Oggi esco di giorno. Non aspetto la notte e i suoi fantasmi che ormai sono i miei unici amici.
Non aspetto che chiudano le vetrine della città . Mi serviranno aperte e in piena attività splendente. In base a quanto saranno luccicanti e invitanti, mi muoverò, sceglierò e comprerò o, almeno, ci proverò.
Non ho un’idea precisa di quello che vorrò acquistare.
Non ho bisogno di nulla, come sempre e non ho alcuna voglia di comprare. Mi annoia scegliere. Non so muovermi tra le cose e con certezza decidere per questa o quella maglietta, questo o quel pantalone. Bisogna conoscersi bene nei gusti per essere certi in una spesa qualsiasi.
Si devono avere necessità incombenti e forti per avere dei gusti precisi. Io non possiedo né gli uni né le altre.
Per le certezze, poi, servono le abitudini che io non ho mai avuto.
Motivo per cui, le vetrine dovranno letteralmente abbagliarmi, oggi.
Dovranno fare tutto da sole.
Voglio mettere alla prova la mia carne.
Come un bimbo ammaliato dalle mille luci di un giocattolo che non riconosce, come un cane che non sa il perché, ma corre piú in fretta che può verso la palla che lo ha invitato a farlo, lanciata a tradimento dal padrone, come un uomo che ama senza ragione, come un vecchio che insegue un bagliore e ci si tuffa dentro senza sapere che quella è la morte, cosà dovrò muovermi io e dovranno essere le vetrine a farsi guerra per attirarmi a colpi di luccichii, slogan adescanti, luci intermittenti, suoni insinuanti e giovani commesse.
Le commesse potrebbero vincere facile sugli altri dettagli, rendendoli vani al cospetto della loro luminescente bellezza, qualora ne siano munite con manifesta evidenza.
Cerco solo una risposta, è nello zaino: accetteranno le mie banconote di carne? Metto in fila le mie nuove banconote in ordine crescente di valore, peso e grandezza.
Non sono certo simili a quelle in circolazione proprio in quanto a peso e grandezza, ma mio padre vigila bene sulla loro autenticità .
In carne, ho denaro abbastanza per comprare qualsiasi cosa mi venga presentata come «indispensabile per il genere umano».
Dovrò darmi una ripulita.
Anch’io dovrò essere una buona vetrina, altrimenti non convincerò nessuno.
Una vetrina deve convincere a farti entrare, io a lasciar che io entri.
È semplicemente un gioco di convinzioni riflesse.
Mi tolgo ogni vestito che mi è rimasto appiccicato addosso da mesi e poggio tutto con cura sul divano di budino, quello nell’anticamera degli assenti.
Non voglio che almeno da quei vestiti se ne vada via il cattivo odore dell’odio e di quel giorno.
Non è un caso che abbia scelto quel divano come appendirobe.
Sistemo i miei putridi abiti in maniera tale da far finta che ci sia un uomo invisibile a indossarli mentre siede sul budino.
Io nudo, al centro della casa, osservo l’uomo di stoffa e mi rivedo.
Non è perché indossi i miei stessi capi, ma perché è niente esattamente come me.
E io ero niente, quella notte, davanti alla porta mentre sprofondavo lentamente nel budino di pelle nera del divano e nella mia immobilità di gesti e reazioni.
Lasciavo tutto lÃ, intatto com’era per tener vivo l’odio, intatto pure quello.
Non l’ho mai urlato.
Avevo il corpo bianco e scarno, ma senza fame nello stomaco da tempo ormai, da cosà tanto tempo che non facevo neanche piú caso al suono che la stessa fame poteva produrre nella mia pancia.
I graffi sulla pelle erano croste leggere, ragnatele disegnate alla perfezione.
Un ragno, su di me, si sarebbe sentito a casa, ma non protetto, perché le mie ragnatele erano solo disegni di sangue e non case di fili in 3D.
Sarebbe caduto anche lui.
Anche il ragno allora mi avrebbe odiato.
Provo a lavare via di dosso quelle illusioni per ragni, ma non ci riesco.
Restano intatte, al massimo si alleggeriscono nel segno, svuotandosi un po’ del sangue in crosta ormai già vecchio.
Spero di non illudere e deludere nessun ragno sotto questa doccia fredda.
Faccio in fretta.
Mi asciugo ancora piú in fretta.
Non sopporto il rumore dell’acqua.
In questa casa è troppo forte, è troppo rumore.
Non rimane nel bagno, ma risuona tra le pareti di tutta la casa, di tutto il palazzo, di tutta Bologna, della sola mia testa.
Quando sei solo, la doccia fa troppo rumore.
Bagnato attraverso la casa, nel cassetto scelgo una maglietta qualsiasi tra quelle appallottolate, un jeans nelle stesse condizioni.
Sotto il letto trovo calze e mutande.
Non so se vecchie o nuove, tanto non le vedranno di certo.
Scelgo una giacca leggera, cosà per sentirmi un peso addosso, a me che peso e sono meno di niente. Magari, darò anche l’impressione di averci perso del tempo nel vestirmi.
Si chiama cura per gli uomini di limone.
A proposito di limoni, manca un odore che convinca. Nel bagno, da qualche parte, è rimasta una bottiglia di quella insignificante acqua di colonia di Antonio. Me la spruzzo in faccia. Ne esce solo uno sputo leggero e neanche mi raggiunge, cosà decido di attaccarmi all’ultima goccia superstite strofinandomi senza pudore. Sento nel naso che qualcosa è cambiato sulla mia pelle. Almeno vicino alla bocca, o da qualche parte sul viso, sono diventato Antonio.
Ora sono una vetrina perfetta per vetrine.
Indosso lo zaino in spalla.
Pesa non esattamente quanto i soldi a cui corrispondono i pezzi di carne che contiene.
Da vetrina ora son convinto.
Mi farò scegliere dalle vetrine giuste e comincerò a comprare vendendo le mie nuove monete di carne.
Sul divano riposano i miei cattivi odori e per oggi, con loro, anche il mio odio.
Mi sento invaso di una nuova energia: la convinzione di quel che penso.
Esco.
Il caldo è sempre uguale a quello delle ultime venti primavere, ma come ogni anno, avvisano che quest’estate sarà la piú calda degli ultimi venti.
Da quel che ricordo, il caldo è sempre caldo e ogni volta che si presenta è insopportabile, piú di qualsiasi altro mai avuto.
Per cui, nulla di nuovo.
Il caldo è il caldo solito.
Non presagisce nessun’altra afosa sventura che se stesso.
Ho occhi solo per le vetrine dei negozi, ma per nessuna in particolare.
Cammino piano. Odoro di nuovo e di Antonio.
Mi confondo con i limoni, che non si accorgono minimamente che io non sono uno di loro e che non sono Antonio.
Tanto sanno tutti dello stesso odore quelli lÃ, perché non hanno pelle su cui spalmare bene i loro profumi.
Non c’è nessuna miscela originale di odori se non si ha pelle.
Odorano alla stessa maniera i limoni e io, che oggi sono Antonio, sono un po’ limone come loro.
Le vetrine, al mio passaggio, sentono di doversi mettere a lavoro come se non mi avessero riconosciuto, come se non si fossero accorte che ero uno per cui sarebbe stato vano mostrarsi vanitose.
Sta di fatto che io ci sono riuscito, a raggirarle, intendo.
Tutte insieme si accendono come per magia e se aguzzo le orecchie le sento addirittura parlare con voci stridule e veloci, perché hanno fretta di rubarmi alle concorrenti.
Mi parla una con piú calma e suadenza. Mi piace come non luccichi particolarmente. È strano: mi ero prefissato di restare affascinato come un bambino da quello da cui un bambino sarebbe stato piú attirato.
Tra il robot super-galattico-super-spaziale che aveva mio cugino e la foto in bianco e nero dei suoi nonni nella stanza dei giochi, mi colpiva la seconda, senza ombra di dubbio.
Nella stanza nuova di giochi, quei vecchi in una foto vecchia erano quanto di piú affascinante per me.
Allora come oggi non capisco ma mi attira altro rispetto alle luci e ai forti suoni.
Mi chiama a sé la vetrina spenta di un negozio di cornici, quadri e foto antiche.
Mi spingo verso quella.
Non mi respinge.
Alla porta nessuno lo fa, anzi, una voce mi invita a entrare.
Mi viene spontaneo pensare che l’accoglienza dolce della voce dipenda dal fatto che non mi abbia ancora visto.
Ma il pensiero mio muore nell’attimo esatto in cui mi vedo riflettere su uno specchio che condivido col riflesso dell’immagine della padrona del negozio, che almeno in quell’incontro di vetri mi sorride e ritorna sull’invito: – Prego. Entri pure.
Addirittura mi dà del lei.
Sono davvero una vetrina perfetta.
– Buongiorno signora, – le rispondo sicuro.
– Mi dica, di cosa ha bisogno, – e intanto dallo specchio usciamo insieme e ci avviciniamo in carne e ossa e lei ancora sorride.
– Mi piacerebbe quella cornice grande in vetrina e anche quella vecchia foto che custodisce, a dir la verità .
E a quelle parole, la figura mitologica della donna cassiera (umana dalla cinta in su, cassiera da quella in giú) si trasforma in donna intera per avvicinarsi di piú a me e poter prendere la cornice da me richiesta.
E la foto, pure quella.
Mi passa accanto e non abbandona per un attimo il sorriso.
– Eccoci qui. È una cornice bellissima. Non so quanto le possa servire questa foto. È vecchia. E non so nemmeno chi siano queste persone immortalate. Ma, certo, se la vuole! Gliela incarto subito!
Non ha neanche il dubbio che io non possa pagare per l’apparenza perfetta di quello che non sono, oppure costa cosà poco che sarebbe vergognoso dirmi il prezzo anche fossi il mendicante di carne che sono.
– Quanto costa, signora? – Le chiedo e il suo sorriso, ancora lÃ, sulla bocca si interrompe per dirmi la cifra: – 150 euro. È un ottimo prezzo per la qualità della cornice. E poi… le sto regalando anche la foto! ...