A tutti i partigiani d’Italia,
morti e vivi
– Tórnaci. Se te la senti, tórnaci. Ma sappi che ogni volta passeranno con camion e mitraglie e cani per quelle colline dove tu sarai, io mi sentirò morire. Ora vai.
Abbraccio mia madre, non stretta, che non senta col petto la pistola che mi sforma una tasca. Scendo nel prestino, lo traverso. Alla porta il fornaio di Bellonuovo mi mette la mano nella mano e in tasca un cotechino incartato. Gli sono grato che non mi parla di rifletterci bene, pesto i piedi per aggiustarli negli scarponi, e vado. È già buio e molto freddo. Non c’è luna, ma spunterà ? Risalgo la provinciale Alba-Acqui per un duecento metri, taglio in un prato in salita e sono sulla stradina di S. Rocco. Là stacco il mio bel passo da campagna; paiono viaggiare con me le colline alla mia destra, che guardano la mia piccola città tenuta da loro. Ci vive la ragazza di cui sono, sarò sempre innamorato. Se ora almeno non fossi innamorato, o se piuttosto quella bellissima mi desse speranze. A non voler staccar gli occhi da quelle colline, mi trovo con un piede sul vuoto del fossato. Mi riporto in metà della strada con uno scossone. Ma l’amore si fa ripensare. Se m’ammazzano, posso sperare che lei senta qualcosa rompersi dentro e venga sú per le colline a cercarmi tra amici e nemici, ululando come una lupa? Mi ritroverà lungo, lunghissimo sopra la neve e mi bacerà tra sangue e gelo. Come cammino forte! Ma sono proprio pazzo di lei se per lei dimentico mia madre. Mia madre a quest’ora s’è congedata con tante grazie dal fornaio che non sa dirle altro che – Signora... signora Rita... – e torna in città per la lunga strada. E in un’ora sarà nella nostra casa in piazza del Duomo, entrerà a guardare il mio letto che chissà quando lo avrà da rifare, poi chiamerà mio padre per dirgli come me ne sono partito. Dopo cena sentiranno tre volte Radio Londra, e se gli alleati non sono avanzati un pochino, li prenderà la disperazione.
Sotto i miei passi rintrona la pedanca di S. Rocco: il villaggio è a ottocento metri, cosà piccolo che di giorno la sola chiesa lo nasconde tutto. Sia a destra che a sinistra, le cascine son molte sull’alture: ma non hanno lumi, non danno suono, come se in ognuna fosse capitata una disgrazia. I cani tacciono da tutti i pagliai.
S. Rocco. Entro nella piazzetta, dove c’è una luce gelosa, appena lÃ. Se non sbaglio, è l’osteria. Mi ci dirigo, prima che tocchi l’uscio, ecco che s’apre e l’oste giovane compare e io dentro non ci vedo.
Dice gravemente: – Tu sei Beppe, figlio di Amilcare. Sei che vai sú?
– Devo ancóra traversar due colline.
– Qui c’è capitata la Repubblica, oggi.
– Da Alba, tanti?
– Io dico che erano cento. Cacciatori degli Appennini1.
– Possibile che han fatto niente?
– Qualcosa han ben fatto.
Fiuto l’aria rumorosamente a cogliere odor di bruciato.
– No, – dice, – ma ti faccio vedere. – E mi porta a traversar la piazzetta tritata dai carri, dalla parte della chiesa e della scuola.
– Lascia andare avanti me, – dice.
– Io non ho paura.
– D’accordo. Soltanto, ci potresti inciampare.
Ancóra qualche passo e si ferma e mi ferma puntandomi una mano contro il petto. Giuro che non vedo niente di niente. Prova a far funzionare un grosso accendisigari, e ci riesce alla quinta volta. La fiammella sbanda sopra un morto, avviluppato in qualcosa che non mi pare tutto d’un colore.
– Fucilato, bastardi, – ha detto, e mentre mi chino a scoprirlo davanti: – È la bandiera della scuola, ma non lo copre tutto, anche se è piccolino.
Ora il viso è nudo: intatto. Non voglio vedere se l’hanno sparato alla nuca, colpo di grazia. E poi la fiammella tradisce.
– Ora gli scopri il petto?
S’è spenta. Mentre si sforza di riaccendere, l’oste: – Si direbbe che anche l’accendisigari ha paura.
– Io dico che questo serve a toglier la paura.
Mi fissa e smette di sollecitar la macchinetta.
– Vuoi riaccendere?
Riaccende, ma non si richina e dice: – Mezzo caricatore di mitra.
– Hai contato le ferite?
– Visto coi miei occhi, a fucilarlo.
– Spiega.
– Ci hanno obbligati, quanti abitiamo sulla piazza. Anche il parroco e la maestra.
– Dove l’han preso?
– In una vigna che ora non puoi vedere. Un giorno che ci vediamo, ricòrdati di dirmi di mostrartela.
– Armato?
– Uno scacciacani, una pistolina che non so se ce la faceva a sputar la pallottola. E poi uno straccetto azzurro intorno al collo. Deve avercelo ancóra, hai visto?
– Morto bene?
È talmente nervoso l’oste: – Come sarebbe a dire? Ah. Bè, io ho sempre tenuto gli occhi serrati, come tutti meno il parroco. Solo per un momento li ho riaperti, e lui era sull’attenti... cosà piccolino.
– Quand’è stato?
– Stamane, che eran le nove.
– E non l’avete trasportato? Con la chiesa a un passo?
– Beppe, gli ufficiali han detto che guai al paese se lo si tocca prima di ventiquattr’ore. E seppellirlo come non fosse un cristiano: questo al parroco.
– Ma non son tornati, no?
– Potevano tornare, Beppe, e siamo trecento anime, qui a S. Rocco. Ricoprilo, và !
Lo ricopro, e lui soffia forte sull’accendisigari. Lo precedo all’osteria e sull’uscio gli faccio luogo.
– Non entri?
Non ho tempo, guardo solo dentro. C’è un vecchio chino su un tavolo, senza bicchiere né pipa.
– Cliente?
– Il padre del mugnaio, – dice: – Domattina lo portiamo al camposanto di Treiso. È sulla tua strada, credo, il camposanto. Se si stesse sicuri che quelli non escono a batter le colline... Gli facciamo un bel funerale, domani, se piove o fa nebbione. Speriamoci.
Il vecchio s’alza, s’intabarra e viene all’uscita.
– L’oste t’ha detto che c’ero anch’io, stamane, messo là a vedere? Non è una guerra onesta. Quella del 15, la nostra, quella sÃ. Sei nella Stella Rossa o coi fazzoletti azzurri2?
– Azzurri.
– Preferisco. Avrete un inverno cane, voi ragazzi. Dà che non finisce per Dicembre?
– Non finisce.
– Avrete un inverno cane. Ciao, patriota. – e via.
Torna l’oste: – Da bere caldo?
– No. Fammi andare.
M’infila nel taschino un pacchetto di Popolari e: – Forza e coraggio, eh?
Mi muovo: – Ci vediamo.
Súbito si raccomanda: – Il meno possibile, Beppe, sai.
Vado. Appéna fuor dell’abitato la strada sale. Bè, non è il primo che vedo, e non sarà l’ultimo, eppure mi volto. Ma non c’è nulla che sporga dall’ombra, al margine destro della piazzetta.
– Qui ne trovate fiori un poco belli? – dico.
L’oste alza una mano e la voce: – Le ragazze delle cascine gli fanno una corona, stanotte.
Parto. Da una svolta della strada viene un filo di vento, viene come l’onda virando un promontorio. Quando la strada correrà per la vallata, immagino che vento tirerà , da prendere di petto. Bè, quel piccolino là ha smorzato ben altro col petto. Chissà come si chiamava, dov’è nato e che faceva. E se i suoi documenti son finiti all’Ufficio Politico del 1º Reggimento Cacciatori degli Appennini o se li ha il parroco di S. Rocco. Però, non li avesse avuti indosso...: è già qualcosa negare a chi t’ammazza di sapere le tue generalità , costringerlo a dire in giro d’aver solo accoppato un tale. Giusto, ma come non ci ho pensato mai? E dopo quei due o tre momentini che avevo la pelle in liquidazione? Frugo nel mio povero portafogli in pegamoide, trovo la mia carta d’identità e la sfilo. È tutta giusta, salvo che per l’età e la professione. Infatti dichiara che sono del 20, e io sono del 22. Che faccio l’ebanista: ma io studio, si sa. Scollo la fotografia, vecchia di cinque anni: la mia faccia di terza Liceo, e c’era una mia compagna che la trovava dolce e fiera. Mah. Con la sinistra mi cerco in tasca uno zolfino e con la destra un ciottolo in terra. È bruciata bene, la carta. Fatto tutto camminando.
Ora la strada sale in metà della vallata. Vento sÃ, ma ce la fa appéna a spettinarmi. Non riesco a scorgere, lassú, dove il cielo s’attacca alla collina. Queste cominciano a essere le Langhe del mio cuore: quelle che da Ceva a Santo Stefano Belbo, tra il Tà naro e la Bòrmida, nascondono e nutrono cinquemila partigiani e gli offrono posti unici per battagliarci, chi ne ha voglia. E suonano male a chi i partigiani li vuole morti ammazzati, tutti tutti e peggio, se possibile, di quello di S. Rocco.
Vedo quattro lumi in seno alla collina. Tre stretti insieme a combinare un triangoletto, e uno solitario, distante mille, duemila passi: mi vien da chiamarlo la Stella Polare. Niente luna, vuol dire che non son le sue notti, queste. Avessi con me, stasera e per questa strada, la lupa della Cascina della Langa, cagna di sette anni che se t’ama la comandi con gli occhi, grandissima alla guardia e a cacciar scoiattoli, bestia combattente. Ma la rivedrò, al piú presto, e mi farò leccare e un pò morsicare.
Salgo a gran passi, come la strada fosse una scala con gradini spropositati. E tamburello il calcio della mia pistola. Pensare che se la tieni in tasca e la porti cosà a spasso, e fai gli incontri che intendo io e ti manca la forza d’adoperarla, per l’avere sul corpo quell’aggeggio, loro ti fanno legalmente la pelle.
Battaglia!
L’avessi solo pensato, ma l’ho urlato, alla pazza. E quei tre lumi si son spenti di colpo, come se io ci avessi soffiato su, con quell’urlata. E alla mia sinistra, sú sú, un cane si mette a latrare che gli salterà qualche vena. Da ogni parte gli rispondono a bacchetta i selvaggi, incorruttibili cani delle colline. Mi prende un’allegria feroce, voglio far la mia parte in questo concerto, e scatto a cantare:
LÃ sulle Langhe
C’è una baracca,
C’è vino e grappa,
C’è vino e grappa.
LÃ sulle Langhe
C’è un bosco nero,
È il cimitero
Dei partigian!
Sono in cima alla prima collina, sfiatato dall’erta e dal cantare. Quella tale luce mi è a dritta, là lÃ. Pareva tanto piú lontana. E a sinistra, non c’è da sbagliare, quello è il camposanto di Treiso. L’han disegnato un pò troppo grande per il paesello che è Treiso, ma a fare onore a tutto quello spazio ci pensiamo noi partigiani, da un pò di tempo in qua.
Voglia di fumare, tiro fuori una popolare e due zolfini. Due schizzi d’aria me li spengono, dopo che li ho sfregati al muretto del camposanto. Ripasso con le unghie il fondo d’ogni tasca, non ce ne son proprio piú. C’è da bestemmiare, ma non sprechiamo fiato, rimpacchetto la popolare e corro dalla collina di Treiso a sprofondarmi nella valletta di Trezzo, tristissimo paese da non rimanerci nemmeno da morto. Ci arrivo a rompicollo, senza che mai un partigiano di sentinella m’abbia dato l’alto là chi va là , senza incontrare un borghese vagabondo che mi faccia: – Cereia, partigiano! – e chieda il mio benestare d’avanzarsi senza batter le mani al di sopra della testa. Nella piazza di Trezzo, la luce della canonica, e un gatto scappa schermando i suoi fanalini d’un azzurro prezioso. Ai piedi della collina di Neviglie, il vento rinforza, so bene che non risparmierà un metro della mia strada. Ma che bisogno ho d’arrivare a Mango proprio stanotte, e poi girare ancóra per trovar da dormire? Le undici battono raucamente ai campanili di Trezzo e di Neviglie, e io a domandarmi come fanno a esser già le undici. Ho camminato sostenuto, no? ma ecco, dev’essere stato al forno di Bellonuovo, con mia madre, che ho perduto la nozione del tempo. Vuol dire che mi cerco una stalla o un fienile a mezza costa della collina di Neviglie, ci dormo con rassegnazione e a Mango ci arrivo bel bello domattina. A destra, poco lontano, c’è lo spettro d’un grosso fabbricato. È un cascinone: una cascina di quella misura, da queste parti, non può esser che Cascina Cervasco, mi sa. Ci vado difilato, mi fermo al margine dell’aia. Un attimo, e nel buio pesto un anello corre vertiginosamente lungo un fil di ferro sospeso per aria. Ho tempo di fare un passo indietro, e una palla pelosa e fetente mi sfiora a volo, poi i denti s’incontrano con un rumore di sasso battuto con sasso. Dio, questi cagnacci di campagna sono i nostri peggiori nemici, vengon súbito dopo i fascisti. Per lo slancio è finito al fondo dell’aia, ora torna trainandosi dietro quello stesso rumor di ruggine, mi si ferma dinnanzi con impennate e abbaiamenti forsennati. Possibile che quel collare non ti strozza, cane bastardo, com’è che ti chiamano?
Non so come posso sentir gente che tiene il fiato, là nella stalla, ma giuro che sento cosÃ.
Grido: – Questa è Cascina Cervasco?
Il cane impazzisce, ma la porta della stalla si socchiude, come da sé.
– Sono il figlio di Amilcare. Questa è Cascina Cervasco?
La fessura si slarga, e vi si sporge un quarto d’uomo a dire: – Bè, se voi siete figlio di Amilcare, questa è Cascina Cervasco, – e poi, – Cuccia, ParÃs, perdio!
Entro nella stalla calda che trasuda, con due buoi voltati a vedermi arrivare. Cinque minuti dopo, incassato nella greppia, con tirata fin sugli occhi una puzzolente coperta da cavalli, dormo al soffio dei buoi, senza paure né sogni.
Qualcuno m’ha toccato sulla spalla. Rimbalzo nella greppia, batto la testa contro la rastrelliera, squadro il ragazzo della cascina, mi dice: – È giorno, – e súbito si volta a sciogliere i buoi. Una gallina mi sfiora nel volo dalla rastrelliera all’ammattonato, verso l’uscita. Spènzolo un piede fuori della mangiatoia ed ecco che me lo vedo nudo di calza. Guardo l’altro, e l’altro è come in una ragnatela di lana. Per lo stupore fischio. Il ragazzo si volta, guarda e dice: – Capaci d’avergliele mangiate i buoi. – E si rivolta a loro, senza sgridarli. Devo infilare gli scarponi sui piedi nudi. Pesco la rivoltella e le sorrido. Il ragazzo viene a me, guarda e dice: – Non è delle piú belle.
– A me basta che spari.
– Ma poi spara?
Lo fisso male, rintasco la pistola ed esco. Luce acerba, saran le sei e mezzo. Ma va a essere una bella giornata, e le belle giornate hanno un senso anche per noi partigiani. Venerdà o Sabato? Mi faccio al davanzale della finestra del cucinone: c’è una vecchia che fa qualcosa.
Dico: – C’è il padrone che gli dica salve?
– Dorme, – dice. – Le ha fatto la guardia tutta la notte.
Faccio: – Oh! – e poi, – Quanto dite che metto per arrivare a Mango?
Viene alla porta, mi studia le gambe e le scarpe, poi: – In mezz’ora, lei. Vuole del pane?
– Vorrei dell’acqua.
– Gli altri non si lavano quasi mai.
– Ah no?
– Gli do il pane?
Mangio il cotechino del fornaio col pane del mezzadro. Ci fumo sú una sigaretta dell’oste. Tutti ci danno, a noi partigiani. Noi partigiani mettiamo l’arma e la pelle.
Ora me ne vado, e il cagnaccio di iersera è cosà sollevato che neanche mi abbaia.
Qui sono sulle Langhe, in mezzo alle Langhe. Lontano vedo S. Adriano e Mango, la Torretta e S. Donato. Quell’altura a sinistra mi copre Bricco d’Avene e Valdivilla. Ricordo bene i posti anche perché, negli anni della guerra d’Abissinia, mio padre ci portava, qui e altrove sulle Langhe, sulla nostra 509. E mia madre, che della guida di mio padre si fidava ma temeva la strada, prima di certe curve in discesa diceva in mente un’Avemaria.
Tira un vento che m’esalta e cammino forte. In mezz’ora, proprio, sono a Mango.
Al peso pubblico c’è il posto di blocco dei fazzoletti azzurri. In paese il Comando di Brigata. Lassú a S. Donato, forse il Comando della Divisione.
Al posto di blocco incrocia il partigiano Riccio. È armato di un moschetto da cavalleria, e lo imbraccia male e lo tiene rugginoso perché se ne vergogna. Il partigiano Verona possiede uno Sten, datogli personalmente dal Comandante di Compagnia, eppure Verona, quel giorno della Repubblica alla Torretta, è scappato prima di lui.
Riccio m’incontra e dice che non c’era proprio male come sparava la mia mitraglia americana, il giorno dei morti, ad Alba. Ma com’è che poi s’inceppò? L’estrattore che squarciava i bossoli?
Passo e al termine della breve allea in salita c’è un ragazzo con la faccia sfigurata e gli occhi gli spariscono tra lividi e gonfiori. È seduto al piede d’un platano e respira da moribondo. Lo vigila un partigiano con Sten e sulle spalle un fazzoletto azzurro con sopra trapunto: Johnson.
Johnson mi fa: – Sei partigiano?
Dico: – Non ti pare?
– E allora picchia, – e mi addita quella faccia che già si è offerta.
– Perché ho da picchiarlo?
– Traditore. Tradimento.
A quello la testa è ricascata sul petto.
– Che tradimento? – dico.
– Tradimento, no?
Il seduto rialza la sua orribile faccia e geme: – Io, un partigiano come me...
Johnson lo zittisce con uno scarto dello Sten.
Dico: – Ma è partigiano?
– SÃ, ma traditore. Glieli dai questi due pugni o non glieli dai? Sei il primo che si fa pregare. Ne saran passati cento e tutti han dato. Picchia, dai!
– È obbligatorio?
– Obbligatorio no... – Johnson è interdetto e io passo oltre. Salgo l’erta della parrocchia, passo farmacia e locanda, mi domando dove avran ficcato il Comando. Dallo spiazzo della Chiesa scende a piedi piatti un partigianone con cappello alpino.
Faccio: – Tu...?
Mi squadra, si ferma, si volta e sul fazzoletto azzurro gli leggo: Terribile.
– Terribile, mi dici dov’è il Comando?
– Tabacco ne hai? Il Comando è a destra del Municipio, in casa Ceretti, per la strada giú verso la chiesa dei Battuti – e scende con la sigaretta che gli ho data.
La strada ai Battuti è ripidissima, barbaramente selciata: voglio vedermici scendere e salire tra un mese, quando ghiaccerà . Casa Ceretti era casa di fascisti: al tempo che li chiamavano ancóra i ribelli, i partigiani l’avevano messa a sacco: portato via quanto si poteva, guastato tutto il resto. Poi, con l’assestarsi del fronte delle Langhe, con gli avamposti partigiani a Treiso e a Cappelletto, Mango era cresciuto a sede di Comando di Brigata. In mancanza di meglio, questo Comando s’era allogato in casa Ceretti con gli avanzi di quella lontana devastazione. Ogni volta che stav...