Vapore
eBook - ePub

Vapore

  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Maria Salviati ha settantadue anni, un figlio, e un marito sparito nel nulla da piú di trent'anni. «La professoressa», cosí ancora la salutano i ragazzi che la incontrano per strada. Ma oggi Maria è una donna anziana, sola, e ossessionata dalla paura di dimenticare. E allora non le resta che ripetere la sua vita a voce alta con le parole che resistono, come «una piccola poesia imparata a memoria », anche se ogni giorno se ne va una strofa, una rima.
Finché una mattina qualcuno bussa inaspettatamente alla sua porta. Gabriele è un agente immobiliare, con un sorriso timido e un ciuffo ribelle sulla fronte. Spunta dal nulla, per comunicarle che la vecchia casa in campagna a un'ora scarsa da Roma ha trovato dei potenziali acquirenti. Senza pensarci troppo Maria prende la sua borsetta e lo segue. Ma le visite sono poche, e mai quelle giuste. Maria e Gabriele trascorrono intere giornate in attesa, su una panchina, e insieme ripercorrono la storia di quella vecchia casa in mattoni, perché «ogni casa è un labirinto e bisogna trovare la porta per uscire e rientrare». E cosí Maria, finalmente, può smettere di parlare da sola e recitare a qualcuno la piccola poesia della sua breve esistenza, dall'infanzia fino agli anni piú intensi di vita, quelli trascorsi con il marito Augusto, il giocoso e inconcludente mago Vapore, e l'amato figlio Pietro, sognatore e comunista. Maria avrebbe voluto proteggerli dalle loro piccole e grandi bugie, tenerli stretti dentro la lucidità del suo sguardo. Ma neanche l'amore può tanto.
Dopo Sorella e Italia, Marco Lodoli ci regala un'altra figura femminile memorabile, e l'affresco commovente di una famiglia non convenzionale, vaporosa e dura, che nasconde un drammatico segreto.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806214869
eBook ISBN
9788858407653

Marco Lodoli

Vapore

Einaudi

Ad Alessandra, cuore e vapore

Vapore

Corpi sempre vaganti colpiscono gli occhi
e quasi ci consumano il viso.
LUCREZIO
I’m worse at what I do best
and for this gift I feel blessed.
NIRVANA

Mi chiamo Maria Salviati, ho settantadue anni, insegnavo scienze e un po’ di biologia alla scuola media, ho un figlio, forse un marito, anche se è sparito nel nulla da trent’anni, ho viaggiato poco, volevo bene a mio padre che faceva il professore all’università, a mia madre purtroppo volevo meno bene, avevo un fratello che è morto molti anni fa. Ripetere, devo ripetere la mia vita con le parole che mi restano, come fosse una piccola poesia imparata a memoria, e non basta, perché sento che ogni giorno perdo una strofa, una rima. Ancora poco, per fortuna, appezzamenti sui bordi della mente, campi abbandonati. Appezzamenti è una parola rara, mi inorgoglisce pronunciarla. Ma la testa piano piano si svuota, è cosí, bisogna abbandonare i pesi quando le forze iniziano a calare e resta un pezzo di strada da fare. Eppure vorrei ancora ripassare questa lunga lezione, come quando ero bambina e a fine anno avevo il quaderno in ordine, senza cancellature e senza macchie e mi dicevano brava. Di alcune persone non ricordo piú il nome e il volto, so che ci sono state perché hanno lasciato una conca che testimonia un’antica presenza: ma in quel buco cresce solo l’ombra. Non sono cosí vecchia da accettare di seppellire tutto nella dimenticanza, certe sere mi prende ancora la nostalgia per quello che è stato e che non torna piú nemmeno nel ricordo. Una nostalgia vuota per il tempo andato, per le stagioni, gli amici, gli amori. Ogni giorno mi predispongo alla fatica dell’inventario, anche se su molti scaffali c’è solo polvere. Scrivo, riempio foglietti che poi dimentico da qualche parte, spesso parlo da sola ad alta voce. Finché le parole resistono, forse resiste anche il passato, briciole strette nel pugno macchiato dagli anni: poi il pugno si apre e tutto cade. Faccio cruciverba, quelli facili.
Stamattina ha suonato alla porta un ragazzo, qui a via Poggio Moiano, qui a casa mia. Abito a via Poggio Moiano numero 20, una bella strada alberata con la chiesa e il bar e la lavanderia: anche l’indirizzo mi ripeto di continuo, caso mai una sera smarrissi la via del ritorno. Ho aperto la porta perché non voglio avere paura. Sul giornale leggo storie di vecchi derubati da falsi assistenti sociali, da ragazze che sorridono, da uomini che dicono di vendere lattine d’olio o enciclopedie a un prezzo conveniente. I vecchi sono diffidenti, ma il mondo è troppo piú furbo di noi, lo so, e io non voglio chiudermi dietro una porta di ferro, somiglia troppo al coperchio della bara. C’è tempo per restare da soli in silenzio, basta aspettare.
Buongiorno professoressa Salviati, mi ha detto quel ragazzo, e mi ha sorriso timidamente con i denti bianchi e regolari, anche il ciuffo che gli cadeva sulla fronte pareva oscillare con simpatia. Era vestito di scuro, giacca e pantaloni ben stirati e una camicia azzurra con il colletto forse un po’ troppo alto, chiuso da una cravatta rossa con gli stemmini. Portava scarpe marroni, lucide, puntute. Sono venuto a trovarla per la casa in campagna, mi ha detto, forse l’agenzia immobiliare per cui lavoro può riuscire a venderla, abbiamo avuto delle proposte.
Da anni quella casa è in vendita, da sempre, e nessuno l’ha mai voluta. Non saprei nemmeno quante agenzie l’hanno trattata inutilmente. L’agenzia del ragazzo, Tempo di Case, cosí c’era scritto sul biglietto da visita che mi ha consegnato, non me la ricordavo proprio. Siamo bravi, mi ha detto, per la sua casa questo è il momento giusto, suo padre ne aveva parlato con mio padre, parecchi anni fa, ora ci sono io. Non sapevo che cosa dovevo fare, cosa dovevo dire, forse avrei dovuto farlo accomodare, offrirgli un caffè, raccontargli qualcosa di quella casa buttata in mezzo ai campi a quaranta chilometri da Roma. Forse dovevo pagare per il suo interessamento, non lo so, non mi aspettavo niente da questa mattina d’aprile, solo di fare un po’ di spesa al supermercato, di cucinare un uovo nel tegame piccolo ascoltando alla radio cose che non capisco piú. Io mi chiamo Gabriele, ha detto il ragazzo buttando indietro il ciuffo nero che di continuo gli cadeva sugli occhi. Se vuole, professoressa Salviati, andiamo insieme a rivedere la casa, ho la macchina qui sotto, se crede potrei far venire già oggi un potenziale acquirente. Mi faceva pensare a un uccello, quel ragazzo, uno di quelli che cantano allegri nelle gabbiette e che di notte dormono sotto il buio di un panno. Uno di quelli che fanno le uova, le covano e se le mangiano. Ho pensato non posso seguire uno sconosciuto, non sono mica matta, non voglio mica morire, ma lui sorrideva come se tutto fosse inevitabile, e io ho detto va bene, prendo la borsetta e andiamo.
La strada fino ai Pratoni del Vivaro mi è sempre piaciuta tanto, fin da quando stavo seduta sul sedile di dietro della macchina di mio padre e lui mi diceva guarda Maria quanto è bello il lago, azzurro nel verde, lassú d’estate abita il Papa, milioni di anni fa questo era un vulcano vero, i boschi sono pieni di funghi e di volpi, e io lo ascoltavo senza perdere una parola, anche se le curve mi mettevano in subbuglio lo stomaco. Ricordo bene la mano grande di mio padre sulla mia fronte, lui che ripeteva piano dài Maria, vomita ancora che poi ripartiamo, mi dava sicurezza quella mano, sembrava che potesse sostenere tutti i miei pensieri e i miei spaventi.
Il ragazzo dell’agenzia immobiliare ha una macchina lucida, con i cerchioni che brillano e la musica che soffia piano nelle orecchie, Bach e Händel. Dopo Ciampino la strada inizia a salire, passa accanto alle recinzioni di ville che furono di attrici bellissime, e ora i cancelli sono arruginiti, contro i muri crescono agavi immense. Dal primo tratto panoramico, due o trecento metri piú alto del lago, fioriscono le corolle dei paracaduti aperti in volo: so che non si chiamano piú cosí, ma il nome preciso non mi viene e forse neppure lo conosco davvero. Però anche il ragazzo dell’agenzia – Gabriele si chiama, anche se io non ci ho creduto, chissà perché – anche lui ammirava quegli ombrelli giganteschi, arancioni, verdi, gialli, quegli omini scuri appesi in qualche modo a tanta colorata leggerezza. Lei è giovane, gli ho detto, potrebbe imparare a volare, se le piace: a me fa paura anche l’aereo, però quando ne vedo decollare uno da Ciampino provo un brivido piacevole nella schiena. Non so se vorrei provare, ha sorriso Gabriele senza piú girare la testa verso quei fuochi d’artificio viventi. Preferisce altri sport? No, nessuno, non ho tempo per correre, nuotare, sudare, lavoro tutto il giorno.
Arrivati alla svolta per Nemi, si gira dall’altra parte per una strada bianca che solo da qualche anno si è conquistata un nome: viale delle Noci, l’ho detto a voce alta e Gabriele ha annuito. La macchina sobbalzava sulle buche, alzava un polverone perché è tanto che non piove e qui la terra è leggera come la cipria. Dopo quasi un chilometro c’è l’ingresso alla tenuta, un viottolo che sale tra due file di pini romani vecchi piú di me. Duecento metri e siamo arrivati nello spiazzo davanti alla casa. Ormai ci vengo solo d’estate, fino a giugno qui fa sempre freddo, d’inverno spesso nevica, in primavera la notte capita che la temperatura vada sotto zero, sembra di sentire le ossa che ghiacciano. Eppure ci ho vissuto tanto in questa casa, quando la vedo cosí malmessa provo un senso di colpa, come una cosa cara che ho trattato male, come un nido abbandonato ai corvi. Ho aperto la serranda marrone che protegge l’ingresso, Gabriele mi ha aiutato a farla scorrere sui binari sconnessi, e poi ho cercato la chiave giusta per la porta, e non è mai la prima e non è mai la seconda, ogni volta mi sembra che la casa provi a resistermi, che mi rimproveri. Finalmente una chiave ha girato e siamo entrati in quell’umidità ombrosa. Mi scusi se non è proprio pulita, sono almeno due mesi che non ci vengo e non ho potuto avvertire la signora che pulisce. Speravo che Gabriele dicesse si figuri signora, non fa niente, sono un ragazzo, vivo nel disordine, non mi faccio il letto da una settimana, ma non ha detto niente. Ho acceso la luce elettrica e la casa è apparsa in tutta la sua solitudine, con le poltrone coperte dai lenzuoli, le macchie alle pareti, i rami bruniti sopra al caminetto vuoto, le ragnatele negli angoli alti. Saranno trecento metri quadrati, ho detto, al piano di sopra ci sono cinque stanze e due bagni. Duecentosettanta, mi ha corretto, e in mano aveva un rotolo di carta lucida che ha srotolato sul tavolo da pranzo. La casa è apparsa nella sua essenza astratta, muri portanti e tramezzi, porte e vani e scale e finestre, tutto segnato con la precisione della china, e anche se la carta ormai era piuttosto gialla, quasi come le mappe dei tesori, tutto si leggeva alla perfezione. Mancava la vita, gli amori, le ansie, i soldi sprecati e i soldi che mancano, i figli, le nottate, le parole buttate contro i muri e quelle mormorate, le frasi belle e gli urli, mancavano i sentimenti, che a distanza di anni sono poco o niente, tanto che per ricordarli devo ripetere le mie storie ogni giorno, seduta in poltrona o passeggiando da sola per la strada verso il mercato. Restano i muri, i metri quadrati calpestabili, gli ettari e le recinzioni, quello che svanisce è vento che deve andare via.
Gabriele guardava piú la carta che la casa, poi chiedendo permesso, con discrezione ha preso le scale di legno ed è scomparso per qualche minuto al piano di sopra. Lo sentivo muoversi, sentivo i suoi passi e dicevo ora sta nella nostra camera da letto, ora sta nella camera di Pietro, da dove si vede bene tutta la valle, e ora si è spostato nello studio dove Augusto preparava i giochi, e ora non lo sento piú, forse si è sdraiato su un letto e pensa a quanto può valere questa scatola di mattoni e finestre a un’ora scarsa da Roma, in mezzo alla terra che non coltiva nessuno. Ho chiuso gli occhi e mi sono assopita per qualche secondo, forse per un minuto o due, quando si è vecchi si dorme senza dormire e le immagini vanno e vengono come il vento che gonfia e sgonfia le tende. Ho visto la casa da fuori, era notte e la casa era tutta illuminata, le finestre erano grandissime e si allargavano ancora, la casa sembrava un cubo di vetro acceso, e mi vedevo camminare per le stanze, cercare di nascondere qualcosa nei cassetti, forse un anello, o una collana, qualcosa di prezioso che nessuno doveva trovare. E poi la casa si è spenta di colpo e io mi sono ridestata da quell’assenza minima. Gabriele era in piedi davanti a me. È una bella casa, ha detto, bisogna solo capire quanto vale.
Ci siamo seduti sulla panca davanti all’ingresso di casa, io e Gabriele, a guardare l’erba alta del prato, la siepe che ha perso ogni forma, quei rami spezzati dal vento che pendono dal ciliegio e dal noce. Gabriele ha detto che verso mezzogiorno sarebbero venute alcune persone a visionare la villa e il giardino, è gente seria, intenzionata, cosí ha detto. Bisogna solo aspettare, lasciare che il tempo passi. Per fortuna oggi non fa freddo, c’è un sole leggero che colora il paesaggio fino alle pendici del monte Artemisio, laggiú. Mi racconti qualcosa di questo posto, professoressa, se ne ha voglia, abbiamo almeno un’ora tutta per noi. Cosa potevo raccontare a quel ragazzo vestito da impiegato, sentivo il sole in faccia e poche parole in testa, a volte è cosí, i ricordi mi girano dentro e non trovano il modo di mostrarsi. Nella mente avevo un trattore che andava avanti e indietro, un cane bianco che abbaiava, mio figlio piccolo arrampicato sul ciliegio, Augusto che rideva come un idiota, io che facevo i conti su pezzi di carta e poi li rifacevo da capo, una serpe nella siepe, una notte senza luna, ghiacciata. Cosa vuole che le dica, le storie sono cosí poco importanti quando si vedono dalla fine. Mi racconti di quando era bambina, di quando la casa era piú grande, mi ha detto. Non mi va, sono cose che può immaginare chiunque: una volta mi sono persa nel bosco, questo mi ricordo, forse mi sono voluta perdere perché mi piacevano le favole, i sassolini bianchi, il pane sbriciolato, la paura che arriva e poi la salvezza. Sono entrata nel bosco perché qualcuno mi venisse a cercare, volevo sentire mia madre e mio padre che gridavano il mio nome mentre gli alberi diventavano scuri, volevo tanto che soffrissero solo per me. Ho vagato per il bosco, ho imboccato sentieri larghi come una mano, mi sono ferita le gambe contro i rovi, ho pianto abbracciata a un albero. Speravo tanto che qualcuno mi prendesse per la mano e mi portasse in salvo. Sono una bambina, venitemi a prendere, vi prego. Venite subito, voi prima della notte. Avevo i piedi bagnati, gli alberi erano sempre piú alti e fitti, non vedevo piú neanche uno spicchio di cielo. La pipí mi colava sulle gambe mentre ascoltavo i latrati dei cani randagi, le voci rotte di bestie con quattro bocche e dieci zampe. Poi da sola ho trovato la via d’uscita, sembrava quasi che il bosco mi spingesse fuori, che mi avesse capito. Qualunque cosa accada, ce la devi fare da sola, questo mi diceva il bosco, non ti aspettare niente da nessuno, non ti lamentare, non serve a niente. Tu sei la stradina, bisbigliava il bosco, vai avanti, non ti fermare, non ti voltare, resisti. Quando sono entrata nel folto avevo dieci anni, quando sono tornata a casa era ora di cena ed ero grande.
Questo avrei voluto dire, ma cosa poteva importare a quel ragazzo?
Mi racconti qualcosa della sua infanzia in questa casa, avanti, ha insistito Gabriele, senza girare la testa verso di me, gli occhi fissi come due bottoni sul viale d’ingresso, dove doveva apparire la macchina dei compratori. Me la racconto di continuo la mia vita, ho tanto tempo libero e tanta paura di dimenticare, anche se qualche volta ho l’impressione che le cose non siano andate proprio come voglio ricordarmele: d’altronde non c’è niente di piú mobile e impreciso del passato, non è vero? Forse ha ragione, non so, ha risposto Gabriele, ma a me piace ascoltare le storie delle case che vendo, cosí il mio lavoro è meno noioso.
E allora mi ascolti: una mattina hanno ammazzato il porco, come accadeva tutti gli anni. Veniva un macellaio da un paese vicino, apriva un panno nero e apparivano i coltelli, scintillavano sul panno come fulmini. E intanto il maiale gridava nel porcile, sapeva già tutto, sentiva già la lama nella giugulare, sentiva che la vita è una cosa breve e assurda. Gridava come un matto, con una voce che non era quella di un animale, era una voce che lo traversava sbucando dalla terra e salendo verso il cielo, faceva orrore. Sull’aia i contadini aspettavano l’esecuzione, per loro era un momento dell’anno come i peschi che fiorivano e le foglie dei castagni che cadevano, come il Natale e la Pasqua. Per evitare quello scempio i miei genitori si chiudevano in casa, oppure scendevano al paese per fare la spesa. E allora perché vi mangiate il prosciutto e il salame?, gli domandavo, e loro rispondevano che una cosa è mangiare e una cosa è scannare, oggi noi siamo civili e possiamo nutrirci anche senza stare lí ad ammazzare il porco o a sbattere la testa ai pesci contro lo scoglio. Io stavo in piedi nell’aia, ogni tanto sentivo che le gambe si piegavano, come se le ginocchia perdessero coraggio, però non volevo scappare. A quel maiale avevo portato ogni sera il pane secco e la pasta avanzata, anche le pere marce e anche un bel cavolfiore, una volta, lo guardavo chinare il muso e spazzolare tutto in un minuto, si mangiava anche la plastica e il ferro, l’avevo visto crescere fino a diventare un bestione, aveva sempre fame anche se era grassissimo. Ora dovevo vederlo morire, per forza, non potevo chiudere gli occhi e le orecchie, dovevo stare lí e sopportare. Quando lo hanno trascinato fuori dal porcile sembrava un pazzo, si dimenava, scalciava, gridava aiuto, era ancora piú grosso eppure completamente indifeso. Mentre il macellaio gli tagliava la gola con un gesto rapido, mentre il fiotto di sangue bagnava la polvere e diventava una pozza nera, io mi sono avvicinata e ho messo la mia mano su quella schiena curva e sporca, e allora lui, povera bestia, mi ha guardato con riconoscenza, ne sono certa, aveva gli occhi cattivi ma lo sguardo buono. Sentivo nel palmo la vita che fremeva sotto la sua pelle dura, come un fiume tra i sassi, sempre piú sassi e meno fiume, e tutti mi dicevano vattene ragazzina, ma il maiale mi diceva rimani qui, se puoi, e tutti mi dicevano tornatene a casa, vattene via, ma io sono rimasta fino alla fine, fino a quando il porco era solo carne morta per terra.
Oggi non verrà nessuno, ha detto Gabriele, a volte fanno cosí, prendono gli appuntamenti e poi non vengono. Bisogna avere pazienza se si vuole vendere una casa difficile. Domani, domani verrà sicuramente qualcuno.
E il giorno dopo ero di nuovo ai Pratoni del Vivaro con quel giovane vestito da anziano, entrambi seduti sulla panca al sole, mentre la nebbia leggera si dissolveva poco a poco e il giardino e i campi trovavano i loro colori. Ho preso in casa una coperta per tenere le gambe al caldo e in testa mi sono messa una cuffia di lana. Avrei voluto sapere qualcosa di piú su quel ragazzo che mi apriva la porta della macchina e mi offriva quadretti di cioccolata, che guidava piano perché a chi non ha niente da fare piace andare piano, ma capivo che non aveva voglia di parlare di sé, voleva ascoltare.
Oggi verranno a vedere la casa, abbiamo buone possibilità, signora. Intanto, se le va, mi racconti qualcos’altro. E cosa?, ho detto forse un po’ bruscamente. Quello che crede, mi piace come racconta. Sono rimasta zitta per un minuto, mi sentivo stanca nei pensieri, come se avessi in testa una scatola di fotografie in bianco e nero tutte in disordine, alcune strappate, altre irriconoscibili, di un’altra vita che non era piú la mia.
Mi racconti una bella storia d’amore, ha detto il ragazzo tirando indietro il ciuffo, mi racconti di suo marito: coraggio, la ascolto. Gli ho allungato sulle gambe un lembo della coperta, mi ha ringraziato con un sorriso.
Me la ripeto tutti i giorni, questa storia d’amore, anche se le parole ormai sono cosí scialbe e il passato è sempre piú lontano.
Ho conosciuto Augusto a una festa per bambini. Avevo vent’anni e avevo appena lasciato un ragazzo che non mi piaceva piú. Quel ragazzo parlava sempre del futuro che avremmo avuto insieme, dell’appartamento dove saremmo andati a vivere, delle cose che avremmo costruito, dei figli che avremmo cresciuto, un maschio e una femmina. Studiava medicina e intanto metteva i soldi da parte, sperava in una zia malata, calcolava quanto gli avrebbe lasciato...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dello stesso autore
  3. Vapore
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Copyright