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Combray non si chiama Combray ma Illiers: oggi però i cartelli stradali e le guide lo designano per Illiers-Combray. Quivi, un museo intitolato a Marcel Proust: otto sale di prime edizioni, fotografie, calamai, flaconi di pastiglie per l’asma, giacche da camera, fazzoletti cifrati, canne da passeggio, ricco materiale tuttavia svalutato dalla sua stessa collocazione, che distendendosi dalla seconda all’ultima sala lo fa successivo all’unico oggetto presente nella prima sala, in una teca di plexiglas cm 35 x 20 x 25: la madeleine.
Nei primi anni del museo la madeleine era di autentica frolla: ad essa provvedeva il custode, che ogni lunedà mattina apriva la teca, rimuoveva il biscotto e lo sostituiva con uno fresco. Cosa poi il custode facesse del vecchio non è dato sapere: è verosimile lo mangiasse, non per questo deducendone alla crassità dei suoi lobi illuminazioni mnemoniche. La sostituzione settimanale della madeleine era dovuta alla sua impossibilità di indurirsi seccando: anzi come porosa e burrosa l’instabile pasta tendeva a disgregarsi perdendo dopo una dozzina di giorni uno spolviglio di forfora rancia, cui si aggiungevano piú cospicui frammenti se qualcuno urtasse la teca. Il direttore del museo aveva chiesto al pasticcere di mettere piú burro nell’impasto, ma l’esito non era stato buono: concotto dal calore degli interni faretti, quel sovrappiú di manteca allargava ben presto nella superficie spugnosa della madeleine fiori brunastri che le davano un incongruo aspetto leopardato: quando non evocassero la sofferenza della foglia di vite arrugginita dalla peronòspora. A non dir delle camole e dei piccoli vermi che, a dispetto di ogni ermetismo, nascevano sponte nella pasta rafferma: uscendone poi per darsi all’avventurosa esplorazione del loro tabernacolomondo, come a irridere ancora, i putrigeniti, alle positive dimostrazioni di Spallanzani e Pasteur.
Cosà il custode sostituiva, e continuò a sostituire fino al giorno in cui andò in pensione. Quello stesso giorno il direttore si trovò ad affrontare un problema sindacale. Il nuovo custode fece notare che il proprio mansionario non prevedeva quella speciale corvée, e che se proprio si doveva, gli fosse pagata a parte. Uomo puntiglioso, il direttore non volle sottostare: onde, dopo aver lasciato invecchiare quell’ultima madeleine ben oltre i limiti tollerabili, elaborò la soluzione che vige tuttora. Fu cosà che, commissionata a un laboratorio di giocattoli di Rouen, venne acquisita al museo una madeleine di plastica: un’imitazione perfetta, non fosse per il segno della saldatura fra le due valve della conchiglia-biscotto: secondo infallibile legge del pvc.
Tu la vedi, questa cosa, e ridi: ma è un pianto; e dici: se la letteratura genera questo, è questo, la letteratura. Ed è la vendetta del mondo, perché la letteratura che non si difenda dal mondo cos’è, se non mondo? E il mondo è qui polimero fuso: ma fuso a forma di letteratura, cosÃ, volessimo uscire, sappiamo che non si può, nemmeno ogni tanto.
… e però, invece, ha virtú letteraria, la cosa: perché guardandola io ricordo, sÃ, ricordo una vita e non mia; vedo la faccia drammatica di un uomo che cammina nei passages di Parigi; un uomo che si chiama Walter Benjamin.
Walter Benjamin alza lo sguardo alla volta di ferro e di vetro del passage des Princes, e ancora una volta s’incanta. Quella strada coperta che per il suo lucore larvale gli ha sempre ricordato un acquario è insieme un esterno e un interno, un limbo fra la strada e la casa: e un mentito scintillio di vetrine in assenza di luce; una mostra di merci nella mostra dell’onta (abitano là sopra, i negozianti, i cui bambini e i cui vecchi occhieggiano dalle lunule che sormontano le vetrine); un riparo dalla violenza della città , e l’intuizione piú intima di cosa sia, la città , come vederla in sezione, come vederla sognare… E in quel sognante corridoio dove si vorrebbe sedere come in una camera, e in quella camera in cui vorrebbe andare avanti e indietro come in un corridoio, Walter Benjamin, il sognatore, si sente invadere da una pregnanza che lo giustifica com’è giustificato il pesce dall’acqua. Su tutto l’incanta la volta, quel ferro sospeso in funzionale economia di tensioni, moderno! molto moderno, la stessa architettura delle gares… troppo moderno forse, e però temperato d’antico dal liberty vegetante, dalle scanalature Impero dei colonnini… antico e moderno allora, un ircocervo datato Ottocento in proiezione mà ntica e speculato dal Nove, ch’è il fascino speciale di Verne…
Esce dal passage des Princes, e rimanendo a Montmartre visita uno dopo l’altro il passage Verdeau, il passage Jouffroy, il passage Panoramas, poi si sposta verso i passages piú proletarî del boulevard Sébastopol e di rue Saint-Denis: qui s’infila per l’ennesima volta nel Trinité, nel Basfour, nel Ponceau, nel Caire, nell’Aboukir, dove sosta a lungo per assorbire compiutamente la fourieriana sordidezza di quegli intestini. E proprio a metà del passage d’Aboukir s’immobilizza estatico, fermo come un cristallo di purissima intelligenza: posa in cui si offre allo sguardo di un venditore di crostacei.
– Vedi quella statua? – dice il venditore a suo figlio sminestrando in un catino di crevettes. – Ha appena scritto un libro sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Tu riproducila un po’, l’opera, e ciao aura!
Devoto della democrazia e della dialettica, Walter Benjamin si era imposto di giudicare magnanimamente la dissacrazione subita dall’opera d’arte a partire dalla fine del secolo xix. In realtà la sua malinconia non aveva mai accettato la perdita d’aura inflitta dalla riproduzione industriale, ed era proprio questo che egli andava cercando in giro per Parigi: l’aura. Inseguita come un feticcio, l’aura gli si palesava nel quadro intravisto in un’anticamera, in una vecchia pompa idraulica, nel fermacapelli di una passante, nella baguette dipinta a mano sulla fiancata di un furgoncino: gli si palesava con uno scintillio, e scompariva. L’aura! L’aura dell’aura! Il brivido del sentore dell’alone dell’aura!
Questo pettirosso smaltato a mano su un bottone è un pettirosso irripetibile, pur essendo del 1908 è piú antico di una stampa di Épinal del 1775, pettirosso aurato, segnato… Cosà Benjamin deve acquistare il bottone, e mentre lo accarezza, nella sua tasca, ha una visione. Immagina perversamente di aggredire quello smalto con un coltellino di Solingen ricavandone un mucchietto di scaglie, che macinate con un sasso si trasformano poi in una polverina sottile: sulla quale, nella stanza della sua pensione di rue Caumartin, egli si vede versare alcune lacrime, amalgamando: «Pasta di commozione estetica Benjamin, – dice. – L’arte per tutti in pratici boli! Solo sei franchi la confezione!», oh se l’orrenda bestemmia lo diverte! A dispetto di Gutenberg e delle progressive sorti del mondo alienato, tipografia e nazismo il passo era breve, le punte dell’ancora di Manuzio come uncini di svastica, fotografia e nazismo il passo ancora piú breve, la responsabilità di Daguerre, di quei loschi Lumière… Su quella pasta, finalmente, avrebbe diffuso una presa di granelli amaranto, come un pizzico di zafferano: e sono, questi granelli, la tritatura degli stami e dei pistilli di alcuni fiori che crescono in un vaso sul davanzale della sua finestra, fiori che una settimana prima qualcuno gli ha effettivamente venduto come i discendenti di certi fiori famosi.
– Rue des Saints-Pères 8: vedete? È qui che viveva il signor Baudelaire quando ha scritto quel libro, che anno sarà stato? Boh! Sta di fatto che quando fu ricoverato la sua roba rimase qua, finché, dopo la sua morte, vennero dei signori a portar via tutto: tutto, tranne questo vaso, cosa doveva fare la portinaia, lasciarlo lÃ? Cosà lo prese, e dopo di lei lo prese sua figlia, che sarebbe poi mia madre, tutte portinaie noi, portinaie fin dalla notte dei tempi… Oh basta: è lo stesso vaso, capite cosa vuol dire? Sono gli stessi fiori! Oddio, i fiori no, quelli cambiano, neh, ma la piantina è la stessa, la radice dico, butta e ributta siam sempre daccapo… CosÃ, se a voi interessano, ’sti fiori, vi posso fare un prezzo speciale…
Sembravano stelle alpine un po’ mosce, azzurrine e venate di ruggine, esattamente come egli si era sempre immaginato gli asfodeli: cosà li comprò. Uscendo in strada con il vaso in mano si imbatté in un lustrascarpe.
– Non ditemi che è riuscita a venderveli!
– Me li ha venduti, perché?
– La megera! Sentite a me piuttosto, visto che vi interessa il genere: questo è un affare –. Cosà dicendo il lustrascarpe aveva estratto dalla sua cassettina un flacone trasparente pieno di un liquido grigiastro. – Non lo agiti troppo, – aggiunse porgendoglielo.
Benjamin lo esaminò controluce: il liquido, in cui rimanevano sospese alcune particole come di fuliggine, impose alla sua mente la sensazione di un pomeriggio piovoso di marzo.
– Sarebbe? – chiese.
– Roba di qualità : controllate.
Il lustrascarpe gli stava allungando un cartiglio arrotolato in cui verosimilmente il flacone doveva essere stato avvolto. Sul lato esterno, a guisa di etichetta, era scritto a mano: «Spleen di Parigi». 100 franchi tuttavia erano troppi. CosÃ, dopo lungo mercanteggiamento, Benjamin ottenne per 20 franchi che il lustrascarpe gli spruzzasse un po’ di spleen sui suoi fiori del male.
– Un po’ anche sulla terra, per favore.
– Eh, eh, qui si esagera, signore.
– Solo poche gocce, vi prego.
Alla fine anche la terra fu leggermente inumidita, e Benjamin, felice come un bambino, tornò alla sua pensioncina carico di scaturigine poetica. Nondimeno, non sarebbe mai stato Baudelaire, e questo era triste. Camminando nell’immensità di uno dei tanti boulevards di Haussmann, un altro nazista, vide una piuma nera cadere lenta dal cielo, e gli piacque pensare che fosse di un corvo. Vide una donna, e la pensò come una Gorgone; ne vide un’altra, e la seppe vampiro. E vide gatti, e gatti, e gatti, e sentendosi un visitato recitò a bassa voce:
Leurs reins féconds sont pleins d’étincelles magiques,
et des parcelles d’or, ainsi qu’un sable fin,
étoilent vaguement leurs prunelles mystiques.
In quelle pupille, diceva un’altra e piú famosa poesia, l’agata si mescolava al metallo. Il metallo! L’ancora di Manuzio, i cannoni nazisti, i proiettili delle pistole, ma là a Parigi il metallo era il ferro putrellato-bullonato della Gare du Nord e della torre Eiffel, quello della volta delle Halles lo era e quello della Gare d’Orsay, era quella la sua forma struggente, la stessa che gli assegnavano le illustrazioni del Nautilus nelle edizioni Hetzel, struttura di ferro bruno, tubi di rame inverdito, arredi di lucido ottone, aggiungendoci la luce del cielo dall’alto invetriato si avrà il passage, ma perché tutto quel ferro sprigionava un’aura non inferiore a quella di una pala d’altare del xiv secolo? Cosa c’era di magico, in quella sintassi industriale? Non capiva come, ma era evidente che anche l’opera prodotta in serie, soprattutto quando le sue ragioni tecniche prevalevano sull’ambizione estetica, era generatrice di aura, un’aura ritardata forse, un’aura indotta, ma proprio per questo ancora piú inquietante… Anzi, non molto tempo prima aveva letto il romanzo d’esordio di un medico francese, che con il piglio di un indemoniato raccontava di una visita alle officine Ford di Detroit: uomini-merce, sÃ, l’orrore dell’alienazione ma anche qualcosa di arcaico, una specie di danza, qualcosa di magico doveva averci trovato per parlarne cosÃ, come solo può chi sa guardare al presente come fosse già passato… Ora, passando davanti alla libreria Malassis, Benjamin vide esposto in vetrina un altro libro dello stesso autore. Si intitolava Morte a credito, e costava 25 franchi. «Troppi» pensò, poi vide che uno dei due editori si chiamava Steele, quasi come dire acciaio. Non sapeva che l’americano Bernard Steele era poco piú che una ragione sociale e che l’editore vero era l’altro, il belga Robert Denoël: cosà entrò nella libreria.
Walter Benjamin doveva continuare il suo saggio su Baudelaire; e quello su Kafka; e quello su Brecht; e soprattutto quello sui passages: invece da tre giorni non faceva altro che leggere Morte a credito sdraiato sulla sua branda. Rapito, sconvolto, riga dopo riga aveva la certezza di leggere il libro piú bello che fosse mai stato scritto. Sembrava che quello scrittore conoscesse un solo segno d’interpunzione: i tre puntini, ma quale ricchezza e varietà di effetti sapeva ritrarne! Giunto a pagina 68 trasalÃ: l’autore descriveva con orrore ed amore il luogo in cui era cresciuto, un luogo che si chiamava passage des Bérésinas: com’era potuto sfuggirgli? Un passage cosà lungo, stando al racconto, con non meno di cinquanta botteghe, lungo e alto, con una volta vetrata da cui anche nelle giornate piú belle pioveva una luce grigia malata, e dove tutto l’anno ristagnava un odore di cavoli stufati, passage des Bérésinas! dove la madre dello scrittore aveva un bugigattolo pieno fino all’inverosimile di biancheria da rammendare e di pizzi da restaurare, passage des Bérésinas l’acquario-oloturia, una specie di rutto sospeso nel corpo del palazzo, decorata ferita che lo trapassava da parte a parte, là il piccolo Louis-Ferdinand aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza, forse i suoi puntini erano i bulloni di quella struttura di ferro, doveva andarci, subito! Guardò in una cartina di Parigi ma quel nome non era indicato; allora riaprà il romanzo, e trovò che quel passage partiva da rue Choiseul, una traversa di rue du Quatre Septembre a metà strada fra la Borsa e l’Opéra: e là immediatamente si avviò.
Parigi gli sembrò orrenda quel giorno, e ancora una volta dal suo cervello partirono efferate maledizioni alla memoria di Georges-Eugène Haussmann, barone e prefetto. Accelerò il passo verso la sua meta con l’idea assurda che una volta là dentro avrebbe dormito, spogliandosi di tutte le proprie angosce.
Arrivato in rue Choiseul impiegò molto tempo a trovare quel che cercava, un po’ perché il passage des Bérésinas si chiamava in realtà , piú semplicemente, passage Choiseul, e un po’ perché per entrarci bisognava varcare un portone semichiuso che non si distingueva in nulla da tutti gli altri portoni. Entrato, ebbe l’impressione di essere nel passage piú serio di tutta la città : serio perché geloso del proprio essere passage, orgoglioso di esserlo e insieme affranto da quel peso. Lo percorse tutto, poi tornò ind...