 in arrivo da Bangkok si immise nel posto assegnato davanti al gate 46. Il primo pilota Tord Schultz frenò finché l’Airbus 340 si fermò completamente e interruppe di colpo l’alimentazione del carburante. La frequenza del sibilo metallico dei motori a reazione si ridusse a un sommesso ronzio per poi cessare del tutto. Tord Schultz si annotò mentalmente l’ora: tre minuti e quaranta secondi dall’atterraggio, dodici minuti di anticipo. Insieme al secondo pilota compilò la shutdown checklist e la parking checklist, dal momento che il velivolo doveva restare parcheggiato durante la notte. Con tutto l’armamentario. Sfogliò la cartella che conteneva il giornale di bordo. 20 settembre… A Bangkok era ancora la stagione delle piogge e lui, trovando la solita afa appiccicosa, era stato impaziente di tornare a casa, alle prime fresche sere d’autunno. Oslo in settembre. Non c’era posto piú bello sulla terra. Compilò la rubrica del carburante avanzato. Il rendiconto del carburante. Gli era capitato di doverne rispondere. Di ritorno da Amsterdam o Madrid con voli in cui aveva superato la velocità economicamente razionale, bruciando migliaia di corone di carburante per arrivare in tempo. Alla fine il capo dei piloti lo aveva convocato nel suo ufficio.
– Arrivare in tempo per cosa? – aveva sbraitato. – Non avevi nessun passeggero che doveva prendere una coincidenza!
– La compagnia aerea piú puntuale del mondo, – aveva mormorato Tord Schultz citando la pubblicità.
– La compagnia aerea piú economicamente fottuta del mondo! È tutta qui la tua spiegazione?
Tord Schultz si era stretto nelle spalle. Non poteva dire come stavano le cose, ossia che aveva spalancato le cataratte del carburante perché doveva arrivare in tempo. Al volo che gli era stato assegnato per Bergen, Trondheim o Stavanger. Un volo che doveva assolutamente fare lui e nessun altro collega.
Era troppo vecchio per subire qualcosa di piú che una sfuriata. Aveva evitato di commettere errori gravi, il sindacato lo difendeva e gli mancavano pochi anni per compiere the two fives, i cinquantacinque, quando sarebbe comunque andato in pensione. Tord Schultz sospirò. Qualche anno per aggiustare le cose, per evitare di finire come il pilota piú economicamente fottuto del mondo. Firmò il registro di volo, si alzò e uscí dalla cabina di pilotaggio per mostrare ai passeggeri la sua filza di denti bianco perla da pilota nel viso abbronzato da pilota. Il sorriso con cui comunicava che era Mister Sicurezza in persona. Pilota. La qualifica che una volta lo rendeva qualcuno agli occhi degli altri. Allora notava spesso che le persone, uomini e donne, vecchi e giovani, nello stesso istante in cui pronunciava la parola magica «pilota», automaticamente lo guardavano in modo diverso scoprendo il carisma, il fascino disinvolto da ragazzino ma anche la fredda, precisa efficienza del comandante, l’intelletto superiore e il coraggio che sfidava le leggi della fisica e le paure innate della gente comune. Ma era stato molto tempo prima. Adesso lo vedevano come l’autista che era e gli domandavano quanto costassero i biglietti piú economici per Las Palmas e perché sui voli Lufthansa ci fosse piú spazio per le gambe.
Che andassero a quel paese. Che andassero a quel paese tutti quanti.
Tord Schultz si mise in posizione vicino all’uscita accanto alle hostess, si raddrizzò e sorrise, pronunciò il suo Welcome back, Miss con il marcato accento americano-texano che avevano imparato alla scuola per piloti di Sheppard. In risposta ricevette un sorriso riconoscente. C’erano stati tempi in cui sarebbe riuscito a procurarsi un mezzo appuntamento nel terminal degli arrivi con un sorriso come il suo. E lo aveva anche fatto. Da Cape Town ad Alta. Ed era quello il problema. E la soluzione. Le donne. Piú donne. Nuove donne. E ora? La stempiatura avanzava sotto il berretto, però la divisa sartoriale metteva in risalto la figura slanciata e le spalle larghe. Lui aveva dato la colpa proprio all’altezza quando non era stato ammesso al corso riservato ai caccia alla scuola di volo ed era finito come pilota di cargo sugli Hercules, i cavalli da soma del cielo. A casa aveva detto di avere la schiena lunga due centimetri di troppo, che le cabine di pilotaggio degli Starfighter, gli F-5 e gli F-16, escludevano chiunque non fosse un nano. La verità era che non aveva superato il concorso. Il suo fisico rispondeva ai requisiti. Come sempre. Il fisico era l’unica cosa che fosse riuscito a mantenere in forma da ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Lo spettro
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Parte quarta
- Parte quinta
- Fonti, aiuti e ringraziamenti
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright