Domani nella battaglia pensa a me
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Domani nella battaglia pensa a me

  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Domani nella battaglia pensa a me

Informazioni su questo libro

Tutto comincia all'improvviso. In un appartamento di Madrid, Marta invita a cena Víctor. Il marito Eduardo è a Londra per lavoro, il figlio finalmente dorme. I due, che si conoscono appena, si baciano, hanno davanti un'intera notte. Ma a un tratto, Marta si sente male. Muore in pochi minuti. Cosa fare? Nulla potrebbe essere piú paurosamente casuale di quell'evento. Victor rimane impigliato nei fili misteriosi della vita della sua non-amante e ne insegue come in un labirinto i segreti, fino a scoprire a poco a poco situazioni incredibili e personaggi sfuggenti. Nessuno è quello che sembra, fantasmi e chimere hanno piú consistenza delle persone in carne e ossa (il titolo del libro è tratto dal Riccardo III di Shakespeare). Marías è bravo a disseminare la vicenda di indizi e dettagli come in un giallo e mostrarci l'altra metà della vita, quella nascosta e dissimulata. Raccontandoci l'inganno e svelandone la macchina che esso mette inevitabilmente in moto, Domani nella battaglia pensa a me racconta l'illusoria realtà in cui siamo sprofondati.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806154004
eBook ISBN
9788858408308
Argomento
Literature

Javier Marías

Domani nella battaglia pensa a me

Traduzione di Glauco Felici

Einaudi
Per Mercedes López-Ballesteros,
che mi ha sentito dire la frase di Bakio
e ha conservato per me le mie righe.
Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai piú il viso di cui ricorda il nome. Nessuno pensa mai che qualcuno possa morire nel momento piú inopportuno anche se questo capita di continuo, e crediamo che nessuno se non chi sia previsto dovrà morire accanto a noi. Molte volte si nascondono i fatti o le circostanze: i vivi e quello che muore – se ha il tempo di accorgersene – spesso provano vergogna per la forma della morte possibile e per le sue apparenze, e anche per la causa. Una indigestione di frutti di mare, una sigaretta accesa quando si sta per prendere sonno che dà fuoco alle lenzuola, o anche peggio, alla lana di una coperta; uno scivolone nella doccia – la nuca – e la porta del bagno chiusa a chiave, un fulmine divide in due un albero in un grande viale e quell’albero cadendo schiaccia o stacca la testa di un passante, forse uno straniero; morire con indosso soltanto i pedalini, o dal barbiere con un grande bavaglino, al postribolo o dal dentista; o mangiando il pesce e trafitto da una spina, morire strozzandosi come il bambino la cui madre non è lí a infilargli un dito in gola per salvarlo; morire rasati a metà, con una guancia coperta di schiuma e la barba diseguale fino alla fine dei tempi se nessuno rimedia e per pietà estetica non conclude il lavoro; per non citare i momenti piú ignobili dell’esistenza, i piú nascosti, di cui non si parla mai se non durante l’adolescenza perché al di fuori di questa non ce n’è il pretesto, anche se c’è chi poi li sbandiera per apparire arguto senza riuscirci mai. Ma quella è una morte orrenda, si dice di certe morti; ma quella è una morte ridicola, si dice anche, sghignazzando. Lo sghignazzo viene fuori perché si parla di un nemico finalmente estinto o di qualcuno distante, qualcuno che ci ha fatto uno sgarbo o che abita nel passato da molto tempo, un imperatore romano, un trisavolo, oppure qualche potente nella cui morte grottesca si vede soltanto la giustizia ancora vitale, ancora umana, che in fondo desidereremmo per tutti quanti, noi compresi. Come mi rallegro di questa morte, come mi dispiace, come la celebro. A volte per suscitare l’ilarità basta che il morto sia uno sconosciuto, della cui disgrazia inevitabilmente ridicola leggiamo sui giornali, poveretto, si dice in preda alle risate, la morte come rappresentazione o come spettacolo di cui si dà notizia, tutte quante le storie che si raccontano o si leggono o si ascoltano percepite come teatro, c’è sempre un grado di irrealtà in ciò di cui ci informano, come se niente accadesse mai per intero, nemmeno quello che capita a noi e che non dimentichiamo. Nemmeno quello che non dimentichiamo.
C’è un grado di irrealtà in quello che è capitato a me, e oltretutto non è ancora concluso, o forse dovrei usare un altro tempo verbale, quello classico nella nostra lingua quando raccontiamo, e dire quello che capitò a me, sebbene non sia concluso. Forse adesso, a raccontarlo, potrebbe farmi ridere. Ma non credo, perché ancora non è lontano e la mia morta non abita nel passato da molto tempo e non era né potente né nemica, e senza dubbio non posso nemmeno dire che fosse una sconosciuta, anche se sapevo ben poco di lei quando è morta tra le mie braccia – adesso ne so di piú, invece. È stato un caso che non fosse ancora nuda, o non del tutto, eravamo proprio nella fase della svestizione, ci stavamo spogliando l’un l’altra come succede di solito la prima volta che succede, cioè, nelle notti inaugurali che assumono l’apparenza dell’imprevisto, o che si fingono non premeditate per lasciare salvo il pudore e per poter poi avere una sensazione di inevitabilità, e cosí respingere la possibile colpa, la gente crede alla predestinazione e all’intervento del fato, quando le conviene. Come se tutti quanti avessero interesse a dire, se si presenta l’occasione: «Non sono stato io a cercarlo, io non volevo», quando le cose riescono male o si rivelano deprimenti o uno si pente o risulta che ha fatto del male a se stesso. Non sono stato io a cercarlo e nemmeno volevo, dovrei dire adesso che so che lei è morta, e che è morta inopportunamente tra le mie braccia quasi senza conoscermi – immeritatamente, non toccava a me starle accanto. Nessuno mi crederebbe se lo dicessi, e questo tuttavia non importa un granché, visto che sono io che sto raccontando, e mi si sta a sentire o non mi si sta a sentire, questo è tutto. Non sono stato io a cercarlo, io non volevo, dico perciò adesso, e lei non può piú dire altrettanto né nient’altro né smentirmi, l’ultima cosa che ha detto è stato: «Dio mio, e il bambino». La prima cosa che aveva detto era stato: «Non mi sento bene, non so che mi sta succedendo». Intendo dire la prima cosa dopo che s’era interrotta la fase della svestizione, eravamo già arrivati in camera da letto ed eravamo sdraiati, mezzo vestiti e mezzo spogliati. All’improvviso si è tirata indietro e mi ha toccato le labbra come se non volesse smettere di baciarmele senza il passaggio di un altro affetto e di un altro tatto, e mi ha scostato delicatamente con il dorso della mano e si è messa giú di fianco, voltandomi le spalle, e quando le ho domandato: «Che cosa c’è?», mi ha risposto cosí: «Non mi sento bene, non so che mi sta succedendo». Ho visto allora la sua nuca che non avevo mai visto, con i capelli un po’ sollevati e un po’ arruffati e un po’ sudati, e non faceva caldo, una nuca ottocentesca lungo la quale correvano striature o fili di capelli neri e appiccicati, come sangue non ancora secco, o fango, come la nuca di qualcuno che è scivolato nella doccia e non ha avuto tempo di chiudere il rubinetto. Tutto è successo molto in fretta e non c’è stato il tempo per poter fare niente. Per telefonare a un medico (ma quale medico alle tre del mattino, i medici ormai non vanno per le case nemmeno all’ora di pranzo), per avvisare un vicino (ma quale vicino, io non li conoscevo, non ero a casa mia e non ero mai stato in quella casa in cui mi ero trovato a essere ospite e poi intruso, nemmeno in quella strada, poche volte nel quartiere, molto tempo prima), per telefonare al marito (ma come avrei potuto telefonare al marito, che oltretutto era in viaggio, e nemmeno conoscevo il suo nome per intero), per svegliare il bambino (e perché mai avrei dovuto svegliare il bambino, con tutto quello che c’era voluto per farlo addormentare), per cercare di aiutarla io stesso, si è sentita male all’improvviso, dapprima ho pensato o abbiamo pensato che le avesse fatto male la cena con tutte quelle interruzioni, o ho pensato io solo che forse si era depressa o si stava pentendo o che aveva avuto paura, queste tre cose assumono spesso l’aspetto del malessere e della malattia, la paura e la depressione e il pentimento, soprattutto se quest’ultimo compare contemporaneamente alle azioni che lo provocano, tutto insieme, un sí e un no e un forse e intanto tutto è proseguito o è passato, la sventura di non sapere di dover agire perché bisogna dare un contenuto al tempo che preme e continua a scorrere senza aspettarci, andiamo piú lenti: decidere senza sapere, agire senza sapere e perciò prevedendo, la piú grave e la piú comune disgrazia, prevedendo quello che viene dopo, percepita normalmente come disgrazia minore, ma percepita da tutti giorno per giorno. Qualcosa a cui ci si abitua, non ci badiamo molto. Si è sentita male e non oso nominarla, Marta, questo era il suo nome, Téllez il cognome, ha detto che sentiva nausea, e io le ho domandato: «Ma che genere di nausea, di stomaco o di testa?» «Non lo so, una nausea tremenda, di tutto, di tutto il corpo, mi sento morire». Tutto quel corpo che cominciava a stare nelle mie mani, le mani che vanno dappertutto, le mani che stringono o accarezzano o indagano e anche colpiscono (oh, è stato senza volere, involontariamente, non c’è nemmeno da ricordarlo), gesti a volte meccanici delle mani che vanno esplorando tutto un corpo che non sanno ancora se le asseconda, e all’improvviso quel corpo sente nausea, il piú diffuso dei malesseri, il corpo intero, come ha detto lei, e l’ultima cosa che aveva detto, «mi sento morire», lo aveva detto non letteralmente, ma come una frase fatta. Lei non lo credeva, e io nemmeno, anzi lei aveva detto «non so che mi sta succedendo». Io ho insistito, perché domandare è un modo per evitare di fare, non soltanto domandare ma anche parlare e raccontare evita i baci ed evita i colpi e il prendere decisioni, abbandonare l’attesa, e che cosa avrei potuto fare, soprattutto all’inizio, quando tutto sarebbe dovuto essere transitorio secondo le regole di quello che succede e non succede, che a volte vengono infrante. «Ma hai voglia di vomitare?» Lei non ha risposto con parole, ha fatto un gesto negativo della nuca con il sangue quasi secco o con il fango, come se le costasse sforzo parlare. Mi sono alzato e ho girato attorno al letto e mi sono inginocchiato dalla sua parte per vederle la faccia, le ho messo una mano sull’avambraccio (toccare consola, la mano del medico). Aveva gli occhi chiusi e stretti in quel momento, ciglia lunghe, come se le desse fastidio la luce del lume sul comodino, che ancora non avevamo spento (ma io pensavo di farlo al piú presto, prima della sua indisposizione avevo il dubbio se spegnerla subito o non ancora: volevo vedere, era ancora da vedere quel corpo nuovo che di sicuro mi avrebbe suscitato piacere, non l’avevo spenta). L’ho lasciata accesa, adesso poteva esserci utile in vista del suo improvviso stato, di malattia o di depressione o di paura o di pentimento. «Vuoi che chiami un medico?», e ho pensato alle improbabili urgenze, fantasmagorie della rubrica telefonica. Ha di nuovo fatto cenno di no con la testa. «Dove ti fa male?», ho domandato, e lei ha indicato controvoglia una zona imprecisa che comprendeva il petto e lo stomaco e piú in basso, in realtà tutto il corpo tranne la testa e le estremità. Il suo stomaco era già scoperto e il petto non tanto, aveva ancora indosso (anche se il gancetto era aperto) il reggiseno senza spalline, un residuo dell’estate, come la parte superiore di un bikini, le andava un po’ stretto e forse se l’era messo, ormai un po’ antiquato, perché quella sera mi aspettava e ogni cosa era premeditata contro le apparenze e le casualità laboriosamente architettate che ci avevano condotti fino a quel suo letto matrimoniale (so che alcune donne portano apposta una misura in meno, per metterlo piú in mostra). Io avevo aperto il gancetto, ma l’indumento non era caduto, Marta lo sosteneva ancora con le braccia, o con le ascelle, forse senza volerlo. «Ti passa?» «No, non lo so, credo di no», aveva detto lei, Marta Téllez, con la voce non resa sottile ma deformata dal dolore o dall’angoscia, non so se in realtà sentisse dolore. «Aspetta un momento, quasi non riesco a parlare», ha aggiunto – sentirsi male provoca indolenza –, e tuttavia ha detto qualche altra cosa, non si sentiva abbastanza male per dimenticarsi di me, o era educata in qualunque circostanza e anche se era in punto di morte, nella mia breve frequentazione con lei era sembrata una persona riflessiva (ma allora non sapevamo che stesse morendo): «Poverino, – mi ha detto, – non te l’aspettavi, è una serata orribile». Non mi aspettavo niente, o forse sí, la stessa cosa che si aspettava lei. La serata non era stata orribile fino ad allora, magari soltanto un po’ noiosa, e non ho capito se avesse già indovinato che cosa le stesse per succedere o se si riferisse all’attesa eccessiva causata dal bambino insonne. Mi sono alzato, di nuovo ho girato attorno al letto e mi sono sdraiato sul lato che avevo occupato prima, quello di sinistra, pensando (ho rivisto la sua nuca immobile solcata, rattrappita come avesse freddo): «Forse è meglio aspettare e non domandarle piú niente per un po’, lasciarla tranquilla e stare a vedere che cosa succede, non costringerla a rispondere alle mie domande né a valutare ogni pochi secondi se si sente un po’ meglio o un po’ peggio, pensare alla malattia la rende piú acuta, come pure il tenerla d’occhio troppo strettamente».
Ho guardato le pareti di quella camera da letto che entrando non avevo osservato perché tenevo gli occhi fissi sulla donna prima vivace o timida e adesso malconcia, che mi portava per mano. C’era uno specchio a figura intera davanti al letto, come se fosse una camera d’albergo (una coppia a cui piaceva guardarsi, prima di uscire in strada, prima di andare a dormire). Il resto, invece, era una camera da letto di casa, per due persone, c’erano tracce di un marito sul comodino della mia parte (lei si era lasciata cadere sin dall’inizio verso quella che doveva occupare tutte le notti, qualcosa di indiscutibile e di meccanico, e ogni mattina): una calcolatrice, un tagliacarte, una mascherina da aereo per proteggersi dalla luce dell’oceano, monete, un portacenere sporco e una radiosveglia, sul ripiano inferiore una stecca di sigarette di cui era rimasto soltanto un pacchetto, una bottiglia di colonia molto maschile di Loewe che dovevano avergli regalato, forse la stessa Marta per un compleanno recente, due romanzi a loro volta regalati (o no, ma non avevo l’impressione che li avesse comprati), un tubo di Redoxon effervescente, un bicchiere vuoto che non aveva avuto il tempo di portare di là prima di partire, l’inserto di una rivista con i programmi della televisione, che non avrebbe visto, era in viaggio. La televisione si trovava ai piedi del letto, dalla parte dello specchio, persone che amavano le comodità, per un attimo mi è passato per la testa di accenderla con il telecomando, ma era sull’altro comodino, su quello di Marta, e avrei dovuto fare di nuovo il giro del letto o disturbarla con il braccio allungato sopra la sua testa, chissà a che cosa stava pensando, se era depressione o paura ciò che l’aveva assalita. Ho allungato il braccio e ho preso il telecomando, lei non se n’è accorta anche se le ho sfiorato i capelli con la manica rimboccata della camicia. Sulla parete di sinistra c’era la riproduzione di un quadro piuttosto risaputo che conosco bene, Bartolomeo Veneto è il pittore, si trova a Francoforte, raffigura una donna con alloro, cuffia e riccioli sottili attorno al capo, gioiello sulla fronte, un mazzetto di fiorellini ben delineati nella mano sollevata e un seno scoperto (piuttosto piatto); sulla parete di destra c’era un armadio a muro dipinto di bianco, come le pareti. Lí dentro dovevano essere appesi i vestiti che il marito non aveva portato in viaggio, la maggior parte, era un’assenza breve, a Londra, stando a quel che mi aveva detto la moglie Marta durante la cena. C’erano anche due sedie con della biancheria sparpagliata, forse sporca o forse appena lavata e ancora da stirare, la luce del lume di Marta non riusciva a illuminarle bene. Su una di quelle sedie ho visto indumenti da uomo, una giacca appesa sullo schienale come se questo fosse una stampella, dei pantaloni con la cintura ancora infilata, la fibbia spessa (la lampo aperta, come in tutti i pantaloni sfilati), un paio di camicie chiare sbottonate, il marito era stato lí poco tempo prima, la mattina stessa doveva essersi alzato dal cuscino contro cui io adesso stavo appoggiato con la schiena, e doveva aver deciso di cambiare pantaloni, la fretta, può darsi che Marta avesse rifiutato di stirarglieli. Quegli indumenti respiravano ancora. Sull’altra sedia invece c’era biancheria da donna, ho visto delle calze scure e due gonne di Marta Téllez, non erano dello stesso genere di quella che aveva ancora indosso ma erano piú da vestire, forse le aveva provate indecisa fino a un minuto prima che io suonassi alla porta, per gli appuntamenti galanti non si sa mai che vestito scegliere (io non avevo avuto problemi, per quanto mi riguardava non era certo che fosse galante, e il mio guardaroba è monotono). La gonna scelta le si stava stropicciando tutta nella posizione che aveva assunto, Marta stava piegata, ho visto che stringeva i pollici con le altre dita, le gambe contratte come se facessero uno sforzo per calmare con la loro pressione lo stomaco e il petto, come se li volessero frenare, la posizione lasciava le mutande allo scoperto e quelle mutande a loro volta lasciavano scoperte in parte le natiche, erano mutande minuscole. Ho pensato di tirarle in giú la gonna e di abbassarla a causa di una improvvisa pudicizia e perché non le si stropicciasse troppo, ma non potevo evitare che mi piacesse quello che vedevo e che non sapevo se avrei continuato a vedere – anche di piú – se lei non si fosse sentita meglio, e Marta magari si aspettava quello stropicciamento, aveva cominciato ad apparire sulla gonna già da prima, come avviene di solito nelle notti inaugurali, in quelle notti non c’è rispetto per gli indumenti che ci si va togliendo, e nemmeno per quelli che rimangono, mentre lo si ha per il corpo nuovo, sconosciuto: forse per questo non aveva ancora stirato niente di quello che era lí in attesa, perché sapeva che comunque avrebbe dovuto stirare il giorno dopo anche la gonna che quella sera avrebbe indossato, quale tra tutte, quale va meglio, la sera in cui mi avrebbe accolto, tutto quanto si stropiccia o si macchia o viene maltrattato e rimane momentaneamente inutilizzabile in questi casi.
Ho abbassato il volume della televisione con il telecomando prima che cominciasse a funzionare e, come volevo, è comparsa l’immagine senza voce e lei non si è accorta di nulla, anche se la luce nella stanza è aumentata all’improvviso. Sullo schermo c’era Fred MacMurray con i sottotitoli, un vecchio film per un’ora tarda della notte. Ho fatto un giro per i canali e sono tornato a Fred MacMurray in bianco e nero, alla sua faccia poco intelligente. Ed è stato allora che non ho potuto evitare di fermarmi a pensare, anche se nessuno pensa mai troppo né nell’ordine in cui poi i pensieri si raccontano o vengono scritti: «Che ci faccio io qui, – ho pensato. – Sto in una casa che non conosco, nella camera da letto di un individuo che non ho mai visto e del quale conosco soltanto il nome di battesimo, che sua moglie ha citato in modo assolutamente naturale ma insopportabile per tutta la serata. È anche la camera da letto di lei e per questo mi trovo qui, a vegliare il suo malessere dopo averle tolto qualche indumento e dopo averla toccata, lei la conosco, anche se poco e solamente da due settimane, questa è la terza volta che la vedo in vita mia. Il marito ha telefonato un paio di ore fa, quando io già mi trovavo a cena in casa sua, ha telefonato per dire che era arrivato bene a Londra, che aveva cenato magnificamente alla Bombay Brasserie e che si accingeva ad andarsene a letto nella sua camera d’albergo, il mattino dopo lo aspettava il lavoro, sta facendo un breve viaggio di lavoro». E sua moglie, Marta, non gli aveva detto che io ero lí, qui, a cena. Da ciò ho ricavato la quasi certezza che quella era una cena galante, anche se il bambino in quel momento era ancora sveglio. Il marito aveva senza dubbio domandato del bambino, lei aveva risposto che stava per metterlo a dormire; il marito probabilmente aveva detto: «Passamelo, gli do la buonanotte», perché Marta aveva detto: «Meglio di no, è sveglissimo e se parla con te si agita ancora di piú e poi chi lo fa addormentare». Tutto quello era assurdo dal mio punto di vista, perché il bambino, di quasi due anni secondo la madre, parlava in modo rozzo e a malapena comprensibile che Marta doveva interpretare e tradurre, le madri come prime interpreti e traduttrici del mondo, che esplorano e poi esprimono ciò che non è nemmeno lingua, anche i gesti e le smorfie e i diversi significati del pianto, quando il pianto è inarticolato e non equivale alle parole, o le esclude, o le intralcia. Forse anche il padre lo capiva e per questo chiedeva che andasse al telefono, quel bambino che, per aumentare le difficoltà, parlava tutto il tempo con il ciucciotto in bocca. Gli avevo detto, mentre Marta era andata in cucina per qualche minuto e lui e io eravamo rimasti soli nel salotto che era anche stanza da pranzo, io seduto a tavola con il tovagliolo sulle ginocchia, lui sul divano con un coniglietto tra le mani, tutt’e due a guardare la televisione, lui di fronte, io di lato: «Con il ciucciotto non ti capisco». E il bambino se l’era tolto come se obbedisse e, tenendolo per un attimo in una mano con gesto quasi eloquente (nell’altra il coniglietto), aveva ripetuto quel che avevo voluto che dicesse, senza successo anche con la bocca libera. Il fatto che Marta Téllez non avesse lasciato che il bambino parlasse al telefono mi aveva dato ancora maggiore certezza, perché quel bambino, con la sua semilingua intralciata, avrebbe potuto nonostante tutto indicare al padre che lí c’era un uomo che stava cenando. Ho capito dopo un po’ che il bambino pronunciava soltanto le ultime sillabe delle parole che ne avevano piú di due, e anche incomplete («Affi» per baffi, «Atta» per cravatta, «Otto» per ciucciotto e «Etto» per filetto: sullo schermo era apparso un sindaco con dei baffi, io non li ho; Marta aveva preparato per cena del filetto, irlandese, mi aveva precisato); era difficile da decifrare anche sapendo tutto questo, ma magari il padre era abituato, ed era acuito il suo senso interpretativo per la primitiva lingua di un unico parlante che oltretutto l’avrebbe ben presto abbandonata. Il bambino usava ancora pochi verbi e perciò quasi non creava delle frasi, ma pronunciava soprattutto sostantivi, qualche aggettivo, tutto in lui assumeva un tono esclamatorio. Si era costretto a non andare a dormire finché avessimo cenato o non cenato e io aspettavo il ritorno di Marta a tavola dopo le sue puntate in cucina e la sua paziente sollecitudine nei confronti del bambino. La madre gli aveva messo una cassetta di cartoni animati nella televisione del salotto – l’unica per me fino ad allora – sperando che si assopisse con le luci dello schermo. Ma il bambino rimaneva sveglio, aveva rifiutato di andarsene a letto, con la sua disconoscenza o conoscenza precaria del mondo sapeva piú di quel che io sapessi, e sorvegliava sua madre e sorvegliava quell’invitato mai visto prima in quella casa, teneva il posto del padre. Ci sono stati diversi momenti in cui avrei voluto andarmene, ormai mi sentivo piú un intruso che un invitato, sempre piú intruso man mano che acquisivo la certezza che quell’appuntamento era galante e che il bambino lo sapeva in modo intuitivo – come i gatti – e cercava di impedirlo con la propria presenza, morto di sonno e lottando contro quel sonno, seduto docilmente sul divano davanti ai suoi cartoni animati che non capiva, anche se riconosceva i personaggi, perché di tanto in tanto indicava con un dito lo schermo e nonostante il ciucciotto riuscivo a capirlo, perché vedevo quello che lui vedeva: «Tittín!», diceva, oppure: «Tano!», e la madre smetteva un attimo di prestarmi attenzione per prestarla a lui e tradurre o rassicurarlo, affinché nessuna delle sue incipienti e meritorie parole rimanesse senza celebrazione, o senza risonanza: «Sí, quelli sono Tintin e il capitano, tesoro». Io da bambino leggevo Tintin in grandi album, i bambini di adesso lo vedono in movimento e lo sentono parlare con una voce ridicola, per questo non potevo evitare di distrarmi dalla conversazione frammentaria e da quella cena con cosí tanti int...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Domani nella battaglia pensa a me
  3. Epilogo
  4. Nota per appassionati di letteratura
  5. Nota per appassionati di cinema
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright