Uscii, una brezza leggera mi entrò dal collo diffondendosi in tutto il corpo e mi vennero i brividi. I miei futuri concittadini si trasformarono in nemici sospettosi. Il mio cuore continuava a battere forte, sentivo il peso della pistola sulla coscia e con la mia sigaretta fumavo il mondo intero.
Si sentà il suono del campanello, guardai dentro, lui continuava a leggere il suo giornale. Tornai nel tendone insieme alla folla. Mi sedetti tre file dietro di lui, il «programma» ebbe inizio, la testa mi girava. Non ricordo cosa vidi, cosa non vidi, cosa sentii, cosa ascoltai. In mente avevo una nuca. La modesta nuca ben rasata di una persona per bene.
Dopo un bel po’ ci fu l’estrazione dei numeri da un sacco viola, venne annunciato quello vincente. Un uomo anziano e sdentato si lanciò con gioia sul palcoscenico. L’angelo con addosso sempre lo stesso costume da bagno e il velo da sposa gli fece gli auguri. Poi saltò fuori l’uomo che vendeva i biglietti con un lampadario in mano.
– Dio mio! – gridò il vecchio sdentato. – Queste sono le Pleiadi dalle sette braccia!
Il pubblico gridava e protestava e io capii che era sempre quest’uomo a vincere la lotteria e il lampadario era sempre lo stesso e ogni sera andava e veniva sotto un involucro di plastica. L’angelo, con in mano un microfono senza filo o una specie di finto microfono che non amplificava le voci, disse: – Cosa prova? Come ci si sente a essere cosà fortunati? È eccitato?
– Sono molto eccitato, molto felice, Dio vi benedica! – disse il vecchio al microfono. – La vita è bella. Malgrado tutti i dolori e tutte le sventure, non ho paura di essere felice, non me ne vergogno.
Alcuni spettatori lo applaudirono.
– Dove pensa di appendere il suo lampadario? – gli chiese l’angelo.
– Questo è stato un vero colpo di fortuna, – disse il vecchio. Poi si chinò verso il microfono come se funzionasse. – Sono innamorato, anche la mia fidanzata mi ama. Ci sposeremo presto, avremo una casa nuova. Metteremo là questo oggetto con le braccia.
Ci furono alcuni applausi. Poi sentii gridare: – Bacio, bacio.
Quando l’angelo diede al vecchio un leggero bacio sulle guance tutti fecero silenzio e il vecchio, approfittandone, se la svignò con il lampadario in mano.
– Ma noi non vinciamo mai! – disse una voce arrabbiata da dietro.
– Silenzio! – disse l’angelo. – Adesso ascoltatemi –. Cominciò lo stesso strano silenzio che c’era stato durante il bacio. – Un giorno la fortuna sorriderà anche a voi, non lo dimenticate, anche per voi scoccherà l’ora della felicità , – disse l’angelo. – Non siate impazienti, non vi arrabbiate con la vita, aspettate senza essere invidiosi! Se imparate a vivere amando la vita saprete anche cosa fare per essere felici. Allora mi vedrete, anche se perderete la strada –. Alzò un sopracciglio con fare seducente. – Perché l’angelo del desiderio è qui ogni sera, qui nella graziosa cittadina di Viranba
!
La magica luce che la illuminava si spense e se ne accese una spoglia. Uscii dalla porta insieme alla folla, mantenendo la distanza tra me e la mia preda. Il vento soffiava piú forte. Guardai a destra e a sinistra, piú avanti c’era una strozzatura e mi trovai a due passi da lui.
– Com’era Osman? Ti è piaciuto? – disse un uomo con un cappello di feltro.
– Mah, cosà cosÃ, – disse lui. Con il giornale sottobraccio, accelerò il passo. Perché non mi era mai venuto in mente che avrebbe potuto cambiare nome, abbandonare l’identità di Mehmet dopo aver già rifiutato quella di Nahit? Se ci avessi pensato mi sarebbe venuto in mente? Non ci avevo neanche pensato. Rimasi indietro, aspettai che si allontanasse ancora un po’. Guardavo attentamente il suo corpo sottile e leggermente curvo in avanti. Era questo il grand’uomo di cui la mia Canan era follemente innamorata. Cominciai a seguirlo.
Fra tutte le città in cui ero stato, la cittadina di Viranba
era quella con le strade piú alberate. La mia preda camminava veloce e quando passava sotto un lampione sembrava illuminata da un pallido riflettore, poi si avvicinava a un castagno o a un tiglio e scompariva nell’oscurità dove le foglie si agitavano al vento. Passammo per la piazza della città , davanti al cinema Nuovo Mondo, attraverso una scia di luce che proveniva dai neon della pasticceria, davanti all’ufficio postale, alla farmacia, alla sala da tè, tra riflessi luminosi gialli, poi quasi arancioni, poi blu, infine rossastri sulla camicia bianca della mia preda. Quando mi accorsi della perfetta prospettiva presentata da una fila di case a tre piani, dai lampioni e dagli alberi fruscianti, rabbrividii per il piacere di pedinarlo immaginando cosa avessero provato Serkisof, Zenith e Seiko e cominciai ad avvicinarmi velocemente alla banale camicia bianca della mia preda per concludere il lavoro.
Non so cosa accadde ma si udà un rumore, per un attimo pensai che uno di quegli «orologi» mi stesse seguendo e spaventato mi nascosi in un angolo. Invece era solo una finestra che si era rotta sbattendo per il vento e la mia preda si voltò fermandosi un attimo nel buio. Credevo che avrebbe continuato ad andare avanti senza accorgersi di me quando, prima che lasciassi la sicura della mia Walther, tirò improvvisamente fuori la chiave, aprà la porta e scomparve in una di quelle casette a schiera. Aspettai finché una finestra si illuminò al secondo piano. Poi pensai a me stesso e mi sentii completamente solo al mondo, come gli assassini e gli aspiranti assassini. Piú giú nella strada le modeste lettere al neon dell’Hotel Tranquillità , arresosi rispettosamente alle regole della prospettiva, dondolavano al vento e mi promettevano un po’ di pazienza, un po’ di consiglio, un po’ di pace, un letto e una lunga notte per pensare a tutta la mia vita, alla decisione di diventare un assassino e a Canan. Non potevo fare altro che andare là e presi una stanza con il televisore unicamente perché il portiere mi aveva chiesto se ne volevo una con la televisione.
Appena entrato nella stanza accesi il televisore e vedendo le immagini in bianco e nero mi dissi: ho fatto bene a venire qui. Non avrei passato la notte nella solitudine dell’assassino incallito ma in compagnia dei miei amici in bianco e nero che scherzano allegri perché uccidono cosà spesso che non si soffermano piú di tanto su quello che fanno. Poi, quando gli uomini con le pistole in mano cominciarono a urlare e le macchine americane cominciarono ad andare veloci e a prendere le curve come se scivolassero, mi rilassai e guardai con serenità il mondo fuori dalla finestra e i castagni rabbiosi.
Non ero da nessuna parte ed ero ovunque e quindi mi sembrava di essere al centro inesistente del mondo. Dalla finestra della mia stanza d’albergo, cosà graziosa e cosà morta, si vedeva la luce della stanza dell’uomo che volevo uccidere. Non lo vedevo ma per adesso, per questa notte, mi bastava che lui fosse là e io qui, e poi i miei amici della televisione avevano già cominciato a sparare. Quando la mia preda spense la luce, mi addormentai ascoltando gli spari senza riflettere sul significato della vita, dell’amore e del libro.
La mattina dopo mi alzai, mi feci il bagno, mi rasai e uscii dall’albergo senza spegnere la televisione che diceva che avrebbe piovuto in tutto il Paese. Non avevo controllato la mia Walther e non mi ero innervosito guardando il mondo allo specchio, come accadrebbe invece a un giovane pronto a commettere un omicidio per amore e per amore di un libro. Con la mia giacca viola dovevo sembrare uno studente universitario ottimista che durante l’estate viaggia di città in città vendendo porta a porta il
Cumhuriyet o l’
Enciclopedia Universale. Ma uno studente universitario ottimista quando suona alla porta di un bibliofilo di cui ha sentito parlare spera forse di fare una lunga chiacchierata sulla letteratura e sulla vita? Sapevo già che l’avrei ucciso. Feci un piano di scale, suonai il campanello – drindrin! – Ma no, il campanello non fece questo suono, il meccanismo elettrico imitò il cinguettio di un canarino e fece cip cip cip. Le ultime innovazioni sono arrivate anche nella città di Viranba
e l’assassino trova la sua vittima anche all’inferno. Nei film in situazioni del genere le vittime assumono un atteggiamento saccente e dicono: – Sapevo che saresti venuto –. Ma non fu cosÃ.
Si stupÃ. Ma non si stupà del suo stupore, lo visse come una cosa normale. Aveva un bel viso anche se non cosà significativo come ricordavo e come avevo immaginato per quest’occasione, ed era – va bene, lo ammetto – un bell’uomo.
– Signor Osman, sono arrivato, – dissi e ci fu silenzio.
Poi ci riprendemmo tutti e due. Mi guardò un attimo, poi guardò la porta con imbarazzo come se non avesse intenzione di farmi entrare e disse: – Vieni, usciamo.
Si mise una giacca color grigio spento che non era certo un giubbotto antiproiettile e uscimmo. Camminammo per una strada che faceva finta di essere una strada. Sul marciapiede un cane diffidente ci scrutò e le tortore in cima a un castagno fecero silenzio. Guarda Canan, guarda: siamo diventati buoni amici. Era leggermente piú basso di me e pensavo che nel suo modo di camminare ci fosse qualcosa di simile al mio, era l’attributo personale piú evidente in ragazzi come noi – come posso dire, la somiglianza era forse nell’armonia tra come si alzavano le spalle e il movimento dei passi –, quando mi chiese se avessi già fatto colazione. Se mi andava di mangiare qualcosa, se volevo un tè c’era un bar alla stazione.
Comprò due ciambelle calde al forno, si fermò in una drogheria e prese un etto di formaggio tagliato a fette e avvolto in carta oleata. Poi l’angelo ci fece un cenno con la mano dal poster all’entrata del circo. Entrammo in un bar dalla porta anteriore, ordinò due tè poi, dalla porta posteriore, uscimmo nel cortile con vista sulla stazione e ci sedemmo. Le tortore appollaiate non si sa dove, sul castagno o sul tetto, continuarono a tubare senza badare a noi. Nell’aria c’era una freschezza mattutina dolce e mite, un silenzio; e da una radio lontana arrivava una musica che si udiva appena.
– Ogni mattina, prima di cominciare a lavorare, esco e vado al bar a prendere un tè, – disse mentre apriva il pacchetto del formaggio. – In primavera qui è bello. Anche quando nevica. Al mattino mi piace contemplare le orme dei corvi sulla neve, gli alberi imbiancati. Un altro bar carino è quello grande in piazza, il bar Patria, ha una grande stufa che funziona bene. Là leggo il giornale, a volte se è accesa ascolto la radio, altre volte sto seduto senza far niente.
– La mia nuova vita è ordinata, disciplinata e puntuale… Ogni mattina verso le nove lascio il bar e torno a casa al mio tavolo da lavoro. Alle nove esatte sono già seduto a tavolino con il caffè pronto e comincio a scrivere. Il lavoro che faccio sembra facile ma richiede attenzione. Scrivo e riscrivo il libro senza saltare una virgola, senza confondere il posto di una lettera, di un punto. Voglio che tutto sia identico fino all’ultima virgola, fino all’ultimo punto. E questo è possibile se si hanno la stessa ispirazione e lo stesso desiderio dell’autore. Qualcuno potrà dire che quello che faccio è copiare il libro, ma il mio lavoro va oltre la semplice copiatura. Scrivo sentendo e capendo e ogni volta mi sembra che ogni frase, ogni parola, ogni lettera siano un’invenzione mia. E cosà lavoro alacremente dalle nove di mattina fino all’una, non faccio nient’altro e niente mi può distrarre dal lavoro. In genere la mattina lavoro meglio.
– Poi esco a pranzo. In questa cittadina ci sono due ristoranti. Quello di Asım è sempre affollato. Il ristorante Ferrovia cucina pesante e serve anche alcolici. A volte vado da uno, a volte dall’altro. A volte mangio un panino al bar, a volte non esco per niente. A mezzogiorno non bevo mai alcolici. Certi giorni faccio un pisolino e basta. È fondamentale che io sia di nuovo a tavolino alle due e mezza. Lavoro regolarmente fino alle sei e mezza o alle sette di sera. Se il lavoro procede bene, allora magari continuo piú a lungo. Se ti piace quello che scrivi, se sei contento della tua vita, non devi perdere l’occasione, devi scrivere finché puoi. La vita è breve, le cose stanno cosÃ, il resto lo sai già . Non far raffreddare il tuo tè.
– Dopo aver lavorato tutto il giorno contemplo con soddisfazione quello che sono riuscito a scrivere e poi esco di nuovo. Perché mi piace avere qualcuno con cui fare due chiacchiere mentre sfoglio i giornali della sera o guardo la televisione. Mi è necessario perché vivo solo e ho intenzione di continuare a farlo. Vedere gente, chiacchierare, bere un po’, ascoltare un paio di storielle, magari raccontarne una, tutto questo mi piace. Poi vado al cinema, oppure guardo la televisione, certe sere vado al bar a giocare a carte, altre torno a casa presto con i giornali in mano.
– E ieri sei andato al circo, – dissi.
– Queste persone sono venute qui un mese fa e ci sono rimaste. C’è ancora gente che ci va di sera.
– La donna che era lÃ, – dissi, – somigliava un po’ all’angelo.
– Lei non è l’angelo, – disse. – Va a letto con i notabili della città e con i soldati di leva che pagano. Hai capito?
Ci fu silenzio. Quella frase, – Hai capito? – mi spazzò via dalla comoda poltrona di rabbia sarcastica dove mi godevo un benessere da ubriaco e mi lasciò nell’inquietudine di una dura e scomoda sedia di legno nel giardino di fronte alla stazione.
– Le cose scritte nel libro, – disse, – ormai per me sono superate!
– Ma se passi le tue giornate a riscrivere quel libro, – riuscii a rispondergli.
– Lo faccio per soldi, – disse. E non me lo disse con un sentimento di vittoria o di vergogna, ma come se volesse scusarsi dell’ammissione. Riscriveva il libro a mano su quaderni di scuola. Lavorava in media otto-dieci ore al giorno e riusciva a scrivere circa tre pagine all’ora, finiva una copia scritta a mano – erano trecento pagine – in dieci giorni. Qui c’erano persone che erano disposte a pagare un prezzo «ragionevole» per cose del genere, come i notabili della città , i tradizionalisti, le persone che gli volevano bene, quelli che ammiravano il suo sforzo, la sua devozione, la sua convinzione, la sua pazienza, o quelli che vedevano il manoscritto in mano ad altri e lo volevano e quelli che si sentivano in qualche modo felici per il fatto che tra di loro vivesse serenamente una persona impegnata in un lavoro che richiede una pazienza certosina… Per di piú, il fatto che dedicasse tutta la vita a un lavoro cosà modesto – lo disse con molta esitazione – gli aveva creato attorno una specie di «frivola leggenda» e anche se non voleva lo rispettavano, vedevano nel suo lavoro un aspetto – come me anche lui disse: – Come posso spiegare? – «sacro»…
Mi raccontava queste cose solo perché avevo insistito, perché lo avevo tempestato di domande curiose. Non mi pareva che gli piacesse parlare di sé. Dopo aver parlato con gratitudine dei suoi clienti, della buona volontà degli entusiasti che compravano la copia manoscritta del libro, del rispetto che gli mostravano, disse: – Comunque, io offro un servizio. Offro qualcosa di concreto. Un libro scritto a mano parola per parola, scritto con convinzione, anima e corpo. E loro mi compensano per il mio onesto impegno. In fin dei conti la vita di tutti è cosÃ.
Tacemmo. Mentre mangiavo la ciambella con le fette di formaggio riuscivo a vedere che la sua vita si era sistemata, come diceva il libro, correva «sul suo binario». Anche lui come me era partito dal libro e dopo ricerche, viaggi e avventure in cui aveva incontrato morte, amore e disgrazie, aveva ottenuto quello che io non ero riuscito a ottenere, aveva raggiunto un equilibrio in cui le cose sarebbero rimaste statiche per anni, la pace interiore. Mentre mordeva le fette di formaggio e sorbiva l’ultimo sorso di tè, ne era rimasto un dito in fondo al bicchiere, sentii che ripeteva questi piccoli movimenti della mano, del dito, della bocca, del mento e della testa ogni giorno. La serenità era dovuta all’equilibrio che aveva trovato e gli aveva regalato un tempo infinito. Mentre io, curioso e infelice, dondolavo le gambe sotto il tavolo.
Per un attimo mi sentii ribollire di gelosia, di voglia di fargli male. Ma poi mi resi conto che c’era anche qualcosa di peggio. Se avessi tirato fuori la pistola, se gli avessi sparato colpendolo in un occhio non avrei fatto nulla a quest’uomo che, scrivendo di continuo, aveva trovato la serenità del tempo eterno. Avrebbe continuato per la sua strada, magari in un altro modo, dentro il tempo statico, mentre la mia anima inquieta si tormentava per arrivare da qualche parte come quegli autisti di pullman che dimenticano la destinazione.
Gli feci un sacco di domande. Mi diede delle risposte brevi, tipo «sû, «no», «certo» e ogni volta mi resi conto di conoscere già le risposte. Era contento della sua vita. Non si aspettava piú nulla dalla vita. Amava ancora il libro e ci credeva. Non si arrabbiava con nessuno. Aveva capito il significato della vita. Ma non poteva spiegarmelo. Certo che vedendomi si era meravigliato. Non pensava di insegnare niente a nessuno. Ognuno aveva la sua vita e tutte le vite, secondo lui, in realtà erano uguali. Gli piaceva la solitudine, ma non era una cosa poi cosà importante, perché gli piacevano anche le persone. Anche Canan gli era piaciuta molto. SÃ, si era innamorato di lei. Ma poi era riuscito a fuggire. Non si era meravigliato del fatto che l’avessi trovato. Mandava tanti saluti a Canan. Scrivere era il suo unico lavoro nella vita ma non la sua unica felicità . Sapeva che doveva avere un lavoro come tutti. Potevano piacergli anche altri lavori. SÃ, li avrebbe fatti quei lavori se gli avessero garantito i soldi per vivere. Ad esempio, anche guardare il mondo e vederne il vero...