Questa modesta ed essenziale riflessione biblica fiorisce da due spazi reali e simbolici al tempo stesso. Il primo è il monastero di Bose, sede dei miei incontri piú intensi con l’amico Enzo Bianchi e la sua Comunità , ma anche crocevia del dialogo tra credenti, non credenti e cercatori della trascendenza. L’altro spazio è quel «Cortile dei Gentili» del tempio di Gerusalemme1 che, sulla scia di una sollecitazione di Benedetto XVI, il Pontificio Consiglio per la Cultura ha assunto come emblema per lo stesso dialogo. Due ambiti tra loro distanti e differenti che rivelano, però, lo stesso volto, un’analoga passione e una meta comune.
La questione lessicale e semantica.
Proprio per questa specifica (e non unica) sintonia ideale ho pensato di affidare a fratel Enzo, col quale ho condiviso anche vari momenti di vita ecclesiale, e a tutti coloro che gli si stringono attorno in questa sua ricorrenza biografica, un semplice spunto di analisi da sviluppare ulteriormente. Il punto di partenza mi è offerto proprio da un suo breve saggio che raccoglie l’intervento da lui tenuto a Milano in occasione della VI Cattedra dei non credenti (1992), voluta dal compianto cardinale Carlo Maria Martini e intitolata in quell’edizione con un motto provocatorio: Chi è come te fra i muti? Com’è noto, questa frase imbarazzante è la deformazione testuale e la metamorfosi teologica della celebre interrogazione retorica di Esodo 15,11: mî kamoka ba’elîm, «chi è come te fra gli dèi?», in una sconcertante assonanza: mî kamoka ba’illemîm, «chi è come te fra i muti?» Questo trapasso dalla presenza all’assenza (non si dimentichi che, tra l’altro, «muti» per eccellenza sono gli idoli secondo il salmo 115,7) è operato dal midrash che interviene sul passo esodico.
Ebbene, in quell’occasione Enzo Bianchi trattò il tema dell’«incredulità del credente»2 procedendo lungo tre traiettorie: l’incredulità come idolatria, l’incredulità come poca fede (l’oligopistÃa matteana) e l’incredulità come tenebra. Effettivamente si deve riconoscere che non solo «molte domande dell’ateo non sono estranee al cuore del credente», ma soprattutto che non di rado «fede e incredulità abitano e traversano» il fedele, e «l’incertezza e il dubbio possono coabitare con la fede». Questo fenomeno non è eccezionale ma strutturale al credere a causa del nesso necessario tra libertà e fede, tra grazia e fede, tra fiducia e fede. L’interrogazione e la ricerca non solo sono compatibili con la fede, ma sono anche compatte con essa, essendo quest’ultima una realtà che poggia sull’umano ma che si leva fino alla trascendenza, all’infinito e all’eterno. Come si legge in uno dei testi piú folgoranti di analisi del credere, il Timore e tremore (1843) di Kierkegaard,
[...] la fede è la piú alta passione dell’uomo. Ci sono forse in ogni generazione molti uomini che non arrivano fino ad essa, ma nessuno va oltre3.
Noi ora vorremmo dare uno sguardo panoramico alle Scritture riguardo al tema dell’incredulità , indicando soltanto qualche modello, nella consapevolezza che – contrariamente a quanto si suppone – il tema è vario e complesso e ben innestato nel tessuto teologico biblico, per cui si può effettivamente parlare di una teologia biblica della non credenza. Certo, e lo si vedrà subito, non ha senso, in un contesto strutturalmente religioso, spesso sacrale e fin teocratico, andare alla ricerca di un ateismo teorico e sistematico coerente e cosciente. Eppure, se la negazione assoluta è assente, non manca la gamma delle tipologie subordinate che vanno dal sarcastico «Dov’è il tuo Dio?» dei «nemici» o delle «genti» (Sal 42,4.11; 79,10) al Dio muto a cui sopra si accennava, dalla negazione pratica degli empi e dei malvagi, che sono spesso sotto il mirino della letteratura sapienziale, all’interrogazione su «quale Dio» individuare e, quindi, al Dio ignoto di Atti 17,23, dall’oligopistÃa del discepolo (Mt 14,31) fino alla sua apistÃa, come accade a Tommaso (Gv 20,27).
Proprio per questo motivo, quando ho avuto occasione di dirigere la costituzione di un dizionario biblico, ho sempre sollecitato l’introduzione di una voce Ateo o Ateismo4, pur nella consapevolezza dell’obiezione riguardante questa terminologia cosà connotata nell’accezione moderna, aliena alla mentalità biblica e per altro ormai poco accettabile anche da parte della contemporaneità «laica». Essa, infatti, tende a escludere formulazioni considerate solo «negative» e, perciò, indirettamente «apologetiche», appunto come «ateo» (che poi avrebbe un parallelo antitetico insoddisfacente in «teista»), «incredulo» (che si opporrebbe a uno sgradito «credulo»), «agnostico» (che all’antipodo avrebbe uno sconcertante «gnostico»), «razionalista» (a cui farebbe da contraltare un inaccettabile «fideista»), «non credente», visto come troppo esemplato e ricalcato sul «credente», pietra di paragone. Alla fine di una tale «innominabilità » di chi non ha divinità – fatta eccezione per i fondamentalisti marginali sullo stile dell’Unione Atei Agnostici Razionalisti italiani5 che proclamano tali titoli in modo apologetico – molti hanno optato per l’inglese humanist che, però, non è ancora soddisfacente, soprattutto perché il credente stesso può considerarsi tale, costringendo cosà il non credente all’aggiunta di un’ulteriore specificazione, anch’essa però ambigua, «umanista laico o secolare».
La lunga disquisizione lessicale – come avviene sempre quando si procede in un simile orizzonte – è tutt’altro che nominalistica, perché denota la difficoltà a delineare un profilo che la Bibbia stessa ci insegna essere mobile e fluido, certamente molto di piú della netta e circoscritta categoria della fede, pur nella complessità e variabilità a cui anch’essa è sottoposta. L’uso che faremo di alcuni dei termini «negativi» sopraindicati è, pertanto, solo convenzionale e a finalità pratica. È noto, tra l’altro, che l’aggettivo greco átheos ricorre una sola volta nella Bibbia (Ef 2,12) ed è appunto vigorosamente intrecciato con la «positività » della fede attraverso cinque nessi definitori negativi
[...] senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza, senza Dio.
È altrettanto evidente che non è possibile allegare tutto il dossier lessicale sinonimico riguardante aggettivi di uso prevalentemente sapienziale, che contengono componenti tematiche inerenti al nostro soggetto: ad esempio, raša′ o nabal, la cui iridescenza semantica e il relativo uso biblico ricoprono uno spettro piuttosto ampio e variegato.
La negazione etico-esistenziale.
Il modello biblico di incredulità piú importante e incisivo per la nostra limitata finalità di ricerca è indubbiamente quello che potremmo definire come «etico-esistenziale». Concretamente è quella forma di indifferenza teologico-morale di solito classificata come «ateismo pratico», che ha una sua propria declinazione nell’odierna secolarizzazione. Non è in causa il Dio «in sé», ma il Dio «per noi», in relazione esterna rispetto alla sua essenza. Come si diceva, non è una negazione teorico-metafisica, ma funzionale-relazionale, un po’ come accade specularmente (e antiteticamente) per la stessa fede biblica che non si impegna piú di tanto sull’essenza di Dio, ma sul suo rivelarsi, sulla sua teofania cosmico-storica.
Ora, ironizzare, come fanno i perversi condannati nel terzo dei sei «Guai!» di maledizione raccolti nel capitolo 5 di Isaia sull’improbabilità dell’intervento divino nella storia umana – «Faccia presto, acceleri pure l’opera sua perché la possiamo vedere; si facciano piú vicini e si compiano i progetti del Santo di Israele perché possiamo conoscerli» (5,19; cfr. anche 5,12 ove gli stessi «atei» «non vedono l’opera delle sue mani») – è per la Bibbia radicalmente antireligioso perché significa destoricizzare la Rivelazione, negando di conseguenza il suo cuore, cioè la storia della salvezza. Questo retroterra ideale, com’è stato spesso ribadito, regge le celebri e reiterate negazioni apparentemente assolute e «teoriche» di Dio presenti nell’Antico Testamento. Emblematico è il caso del salmo 14, che ha una riedizione «elohista» (a Jhwh viene sostituito ’elohîm e si introducono alcune varianti nel corso della composizione) nel salmo 536.
Protagonista è appunto il nabal, significativo tópos etico-esistenziale sapienziale, che incarna l’«empio», ma anche lo «stolto» perché è latore di un’antisapienza, e l’«incosciente» con una venatura di stampo morale (il «senza coscienza»). La sua affermazione è apparentemente teorica: ’en ’elohîm, «no Dio!», «Dio non c’è!» Ma essa non dev’essere confusa col celebre «Dio è morto», il Requiem aeternam Deo del Nietzsche della Gaia scienza, che avrebbe come sbocco la divinizzazione paradossale dell’uomo col «Gloria all’Uomo nell’alto dei cieli, perché è l’Uomo il Signore delle cose», come cantava nel suo Inno dell’Uomo il poeta inglese ottocentesco Algernon Ch. Swinburne7. Il senso è, invece, di indole «sperimentale»: Dio non c’è qui ora, nella vicenda storica, la sua azione non è verificabile nelle vicende umane, è disinteressato e relegato nella sua trascendenza, indifferente ed estraneo alla storia terrena. L’incredulità raggiunge, cosÃ, il suo apice non tanto nella negazione dell’essere di Dio quanto piuttosto nella cancellazione della storia della salvezza e dell’alleanza con Israele. È per questo che un simile asserto risulta per la Bibbia particolarmente grave in sede teologica piú che filosofica.
Il suo esito principale è, allora, in ambito pratico, nell’orizzonte morale ove scatta l’indifferenza etica e la caduta della stessa escatologia. L’introduzione del Dio «apatico», cioè privo di pensiero e passione e, quindi, di identità personale, rigetta da un lato l’«Io sono» della rivelazione esodica e il Dio giudice giusto e, d’altro lato, induce il relativismo morale. Infatti, subito dopo, il salmista annota che questi insipienti empi
[...] sono corrotti, commettono azioni inique, nessuno di essi agisce bene
[…], hanno traviato, sono tutti corrotti, non v’è nessuno che agisca bene,
neppure uno! [14,2.4 e 53,1.3].
e viene persino offerta un’esemplificazione nel loro agire da sfruttatori del popolo (14,5; 53,4). Il classico triangolo delle suppli...