Questi racconti fanno parte del saggio In nome del figlio che ho scritto con mio padre nel lontano 1995. I miei racconti servivano ad aprire i capitoli sull’adolescenza scritti dal professore. Ci siamo divertiti a lavorare insieme e abbiamo litigato come un padre e un figlio quando siamo andati a presentare il libro in giro per l’Italia. Non voleva che guidassi perché non si fidava. Sono passati diciassette anni e ancora adesso si lamenta quando sto al volante. Il tempo non passa mai tra un padre e un figlio.
Michele entrò in camera. In mano stringeva un manico di scopa spezzato. Come prima cosa prese a bastonate un po’ tutti i mobili della stanza. Poi salí in piedi sulla vecchia poltrona di pelle vicino alla finestra.
– Pippo, Pippo, guarda che ho inventato! – disse.
Suo fratello Filippo stava sdraiato sul letto a leggere per la centesima volta Asterix in Corsica.
– Che vuoi?
– Ho fatto un’invenzione nuova. Vieni a vedere.
Michele inventava di tutto: un frullatore che funzionava da ventilatore, una scatola di scarpe con dentro un kit di sopravvivenza nel caso in cui uno si fosse perso in bagno o in cucina, una slitta di stracci con cui aveva rotto la vetrata del corridoio e uno spara-batterie fatto con un tubo dell’acqua con cui aveva quasi fatto secca sua sorella Roberta.
Michele aveva dieci anni e Filippo dodici.
– Ho inventato un telecomando. Un telecomando per la televisione.
Quella del telecomando era un’annosa e lunga questione.
La famiglia di Filippo aveva da tempo immemorabile un vecchio e scassato televisore in bianco e nero Grundig.
Sembrava sempre che dentro quell’apparecchio nevicasse. Tutto: i film, i documentari, il telegiornale avevano qualcosa di nebbioso, come se i programmi si svolgessero in mezzo a una bufera di neve.
L’acquisto di un televisore a colori veniva rimandato dal padre di Filippo con regolarità al Natale successivo ma a pochi giorni dal 25 dicembre spuntavano fuori spese impreviste: tasse, debiti, rate e l’acquisto si rimandava all’anno successivo.
Filippo e Michele invidiavano un sacco Pietro, il bambino che abitava al terzo piano. I suoi genitori avevano in salotto una specie di gigantesco scatolone americano con un telecomando che sembrava una macchina da scrivere.
– Vieni, vieni, – lo pregò Michele con la sua voce lamentosa.
Afferrò per una manica il fratello e lo trascinò a forza in salotto.
– Guarda.
Si sedette a tavola.
Allungò un braccio e con la mazza colpí il televisore un paio di volte facendo un baccano infernale. Alla terza botta, finalmente, centrò il pulsante di accensione. La tele si illuminò.
Furia, il cavallo del West, nitrí dallo schermo.
– Guarda.
Colpí ancora la grossa pulsantiera dei canali. Primo, secondo, reti private.
– È un telecomando.
– Come è un telecomando?
– Sí, è un telecomando di legno, – disse Michele mentre un sorriso che andava da un orecchio all’altro gli deformava la faccia. Si aggiustò gli occhiali di ferro sul naso e si rimise su la frangetta.
– Com’è questa invenzione? – continuò.
Filippo prese il manico della scopa, si sedette anche lui a tavola e assestò un paio di colpi all’apparecchio facendolo vacillare.
Sí, si riusciva a cambiare. Si poteva mangiare e comodamente cambiare canale.
Suo fratello era un genio.
– Molto buona. Sai che facciamo? La regaliamo a papà questa sera.
– Va bene. Però gli dici che l’ho inventata io.
– Sí.
Il padre di Michele e Filippo, il signor Mario D’Antoni, non si vedeva spesso a casa in quel periodo. Aveva da poco aperto con un suo amico un’agenzia di viaggi e tornava la sera distrutto e spesso di malumore. Gli affari non gli andavano molto bene.
Ma quella era una giornata particolare e il signor D’Antoni sarebbe stato conciliante.
Era sabato. E il sabato alla tele c’era Sandokan e i pirati della Malesia. Filippo contava i giorni tra una puntata e l’altra.
Per cena si riuní tutta la famiglia.
Filippo, Michele, Roberta, la sorella di sedici anni, la signora e il signor D’Antoni. Tutti appiccicati allo schermo a guardare lo sceneggiato. Sandokan piaceva a tutti e la mamma di Filippo preparava per l’occasione la famosa «pasta alla Sandokan», che poi non era nient’altro che pasta al burro, parmigiano e basilico.
Filippo era molto eccitato e contento anche perché il giorno dopo, domenica, era in programma una gita in campagna.
La famiglia D’Antoni era alla ricerca del posto ideale per fare un picnic. Una consuetudine smentita solo dalle domeniche piovose o troppo fredde.
Filippo adorava la campagna e quello che piú gli piaceva era fare da avanguardia al suo drappello di parenti e cercare i posti migliori dove farli accampare. Correva in avanti con suo fratello alle costole e lanciava bombe a mano, guardava la bussola e ogni tanto saltava in aria colpito dalle mine antiuomo.
– Domani dove andiamo a fare la gita? – domandò al padre.
– Domani andremo vicino Tuscania, risaliremo un torrente a valle e cercheremo le famose grotte dove vive l’orso laziale dai denti a sciabola.
Il padre di Filippo e Michele riusciva sempre a dare un tono epico alle loro gite fuori porta. La settimana prima erano stati a Tarquinia nella necropoli a cercare il fantasma del «lucumone», l’antico re degli Etruschi.
Entrò la madre di Filippo con una zuppiera tra le mani. La posò al centro della tavola.
Filippo si gettò sul cibo. Si riempí il piatto e se lo mise davanti.
– Aspetta Filippo! Servi prima gli altri. Io non capisco come mai sei cosí maleducato, – gli disse la madre sbuffando.
Filippo prese il piatto che aveva davanti e lo passò a suo fratello. Poi cominciò a prepararne un altro per la sorella.
– Papà. Papà. Abbiamo un regalo per te, – disse improvvisamente Michele con il boccone in bocca.
Il bambino si alzò e tornò poco dopo con il manico di scopa avvolto nella carta da pacchi. Si sedette.
– Tieni.
– Che cos’è? – fece il padre poco convinto. C’era il telegiornale.
– Apri.
Il signor D’Antoni strappò rapidamente la carta e tirò fuori il manico di scopa. Poi lo poggiò contro il muro e riprendendo a guardare la televisione disse:
– È un bellissimo regalo ma ora mangia la pasta perché se no si raffredda. E poi non ti alzare da tavola.
– Guarda papà.
Michele scese di nuovo dalla sedia e corse dal padre.
– Ho detto di non alzarti da tavola. Cristo.
Michele afferrò con due mani il manico, lo portò sopra la testa, si alzò in punta di piedi e prese la mira.
E poi colpí.
– Guard… – la parola gli si ruppe in bocca.
Non colpí il televisore.
Era troppo lontano e Michele era troppo in basso. Colpí la tavola. Il manico della scopa come una mannaia si abbatté sul centro della tavola.
La zuppiera con la «pasta alla Sandokan» si aprí in due spargendo pasta sulla tovaglia. Il bicchiere di sua sorella Roberta schizzò in aria in mille pezzi. La bottiglia dell’olio rotolò fino al bordo del tavolo e precipitò sulla camicia del padre.
Ci fu un attimo di silenzio. Tutto sembrava essersi fermato nella stanza.
La signora D’Antoni a bocca aperta con la bottiglia di vino in mano. Il signor D’Antoni che si reggeva orripilato la camicia unta. Roberta D’Antoni che guardava i pezzi di bicchiere sparsi tra gli spaghetti.
– Micheleeeee! – urlò Mario D’Antoni.
– Michele sei il solito deficiente, – gli ragliò dietro Roberta.
– La mia zuppiera di Vietri, – si lamentò la signora Gabriella.
Filippo si mise le mani nei capelli.
È morto. Mio fratello è morto.
Si sentiva vagamente colpevole, mortificato, per quello che aveva fatto suo fratello. Lui non c’entrava niente se suo fratello era un cretino ma nonostante questo aveva dentro qualcosa simile alla colpa.
È colpa mia. Gliel’ho detto io.
Michele fu il primo a riprendersi.
– Mamma! Mamma te la incollo io la zuppiera. Che ho fatto! – miagolò. Poi guardò meglio il disastro che aveva combinato e scoppiò a piangere.
Filippo si alzò e cominciò a raccogliere la pasta dal tavolo.
– Non mettere le mani lí! È pieno di vetri. Ti tagli, – gli urlò sua madre.
Michele continuava a piangere. Roberta dall’orrore era passata al riso che nascondeva con una mano davanti alla bocca.
– Smettila di frignare. Ma sei impazzito. Guarda che hai fatto, – fece il signor D’Antoni. Stava seduto al suo posto con un ghigno sulla bocca a metà tra il disperato e il furioso.
– Ma papà… – singhiozzava Michele.
– Guarda che mi ha fatto alla camicia. È da buttare. Gabriella non dirmi che non si può lavare.
– E che ti devo dire, Mario. Quella neanche in lavanderia…
Filippo si avvicinò al fratello e cercò di consolarlo. Ma Michele aveva attaccato con uno di quei pianti diluviali che non terminavano mai.
– Dài Michi, smettila. È solo che hai sbagliato il colpo… Ma il telecomando è mitico.
Gli faceva pena suo fratello. Non ne combinava mai una buona. Aveva delle intuizioni geniali che finivano sempre in un guaio. E questo era proprio bello grosso.
– Io sono stanco. Non ce la faccio piú. Lavoro come uno schiavo. Voi mi volete far morire… Questi due mi faranno venire un infarto… Non imparano niente, – continuò affranto il signor D’Antoni.
Perché mi ci mette dentro sempre anche me quando si arrabbia con Michele? Io che cosa c’entro? pensò Filippo. Voleva chiederglielo ma non era il caso. Era meglio farlo sfogare. Era meglio stare zitto e aspettare che la bufera passasse, che cacciasse fuori tutto il nero che aveva dentro, poi forse ci poteva parlare di nuovo.
Intanto alla televisione era incominciato Sandokan. Nessuno sembrava farci caso.
Roberta e la madre sparecchiavano. Il padre continuava a strillare. Era una specie di ciclone che si autorigenerava.
– Papà guarda che Michele ti voleva fare un regalo, – ...