Rosa candida
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Rosa candida

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Rosa candida riesce a fare quello che ogni lettore si aspetta da un libro: trasportarti in un luogo sicuro, al di fuori del tempo, in uno stato di perfetta innocenza e felicità. Un luogo non molto diverso, a pensarci bene, da quello che raggiunge il giovane Lobbi, giardiniere per vocazione e genitore per caso: il roseto incantato di uno sperduto monastero. Qui un monaco cinefilo si prenderà cura di lui, delle sue rose e delle sue paure. Ma la cosa piú grande che imparerà il candido e stralunato Lobbi sarà l'essere padre. Lobbi ha ventidue anni quando accetta di prendersi cura di un leggendario roseto in un monastero del Nord Europa. È stata la madre, morta da poco in un incidente d'auto, a trasmettergli l'amore per la natura, i fiori e l'arte di accudirli, il giardinaggio. Cosí Lobbi decide di lasciare l'Islanda, un anziano padre perso dietro al quaderno di ricette della moglie, e un fratello gemello autistico. Lascia anche qualcun altro: Flóra Sól, la figlia di sette mesi avuta dopo una sola notte d'amore (anzi, precisa lui, «un quinto di notte») con Anna.
Con sé Lobbi porta alcune piantine di una rara varietà di rose a otto petali, molto cara alla madre, la Rosa candida. Questi fiori saranno i silenziosi compagni di un viaggio avventuroso come solo i viaggi che ti cambiano la vita sanno essere. Ad accoglierlo al monastero c'è padre Thomas, un monaco cinefilo che con la sua saggezza e una sua personale «cineterapia » saprà diradare le ombre dal cuore di Lobbi. Ma sarà soprattutto l'arrivo di Anna e Flóra Sól in quell'angolo fatato di mondo a provocare i cambiamenti più profondi e imprevisti nell'animo del ragazzo. Perché, per la prima volta, Lobbi scopre in sé un desiderio nuovo, che non è solo amore per la figlia e attrazione per Anna: è il desiderio di una famiglia.
Rosa candida è una gemma piccola ma preziosa che in Francia è diventata un autentico caso letterario grazie al passaparola di lettori e librai affascinati dalla sua forza pacata e magnetica. I commenti dei critici e quelli dei lettori sono unanimi nel riconoscere a Rosa candida qualità che sconfinano nell'incanto: «A volte, - scrive una lettrice su internet, - hai l'impressione di sentire il profumo delle rose uscire da queste pagine. Un profumo che si mescola con quello del neonato che diventa lentamente un bambino». Oppure, un altro lettore: «Che splendida storia: pura e rinfrescante come una cascata!» Mentre «Le Point» scrive: «Quanto è dolce questo romanzo, e quanto è delicato e profondo! Di una purezza rara. Può darsi che i bambini non nascano tra le rose, ma una cosa è certa: in Islanda i romanzi sì». Insomma, un entusiasmo contagioso: «Invidio chi non ha ancora letto Rosa candida ». *** «Non c'è niente di piú piacevole di questo romanzo d'esordio: una bolla di delicatezza e autenticità sfuggita a un'epoca, la nostra, che non conosce piú queste parole». «Elle» *** «Una frase del romanzo lo descrive molto bene: "Guardo solo film piú grandi della vita". Questo è un libro piú grande della vita. Inizi a leggere e ti ritrovi in uno stato di grazia. L'opposto dei libri che vuoi finire in fretta, perché noiosi o pieni di suspense: qui assapori ogni frase. Una delizia». (dal commento di una lettrice su Amazon)

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806210137

Rosa candida

Ecco, io vi dò ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo.


Genesi, 1,29.

A mia madre

Uno

Poiché sto per lasciare il paese e non ho idea di quando tornerò, il mio anziano padre settantasettenne ha deciso che la nostra ultima cena sarà memorabile. Preparerà qualcosa ispirandosi al quaderno di ricette scritte a mano dalla mamma, qualcosa che lei stessa avrebbe cucinato in un’occasione del genere.
– Ho pensato, – mi dice, – al merluzzo impanato e fritto, e a una zuppa di cacao con la panna montata –. Lascio papà ad armeggiare in cucina alle prese con la zuppa di cacao e vado a prendere Jósef in istituto con la vecchia Saab che ha ormai diciassette anni. Lo trovo sul marciapiede che mi aspetta da un po’. Sorride, è proprio contento di vedermi. Per la mia serata è tutto in ghingheri: indossa una camicia viola a farfalline, l’ultima che la mamma gli ha comprato.
Mentre papà fa soffriggere la cipolla e i tranci di pesce aspettano, belli e pronti, su un letto di pangrattato, m’incammino verso la serra per prendere le talee di rosa che porterò via con me. Un attimo dopo papà mi vien dietro con le forbici: gli serve un po’ di erba cipollina per il merluzzo. Jósef lo segue in silenzio e si ferma fuori accanto ai cumuli di neve, a osservarci: non entra piú qui da quando ha visto i danni causati dalla tempesta di febbraio, con vetri rotti ovunque e finestre in frantumi. Lui e papà indossano lo stesso tipo di gilet, marrone a rombi gialli.
– La mamma tritava sempre l’erba cipollina sul pesce, – dice papà. Allora gli tolgo le forbici di mano, mi allungo verso il cespuglietto verde intenso che cresce in un angolo, ne taglio le cime e gliele passo. Come lui mi ricorda regolarmente, sono io l’erede designato della serra della mamma. Non che sia una coltura gigantesca, la nostra: non possediamo certo trecentocinquanta piante di pomodori e cinquanta di cetrioli da tramandare di generazione in generazione; giusto le rose che provvedono a se stesse, senza bisogno di particolari cure, e le poche pianticelle di pomodoro rimaste (a occhio e croce una decina). Papà le annaffierà mentre sarò via.
– Le verdure non sono mai state la mia passione, mio caro Lobbi. Piuttosto erano il pallino della mamma. Io riuscirei a mangiare al massimo un pomodoro alla settimana. Quanti pomodori hai detto che può dare ogni pianta?
– Almeno prova a regalarli.
– Non è che posso bussare di continuo alla porta dei vicini con i miei pomodori in mano.
– E se li dài a Bogga?
Glielo domando anche se ho il sospetto che la vecchia amica della mamma abbia gli stessi gusti di papà.
– Non ti aspetterai mica che vada a trovarla tutte le settimane con tre chili di pomodori. Insisterebbe per farmi rimanere a cena.
Già intuisco quello che sta per dire.
– Avrei voluto invitare la ragazza e la bambina. Ma chissà se tu saresti stato d’accordo…
– Esatto, non sono d’accordo. Io e la ragazza, come la chiami tu, non siamo una coppia e non lo siamo mai stati. Anche se abbiamo avuto una figlia, è stato un imprevisto.
Sono già stato molto chiaro con lui: papà sa fin troppo bene che la bambina è il frutto di un momento di imprudenza, e che la mia relazione con sua madre è durata un quarto di notte. O forse sarebbe meglio dire un quinto…
– La mamma non avrebbe avuto nulla in contrario a invitarle per la tua cena di commiato –. Papà riesuma la mamma ogni volta che vuole dare credito alle proprie parole.
Ma io, a trovarmi nello stesso luogo, per cosí dire, del concepimento, con il mio vecchio padre e il mio gemello ritardato appena al di là del vetro, mi sento un po’ strano.
Papà non crede alle coincidenze, o almeno non ci crede quando riguardano gli avvenimenti piú importanti dell’esistenza: la nascita e la morte, per esempio. La vita non si accende e non si spegne cosí per caso, dice lui. Che il concepimento possa essere la conseguenza di un solo incontro fortuito, e che a un uomo possa capitare di trovarsi a letto con una donna senza averlo preventivato, be’, lui proprio non riesce a capirlo. Non piú di quanto capisca che a volte la morte è il risultato di circostanze imprevedibili, come una pozzanghera o un po’ di ghiaia dietro una curva. Soprattutto se è possibile tirare in ballo altri fattori: calcoli e statistiche.
Papà la pensa a modo suo: è convinto che il mondo stia insieme grazie ai numeri, che le cifre siano il cuore stesso della creazione e che le date contengano verità profonde e una loro bellezza. Quelle che io chiamo, a seconda dei casi, coincidenze o fatalità, rappresentano per lui gli elementi di un sistema complesso. È inconcepibile, secondo lui, che si verifichino troppe coincidenze di fila. Una o due sí, ma tre mai. Non coincidenze ripetute in serie, quantomeno: il compleanno della mamma, il giorno della sua morte e la data di nascita della nipotina. Tutte e tre le ricorrenze coincidono sul calendario: il sette agosto.
Per quanto mi riguarda, fatico a comprendere i calcoli di papà, anche perché le mie esperienze mi suggeriscono che, proprio quando ci si aspetta che accada una determinata cosa, succede tutto il contrario. Non ho niente contro i passatempi di un elettricista in pensione, a patto che i suoi calcoli non vadano a interferire con la mia negligenza nell’uso dei contraccettivi.
– Senti, Lobbi. Non è che ti stai dando alla fuga?
– Certo che no. Ho salutato madre e figlia ieri.
A questo punto, siccome non trova le parole per continuare il discorso, decide finalmente di passare ad altro.
– Sai per caso se la mamma aveva una buona ricetta per la zuppa di cacao? Ho comprato la panna da montare.
– No. Ma potremmo provare a lavorarci insieme.

Due

Quando rientro, Jósef è seduto a tavola con le mani in grembo, dritto come un fuso, la cravatta rossa sulla camicia viola. Mio fratello ha una vera passione per i vestiti e i colori, e porta spesso la cravatta, come papà. Mio padre intanto ha regolato al massimo due fornelli: uno sotto la pentola con le patate e l’altro sotto la padella per friggere il pesce. Non sembra avere il pieno controllo della situazione, probabilmente è nervoso perché sto per partire. Gli gironzolo un po’ attorno e verso l’olio nella padella.
– La mamma di solito usava la margarina, – commenta.
Né io né lui siamo mai stati troppo bravi in cucina. Io, principalmente, dovevo svitare i coperchi dei vasetti di cavolo rosso e aprire con l’apriscatole i barattoli di piselli. A dire il vero la mamma mi faceva anche lavare i piatti e dava a Jósef il compito di asciugarli, ma dato che lui ci metteva una vita alla fine gli prendevo lo strofinaccio di mano e finivo io il suo lavoro.
– Mio caro Lobbi, non credo che avrai molte occasioni di mangiare di queste prelibatezze, nei prossimi tempi.
Non lo voglio ferire dicendo che, dopo quattro mesi passati in mare a sventrar pesci, se anche non dovessi toccare piú un solo filetto di merluzzo in vita mia, la cosa mi sarebbe del tutto indifferente.
A questo punto, poiché il papà vuole riservare al suo ragazzo un trattamento speciale, se ne esce a sorpresa con una salsa al curry.
– Sai, è una ricetta di Bogga.
La salsa ha un aspetto curioso: è di un bel verde acceso, proprio come un prato che brilla dopo un acquazzone di primavera. Gli domando perché ha quello strano colore.
– Ho usato il curry e un colorante per alimenti, – mi spiega lui. Intanto mi accorgo che ha anche tirato fuori un vasetto di marmellata di rabarbaro e l’ha messo vicino al mio piatto.
– È l’ultimo rimasto. La marmellata è quella della mamma, – dice. Lo osservo mentre rimescola la salsa nel tegame, di spalle, nel suo gilet marrone a rombi.
– Non avrai mica intenzione di mangiare il pesce con la marmellata di rabarbaro?
– No. Ma ho pensato che magari volevi portarla con te in viaggio.
Durante la cena mio fratello Jósef resta in silenzio e nemmeno papà parla molto; fra tutti, padre e figli, non diciamo granché. Servo una porzione di merluzzo al mio gemello e gli taglio le patate a metà. La salsa verde non la vuole neanche vedere: la raschia via da sopra il pesce con meticolosità e la concentra verso il bordo del piatto. Non c’è modo di sapere che cosa passi per la testa al mio fratellino dagli occhi castani, che somiglia in maniera impressionante a un attore famoso.
Per compensare il suo rifiuto e salvaguardare la serenità a tavola, esagero con il condimento di papà, e in quel preciso istante comincio a sentire un lieve dolore alla pancia.
Dopo cena lavo i piatti e Jósef prepara i pop-corn, come fa di solito quando torna a casa per il fine settimana. Dalla dispensa tira fuori la pentola con il fondo spesso, ci versa dentro tre cucchiai esatti di olio e la ricopre scrupolosamente con una pioggia di chicchi gialli di mais. Quindi mette il coperchio e regola il fornello al massimo per quattro minuti. Appena l’olio comincia a sfrigolare, abbassa la manopola sul due, prende la terrina di vetro e la saliera, e se ne sta a fissare la pentola finché l’opera non è conclusa. Poi ci sediamo tutti e tre sul divano e guardiamo il notiziario, con mio fratello che mi tiene per mano. La terrina di vetro è là, sopra il tavolino.
Come accade durante ogni visita settimanale, un’ora e mezza dopo il suo arrivo Jósef mi passa un disco di motivetti orecchiabili: è il momento di ballare.

Tre

Non porto con me molta roba: papà si stupisce di quanto poco voluminoso sia il mio bagaglio. Avvolgo le talee in fogli di giornale bagnati e le ripongo nella tasca anteriore del mio zaino. Saliamo sulla Saab (ce l’abbiamo da quando ho memoria), e Jósef si siede dietro in silenzio. Papà si mette il basco: lo indossa ogni volta che deve guidare per lunghe distanze, fuori città. Guida molto al di sotto del limite di velocità: dopo l’incidente non supera mai i quaranta all’ora. Attraversa le frastagliate distese di lava cosí lentamente che posso osservare il paesaggio con calma, fin dove arriva la mia vista: gli uccelli sono appollaiati a distanze regolari sulle cuspidi di lava viola che, strato dopo strato, sembrano conficcarsi nelle venature dell’alba come le note sulla partitura di una sinfonia malinconica, in crescendo.
Papà non è un autista esperto: di solito era la mamma a guidare. A poco a poco si forma dietro di noi una lunga coda, con gli altri veicoli che cercano di superarci continuamente. Ma questo non turba affatto la quiete del mio vecchio al volante. Quanto a me non ho certo paura di perdere l’aereo, perché papà è da sempre puntuale in tutto quello che fa.
– Vuoi che guidi io, papà?
– Grazie, mio caro Lobbi. Gentile da parte tua, ma preferisco di no. Goditi il panorama a cui stai per dire addio, piuttosto: non credo che avrai molte occasioni di attraversare in macchina queste distese di lava, nei prossimi tempi.
Rimaniamo in silenzio per un po’: in effetti ne approfitto «per godermi il panorama a cui sto per dire addio». Ma poi, appena superiamo l’incrocio che porta al faro, papà comincia a chiedermi dei miei programmi per il futuro, di quello che intendo combinare nella vita. Non è contento del fatto che io possa nutrire interesse per il giardinaggio.
– Mi scuserai, mio caro Lobbi. Non è per ficcare il naso o infastidirti, ma al tuo vecchio papà piacerebbe sapere qualcosina sui tuoi programmi per il futuro.
– Va bene.
– Ecco… hai deciso che cosa vorresti studiare?
– Ho trovato un lavoro nel settore del giardinaggio.
– Ma un ragazzo con le tue capacità…
– Su, papà, non iniziamo.
– Mi sembra che tu stia buttando via la tua intelligenza, tutto qui.
È difficile spiegarlo a papà, il giardino e le rose della serra erano la nostra passione. Mia e della mamma.
– La mamma avrebbe capito.
– Sí, tua madre era quasi sempre d’accordo con le tue scelte. Questo però non significa che non ti avrebbe appoggiato se ti fossi iscritto all’università.
Quando abbiamo traslocato nel nuovo quartiere, tutto era completamente brullo: distese di terra incolta e rocce in frantumi, consumate dall’erosione. C’erano palazzoni moderni ovunque e scavi per le fondamenta mezzi pieni di acqua giallognola. Solo molto piú tardi è apparso qualche cespuglio basso e rado. Gli edifici si affacciavano proprio sul mare: soffiava sempre un gran vento e non c’era modo di creare un angolino protetto nei giardini. Le persone avevano addirittura rinunciato a seminare le viole del pensiero. La mamma, invece, fu la prima a tentare l’impresa: voleva piantare addirittura alberi, rischiando di passare per matta. La gente si accontentava di uno spiazzetto d’erba o al massimo di una misera siepe (per potersi sdraiare a prendere il sole e godersi la brezza quei due o tre giorni in tutta l’estate). Ma lei piantava laburni, aceri, frassini e altri arbusti dietro la nostra abitazione, al riparo. E non si arrese mai, nemmeno quando fu costretta a ficcare i virgulti, per cosí dire, fra le pietracce.
L’estate dopo, papà aveva costruito la serra sul lato sud della c...

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