In questo momento sono le 15.30 di domenica 3 settembre, weekend del Labor Day, una festa che ha finito col diventare la parentesi conclusiva dell’estate americana. Ma il weekend dell’LD cade sempre nel pieno degli US Open1; siamo al terzo e al quarto turno, il cuore pulsante del torneo, siamo alla guerra di trincea e ai nomi interminabili. In questo momento, nello speciale Stadium del National Tennis Center – un altissimo sestangolo2 con gli striscioni fuori dai lati N, S, E e O che dicono: «BENVENUTI AGLI US OPEN 1995 – Un torneo Usta» – in questo momento nello Stadium un mare interno di occhiali da sole e cappellini si leva all’unisono per applaudire Pete Sampras e l’australiano Mark Philippoussis che scendono in campo a sfacchinare, proprio oggi che i lavoratori fanno festa. I due stanno uscendo con le borse da ginnastica coloratissime scortati dagli uomini della sicurezza dallo sguardo truce. L’acustica degli applausi è assordante. Visto da quaggiú, vicino al campo, lo Stadium somiglia a un’enorme torta nuziale e, oltrepassate le pendici meno impervie dei posti in tribuna, gli spalti di alluminio sembrano ergersi quasi in verticale su tutti i lati, cosí vertiginosamente ripidi da dare l’impressione che il minimo passo falso su uno qualsiasi degli ultimi gradini sarebbe garanzia di una morte ignobile. Il giudice di sedia prende posto su una specie di trespolo da bagnino che ha davanti due piccole staffe di metallo per le scarpe3, indossa una cuffia microfono e i Ray-Ban e in mano ha una cartellina o forse un computer portatile. Il campo di DecoTurf è un rettangolo verdastro demarcato dalla nota configurazione di linee bianchissime all’interno di un rettangolo verdastro piú grande; e mentre i giocatori lo attraversano tutto da E a O diretti alle sedie di tela, fotografi e cameraman convergono accalcandosi su di loro come le mosche si accalcano su quello che piace alle mosche: i giocatori li ignorano come solo chi è molto abituato alle telecamere sa ignorare le telecamere. Il pubblico è ancora in piedi ad applaudire, una massa pastello di ventimila e piú persone. Una donna con il cappello di paglia floscio tre posti sopra il mio parla a un telefono cellulare; l’uomo che ha accanto cerca di applaudire reggendo una scatola di popcorn che si riversano a profusione sul versante destro della tribuna. I tabelloni segnapunti sopra i bordi N e S dello Stadium lampeggiano la pubblicità puntinista al neon dell’acqua Evian. Sampras, pessima postura e petto inesistente, rivolge un timido sorriso al suolo e i calzoncini celesti che gli sciaguattano intorno alle ginocchia lo fanno sembrare un po’ un bambino con i vestiti del padre4. Philippoussis, che cronologicamente è davvero un bambino e dall’alto del suo metro e novanta con oltre cento chili di peso sta attraversando il campo col piede varo del mastodonte che si sforza di avere il passo leggero, indossa la maglietta Fila a strisce bianco-e-rosso-caramella che spopola tra gli australiani piú giovani. Il sole pomeridiano è a O-SO in un cielo dall’aria cosí limpida che senti quasi la combustione del sole, e le testoline degli spettatori in cima agli spalti sul lato O sono talmente vicine alla sua base rotonda che sembrano sul punto di prendere fuoco. I giocatori lasciano cadere i lunghi borsoni e cominciano a frugarci dentro. Devono togliere le protezioni di plastica alle racchette. Se ne stanno sulle seggioline a battere tra loro gli ovali delle racchette tendendo l’orecchio per sentirne il suono. I cameraman che li circondano si disperdono a un ordine del giudice di sedia, alcuni tracciando serpenti con i cavi. I raccattapalle raccolgono i pezzi di plastica che proteggevano le racchette accartocciati sotto le sedie dei giocatori.
Una signora che sfila con passo da processione laterale lungo la fila di posti sotto la mia ha una maglietta che ammonisce chi guarda a giocare duro perché la vita è breve. L’uomo che la tiene a braccetto ha una T-shirt (troppo grande) griffata che raffigura varie immagini della valuta statunitense. Un sorvegliante rigoroso/simpatico li blocca a metà della fila per controllare i biglietti. Millecinquecento cittadini del quartiere Queens oggi lavorano per gli Open. Sfacchinano proprio questo weekend. I sorveglianti presidiano le grosse catene che bloccano l’accesso alle gallerie dello Stadium, tutti in brache di tela e camicia. Quelli della sicurezza (tutti maschi e nerboruti, il collo incassato e nemmeno l’ombra di un sorriso) indossano polo giallo limone che penalizzano la pancia. La gomma da masticare sembra parte del loro equipaggiamento di ordinanza. I raccattapalle5 sono in bianco-e-blu Fila, mentre giudici di linea e arbitri hanno camicie (Fila) a righe verticali nere e rosse che li fanno sembrare giudici in grande spolvero degli sport principali. Lo Stadium avrebbe una capacità di ventimila persone e ce ne sono come minimo ventitremila, quasi tutte per vedere Pete. Quello che si dice un carnaio, insomma, e mi stupirei se entro la fine della partita qualcuno non facesse un disastroso ruzzolone-con-relativo-urlo giú dalle scale o un capitombolo-all’indietrodal-bordo-del-muretto. Quaggiú vicino al campo c’è un pubblico per lo piú di adulti compassati – nei posti in tribuna e in quelli piú bassi e costosi vedi cravatte, mocassini senza calze, pantaloni di ottimo taglio, pullover con le braccia allacciate sul petto, pagliette, berretti da pesca L. L. Bean, cappellini bianchi con ragioni sociali, fasce per capelli ingioiellate, tacchi alti e fulgidi cappelli da sole femminili – con una frequenza che digrada notevolmente al progressivo salire (e salire) dell’occhio attento alla moda oltre i posti via via piú economici, finché gli ultimi vertiginosi settori delle gradinate non sfoggiano, com’è piú tipico di una manifestazione sportiva newyorkese, maglie a rete, cappellini portabirra, borse termiche e sputacchiere di fortuna, magliette senza maniche, smalto fosforescente e infradito di gomma, con i relativi rumoracci da pubblico newyorkese che ogni tanto piovono dall’alto6. Ma a quanto pare oltre il cinquanta per cento dei biglietti degli Open di quest’anno sono stati prevenduti alle grandi aziende, che amano usarli per lavorarsi la clientela e far svagare i dirigenti, e in effetti tra il pubblico dello Stadium quaggiú c’è qualcosa di indefinibile che ricorda tanto le targhe automobilistiche del Connecticut e i prati verdissimi. In parole povere, qui l’aura socioeconomica della partita piú importante del giorno è imprenditoriale, con buona pace dei lavoratori.
Gli ombrelloni, le sedie e i grossi frigo di bevande con la scritta EVIAN dei giocatori sono ai due lati della sedia arbitrale alla base dello strapiombo occidentale dello Stadium, in una striscia d’ombra lunga e sottile che s’increspa quando le persone in alto muovono la testa, un’ombra dove si sta freschi – come sto fresco io, all’ombra dell’omaccione accanto a me che ha un sensazionale tre pezzi di velluto azzurro e quello che sembra una specie di enorme sombrero – ma il caldo è estivo, il sole (come già detto) esplosivo calando sembra gonfiarsi, posizionato com’è alle 15.35 a circa quaranta gradi sopra i parapetti O dello Stadium; e il Grandstand Court, attiguo al lato E dello Stadium, è tagliato di netto dalla famosa ombra Grandstand pomeridiana che in questo momento Jim Courier sta usando per vivisezionare Kenneth Carlsen sotto gli occhi degli avventori del Racquets (il ristorante di vetro dove-non-trovi-mai-posto costruito nel muro che separa il lato O del Grandstand da quello E dello Stadium) e dei seimila e passa spettatori, i cui fischi e applausi nazionalistici si insinuano in buona parte nella piega sonica dello Stadium facendo da colonna sonora stridente e surreale agli scambi di Sampras e Philippoussis che intanto si riscaldano. Sampras colpisce la palla con l’economia disinvolta che caratterizza tutti i veri campioni in fase di riscaldamento, la serena nonchalance di un animale in cima alla catena alimentare. Vincitore di Wimbledon a parte, questo terzo turno ha un fascino tutto suo perché vede fronteggiarsi due greci che non vengono dalla Grecia, una specie di Guerra del Peloponneso postmoderna. Philippoussis, appena diciottenne, compagno di Patrick Rafter nei doppi, entrato nella Top 100 in questo suo primo anno di tornei, potenziale superstar e vero rubacuori7, ha qualcosa di Sampras – stesso rovescio a una mano e leggero giro di polso nell’apertura del dritto, stessa carnagione caffelatte, sopracciglia alla Groucho e capelli nerissimi che col sudore diventano lucidi – ma l’australiano è piú lento in azione e in confronto alla strana grazia disossata di Sampras risulta quasi maldestro, pericolosamente grosso, le spalle squadrate com’è dei ragazzoni pesanti con la schiena disastrata. In piú sembra avere qualche problema di aggressività da risolvere: colpisce la palla con tutta la forza anche in fase di riscaldamento. Sembra brutale, Philippoussis, spartano, uno grosso e lento che gioca meccanicamente di potenza da fondocampo8, con una cattiveria gelida negli occhi, e a paragone Sampras, che non è esattamente un pallettaro, appare quasi fragile, cerebrale, un poeta, saggio e triste allo stesso tempo, stanco come solo le democrazie sanno esserlo, l’espressione impaurita e la stessa strana malinconia post-Wimbledon che l’ha perseguitato per tutta l’estate a Montreal, Cincinnati eccetera. A prescindere dall’epico 2-6, 6-2, 4-6, 6-3, 7-6 di Thomas Enqvist nel primo turno contro Rios e della vittoria stiracchiata di Agassi contro Corretja nel secondo turno, si è tentati di considerare l’imminente partita come il clou, finora, degli Open: due rivali etnicamente aggressivi e archetipicamente distinti, un contrasto non solo nello stile di gioco ma nell’orientamento di fondo rispetto alla vita, all’immaginazione, all’uso della potenza… senza contare, ovviamente, gli interessi economici.
Le quattro pareti che circondano lo Stadium Court sono coperte da una specie di telone azzurro cloro9 che riporta in bianco, tutt’intorno al campo, le scritte FUJIFILM, «REDBOOK MAGAZINE», MASSMUTUAL, «US OPEN 1995 – Un torneo Usta», CAFÉ DE COLOMBIA (corredato dal tratteggio bianco di Juan Valdez con il fedele mulo), INFINITI, TAMPAX, e via dicendo10. Il tennis professionistico viene sempre definito sport internazionale ma sarebbe piú esatto definirlo sport multinazionale: fiscalmente parlando, è in larga parte il settore marketing di grandissime aziende, e non solo degli enormi conglomerati che finanziano il torneo come Ibm e Corel. Il grosso dei guadagni di quasi tutti i professionisti deriva dai contratti pubblicitari. Ogni singolo luogo e strumento legato a manifestazioni professionistiche riporta qualche tipo di pubblicità. Perfino i nomi ufficiali di quasi tutti i tornei professionistici sono quelli delle aziende che hanno ottenuto il titolo di sponsor ufficiale: gli Open canadesi quest’anno erano gli «Open du Maurier Ltd.» (dal produttore di sigarette canadese), a Monaco erano gli «Open Bmw», a New Haven erano i «Volvo International» (nel ’96 saranno i «Pilot Pen International»), a Cincinnati i «Campionati Thriftway Atp» e via dicendo. Essendo gli US Open11 uno Slam e un campionato nazionale, non hanno uno sponsor ufficiale come Monaco o Montreal; ma lo status di Slam, lungi dal decommercializzare il torneo, serve solo a rendere piú da capogiro i tanti finanziamenti commerciali. Gli Open hanno uno sponsor ufficiale non solo per il torneo ma per ciascuna delle tante singole manifestazioni del torneo: Infiniti sponsorizza i singolari maschili, «Redbook» i singolari femminili, MassMutual i maschili juniores e cosí via12.
Il giudice di sedia ha decretato l’inizio del gioco e Sampras si predispone a servire sollevando la punta del piede anteriore mentre lancia alta la palla in quel modo tutto suo. Non ero mai riuscito a vedere Sampras giocare dal vivo, ed è un atleta molto piú bello di quanto sembri in tv. Non è particolarmente alto né muscoloso, ma ha un servizio dall’effetto quasi wagneriano e da distanza cosí ravvicinata si vede che è perché Sampras ha un misto magico di flessibilità e tempismo che gli permette di riversare tutto il peso della schiena e del busto nel servizio – l’intero corpo scatta come di norma solo un polso sa fare – e che dipende dalla posizione curva e raggomitolata da cui avvia i movimenti del servizio, sollevando solo la punta del piede anteriore e prendendo la mira da sopra la racchetta come se avesse una balestra, una serie di movimenti che in tv sembrano tic eccentrici ma che dal vivo danno l’impressione che il corpo sia un unico grosso muscolo, una specie di anguilla arrabbiata pronta al guizzo. Philippoussis, che tra un punto e l’altro ama fare un piccolo balletto sul posto, aspetta il servizio senza tradire la minima espressione. La fascia che ha in testa si abbina alla maglietta a strisce tipo caramella. I display dei tabelloni segnapunti ora sono programmati per tenere il punteggio anziché lampeggiare pubblicità. Il nome di Philippoussis si ritaglia una bella fetta orizzontale di ogni tabellone. La parete tra lo Stadium e il Grandstand (a E rispetto a noi) è sormontata dalla tribuna stampa che la percorre per intero e fondamentalmente sembra la piú grande casa mobile del mondo, gli scuri alle finestre calati contro il sole pomeridiano. Tre punti hanno dato come risultato un ace, una risposta vincente su battuta e un lungo scambio che si conclude quando Philippoussis scende a rete invitato da una palla non esattamente sul rovescio e Sampras cerca l’angolino alla destra del rettangolo di servizio caricando incredibilmente il colpo. La ferocia del rovescio di Sampras è un’altra delle cose che la tv non comunica bene, il suo controllo sull’ovale della racchetta fa pensare piú a quei colossi da terra battuta con gli avambracci come cosce di bue, il topspin cosí caricato da distorcere la forma della palla mentre il passante cade giú a piombo. Il malvagio ma cyborghiano Philippoussis finora non ha tradito niente che somigli a una vera espr...