Il ghiaccio fra le mani
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Il ghiaccio fra le mani

  1. 250 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il ghiaccio fra le mani

Informazioni su questo libro

Jeannot è tornato. Dopo trent'anni in cui ha vagabondato per le foreste insieme alle ossa dell'uomo che ha ucciso due volte e il ricordo di un cane che cantava agli spettri, Jeannot è tornato. È tornato nel villaggio che aveva fondato lui stesso, anni prima: un manipolo di cercatori d'oro e taglialegna, di uomini impastati di coraggio e disperazione che hanno strappato quel brandello di terra alle silenziose immensità delle foreste del Nord canadese. Ma ciò che la maggior parte degli uomini scambia per silenzio è la voce delle creature che abitano le accecanti tenebre della neve: loup-garou e ijirait, mutaforma e divinità indiane, streghe del mare e il misterioso caribù dorato. Jeannot ne distingue le voci, ne conosce i nomi e le magie. Ma è tornato troppo tardi, dopo che il figlio Pierre e la nipotina sono stati inghiottiti dal fiume, forse a causa di una maledizione che grava sul patriarca: il ghiaccio non dimentica e il bosco pretende sempre qualcosa dagli uomini che hanno l'audacia - o la follia - di sfidarlo.
Da quali demoni (non solo interiori) sta fuggendo Jeannot? Cosa successe a Pierre e alla sua mano mozzata, o quale destino attende Stephen, l'ultimo discendente della famiglia e narratore di questa storia composta di mille storie? L'unica cosa che si sa, per ora, è che Jeannot è tornato per uno scopo: far rivivere la moglie morta.
Perché Il ghiaccio fra le mani è la storia di un villaggio e di tre generazioni, di uomini e dèi, di spettri e animali, di vivi e morti. Ma soprattutto è la storia di amori così forti da attraversare le foreste del tempo, di corpi che nell'abbraccio danno fuoco ai ghiacci eterni.
Zentner racconta i legami misteriosi e sfuggenti che uniscono il cuore della natura più selvaggia a quello degli uomini, e lo fa come se un García Márquez del Nord raccontasse una sinistra fiaba dei fratelli Grimm: il buio di una foresta impenetrabile, il gelo di una strega dei ghiacci, la paura di una tormenta imminente. Ma tutto ciò viene, a ogni pagina, illuminato dall'amore di personaggi così reali che nessun lettore avrà il coraggio di abbandonarli nella tormenta. *** «Certi scrittori impiegano un'intera carriera a scrivere un romanzo come questo. Zentner ce l'ha fatta al primo colpo». «National Post» *** «Zentner ha creato uno dei personaggi più originali e interessanti degli ultimi anni, una figura degna di Gabriel García Márquez». «The Washington Post»

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806205652
eBook ISBN
9788858405741

Dieci

Ceneri

In quel lungo inverno, i miei nonni credettero di essere perseguitati da un fantasma. Fecero il necessario per tirare avanti – la carne del corpo di Gregory bastò a sostentarli, anche se Jeannot giurava che si sentiva piú affamato a ogni boccone – ma a volte pensarono di trovarsi sull’orlo della follia. Ogni scricchiolio di assi nella notte, ogni slittamento della neve accumulata, ogni scoppiettio della legna nel focolare evocava il passo o la voce del minatore. Sepolti vivi sotto uno strato cosí profondo da suscitare il timore che il sole non esistesse piú, persero entrambi il conto dei giorni. Sopravvissero nutrendosi dell’uomo che avevano ucciso e guardarono il ventre di Martine che si arrotondava mentre mio padre cresceva dentro di lei.
Quando finalmente a luglio smise di nevicare, nessuno a Sawgamet, uomo o donna – Jeannot e Martine compresi – se ne accorse; nel villaggio, persino gli edifici di tre piani erano coperti dal manto bianco. Ma entro il diciassette del mese l’inverno finí una volta per tutte. Il sole alzò le temperature, creando un clima che avrebbe richiesto le maniche corte se non fossero stati tutti sepolti.
Al bordello, Pearl fu il primo a notare il gorgoglio dell’acqua che gocciolava dalla massa di neve compatta. All’inizio della nevicata, Pearl aveva concluso la notte del matrimonio di Franklin e Rebecca pagando per l’abbraccio di una donna – una donna che, ho il sospetto, finí poi per diventare la signora Gasseur, sebbene circolassero solo dicerie in proposito – e l’indomani mattina, trovandosi bloccato dal resto del mondo, non si rammaricò della propria situazione.
Le ragazze disponevano di abbondanti scorte alimentari – la tenutaria gestiva un ristorante come attività collaterale – e in capo alle prime settimane cominciarono ad annoiarsi quanto Pearl; non importava che lui avesse finito i soldi. Quando la bufera si placò abbastanza a lungo per consentirgli di aprirsi una strada fino alla sua capanna, la neve si era accumulata al punto da togliergli ogni desiderio di tentare. Sebbene lavorasse nei boschi alle dipendenze di mio nonno, Pearl continuava a vivere nella sua vecchia concessione mineraria, a un paio di chilometri di distanza. Ammesso che fosse riuscito ad arrivarci, sapeva cosa lo aspettava. I cercatori rimasti avrebbero passato il tempo a scavare e dormire, scavare e dormire, scavare e dormire. A un certo punto avrebbero ucciso i muli per mangiarseli, e se avessero avuto un po’ di buonsenso – cosa di cui non era troppo sicuro – avrebbero cominciato ad aprire gallerie nella neve sperando di raggiungere il villaggio e il cibo. Un miracolo improbabile, considerata la distanza. Puntare nella direzione giusta lungo un tunnel di due chilometri è molto piú difficile che orientarsi percorrendo lo stesso tragitto a piedi, eppure valeva la pena provarci. Qualsiasi cosa è meglio che morire di fame al freddo e al buio.
Ma infine, a luglio, Pearl udí il gorgoglio dell’acqua invece del lieve fruscio della neve. Aprí la finestra dell’ultimo piano e scavò verso l’alto con le mani finché non avvistò il cielo sereno e luminoso. Impiegò quasi un intero minuto per capire che aveva finalmente smesso di nevicare ed era arrivata l’estate. Pearl tolse neve quanto bastava perché si diffondesse un po’ di chiarore nella camera, e poi invitò le ragazze a raggiungerlo. Gli si affollarono intorno e si fermarono nello splendore di una luce che brillava senza il fumo soffocante di uno stoppino mal spuntato o il tremulo guizzo di una candela. Nessuno avrebbe saputo dire chi fosse scoppiata a ridere per prima, ma l’ilarità le contagiò tutte, e risero per ore, fino a quando non tramontò il sole.
Alla segheria, Martine svegliò Jeannot dal suo sonno leggero. Uno stillicidio d’acqua penetrava dalle fessure nella parete e si accumulava in una piccola pozza sul pavimento. Entrambi ascoltarono in silenzio i lamenti della neve che si assestava sotto l’effetto del nuovo tepore. Lavorando con cautela, al riparo del vano della porta, mio nonno intaccò il soffitto del tunnel e scavò verso l’alto. Usò la neve rimossa per costruire dei gradini, allargando l’apertura man mano che procedeva perché la galleria non gli crollasse addosso. Avvicinandosi alla cima, cominciò a vedere dapprima un fievole chiarore e poi un candore cocente. Il bianco e la luce erano accecanti.
Il sole si rifletteva sulla neve e i raggi si rifrangevano sulla sua superficie, creando un tale fulgore che Jeannot ebbe l’impressione di sentirsi sciogliere gli occhi. Con gli occhi chiusi, si rese conto che insieme alla luce erano tornati i rumori. Durante la nevicata, lui e Martine avevano legna da ardere e petrolio a sufficienza per l’intero inverno: cionondimeno, trascorrevano una buona metà di ciascuna giornata al buio, sforzandosi di far passare il tempo dormendo. Regnava l’oscurità che si può sperimentare solo sottoterra, una completa assenza di ogni fonte luminosa. Ma in quei mesi era stato assai piú difficile abituarsi alla mancanza di suoni. All’inizio i miei nonni sentivano il vento e il picchiettare della neve contro le pareti dell’edificio, ma dopo un po’ anche questi rumori erano cessati, lasciandoli in un silenzio interrotto solo dai bisbigli immaginari dell’uomo che avevano ucciso; dopo aver massacrato Gregory, né Jeannot né Martine avevano piú trovato molto da dirsi.
In quel primo giorno all’aperto, i miei nonni passarono parecchie ore semplicemente in cima alla scala gelata, entrambi incapaci di escogitare un sistema per avventurarsi sulla neve. A ogni tentativo di Jeannot, il manto bianco cedeva sotto il suo peso, facendogli temere di rimanervi sepolto. Alla fine si limitarono a rientrare nella segheria. L’indomani il gorgoglio si era fatto piú sonoro, e un sottile velo d’acqua fluiva in continuazione attraverso il pavimento. A intervalli di pochi minuti, l’edificio gemeva e scricchiolava, e i chiodi cigolavano per la pressione della neve che si spostava e si assestava.
Due giorni dopo che Jeannot era sbucato in superficie, riemersero sgombre le cime degli alberi, e dal loro punto di osservazione lui e la moglie poterono vedere il verde dei pini. Rimasero là a guardare gli uccelli che sfrecciavano di ramo in ramo, e uno scoiattolo si avvicinò abbastanza perché mio nonno riuscisse ad abbatterlo con un colpo di badile. Quella sera mangiarono un diverso genere di stufato per cena. Il sole splendeva cosí caldo da indurli a spogliarsi quand’erano lassú, finché non si resero conto che i raggi intensi li stavano scottando impietosamente.
Ogni giorno si inerpicavano in superficie e osservavano lo sciogliersi della neve, sempre bloccati all’imboccatura del loro cunicolo. Ciononostante, alla fine di luglio, furono colti alla sprovvista dalla voce che li chiamava. All’inizio pensarono fosse l’ennesimo scherzo della fantasia. Nelle lunghe tenebre dell’inverno, costretti alla silenziosa compagnia reciproca, avevano immaginato spesso di sentir parlare qualcun altro – di solito Gregory, ma talvolta persone con cui avevano una familiarità meno stretta –, e sebbene quei fantomatici richiami interrompessero il loro sonno, avevano imparato a ignorarli. Ma adesso, al vociare, Flaireur sollevò la testa. Quasi anche lui avesse udito suoni a cui non riusciva a credere, l’animale si rizzò all’erta, e poi, con un atteggiamento che sembrava manifestare una grande gioia, cominciò ad abbaiare.
Jeannot e Martine, sentendosi come cani della prateria che si affacciano all’imboccatura della tana, salutarono l’uomo dalla cima della scala di neve. Il nuovo arrivato li dominava dall’alto, con i piedi legati a rozze racchette la cui intelaiatura sembrava ricavata da due schienali di sedia, e la rete pareva fatta di biancheria di seta ridotta a brandelli. Il visitatore portava soltanto un paio di pantaloni leggeri e una canottiera, ma aveva la testa avvolta in una sciarpa; i miei nonni gli scorgevano a malapena gli occhi nella stretta fessura dalla quale li guardava. Solo quando si abbassò quella protezione, Jeannot riconobbe Pearl Gasseur.
Mio nonno costruí a propria volta delle racchette rudimentali con qualche pezzo di legno. Pearl lo aiutò a inerpicarsi in superficie, e poi entrambi diedero una mano a Martine a uscire dalla neve. Dovevano procedere con lentezza: le abborracciate strutture di assi erano ingombranti e per di piú Martine faticava a mantenere l’equilibrio per via del ventre enorme. Il sole li investiva con un gradito calore. Sottili rivoli intersecavano il manto nevoso a poca distanza l’uno dall’altro, e si udiva l’eco di uno scroscio sonoro.
– È un fiume, – spiegò Pearl.
– Si è già sgelato? – Sebbene fossero in mezzo al bosco, Jeannot si fermò e cercò di scrutare tra gli alberi, quasi potesse avvistare il corso d’acqua.
– No, non il Sawgamet. Un fiume nuovo, formato dalla neve che si scioglie. Ribolle tutto. L’acqua corre in superficie, aprendosi la propria strada –. Pearl si strinse nelle spalle. – Forse scorre sopra il Sawgamet, seguendone i canali, passando per gli stessi avvallamenti del terreno, ma non sono in grado di dirlo –. Indicò gli alberi tra cui avanzavano, le cime e i rami ai loro piedi. – Malgrado questo disgelo furibondo c’è ancora uno strato di neve alto cinque o sei metri qua sotto. Vi avrei oltrepassati senza accorgermene se il tetto della segheria non fosse spuntato fuori e se non avessi visto il vostro cunicolo con quella maestosa scalinata.
Quando uscirono dal bosco, si fermarono a guardare l’acqua. Come Pearl, né Martine né Jeannot riuscirono a capire se la sua corsa tumultuosa replicasse quella del Sawgamet o tracciasse un diverso itinerario. Il flusso aveva una notevole ampiezza, una trentina di metri da un’estremità all’altra, e spumeggiava e ribolliva come non avevano mai visto fare al fiume nemmeno durante l’impeto del disgelo primaverile. Tronchi spezzati e macigni venivano trascinati via sotto i loro occhi, precipitando a valle senza rimpianti.
– Guarda, – disse Martine distogliendo l’attenzione di Jeannot da quello spettacolo. Davanti a loro si scorgeva qualche indizio del villaggio. Sembrava ci fossero appena una mezza dozzina di case, di cui spuntava dalla neve unicamente la parte superiore, dando l’impressione di edifici a un solo piano. Individuarono due donne in abiti succinti sedute su quello che doveva essere il tetto di una veranda e, piú in basso, l’affiorare di una capanna nei pressi delle miniere.
Passarono parecchie ore a scavare in cerca dell’emporio di Franklin prima di riuscire finalmente a trovarlo: se ne accorsero quando il badile di Jeannot rimbalzò sul colmo del tetto. Mio nonno vi batté contro piú volte il manico della vanga, e dopo un breve intervallo udí un grido smorzato e una serie di colpi in risposta ai suoi. Mentre arrancava verso la segheria per prendere la scure, Pearl condusse Martine al bordello. Le prostitute la accolsero abbracciandola e meravigliandosi delle dimensioni del suo ventre. La fecero sedere su una delle loro poltrone troppo imbottite, le portarono una scodella di minestra con una fetta di pane appena sfornato, le massaggiarono i piedi gonfi con una lozione profumata. Martine stava cosí comoda in mezzo a quegli agi da non accorgersi nemmeno che Jeannot era tornato e stava demolendo il tetto del negozio di suo fratello.
La struttura cedette rapidamente sotto l’accetta di mio nonno. Quando si aprí il primo squarcio, delle dimensioni di un piatto, apparvero i volti girati all’insú di Franklin e Rebecca. I due stavano sotto il foro e fissavano Jeannot, battendo le palpebre come gufi sbigottiti dalla luce del giorno.
– Mi hai fatto un buco nel tetto, – esclamò Franklin con un accenno di confusione nella voce, quasi non gli venisse in mente nient’altro da dire dopo tutti i mesi passati sotto la neve.
– Sto cercando di liberarti.
– Ma semplicemente scavare non avrebbe provocato meno danni?
Jeannot posò la testa dell’ascia sull’orlo dell’apertura e si mise a ridere. – Mi hai preso in castagna, Franklin. Ero cosí entusiasta alla vista del tetto che non ho nemmeno pensato di cercare la porta. Martine sarà felice di trovarti in buona salute. A proposito, spostati un po’. Dato che ormai il danno è fatto, tanto vale che allarghi il buco abbastanza perché possiate uscire.
Vibrò la scure, spaccando ancora per ampliare il foro, e poi, con piú delicatezza, per pareggiarne i bordi. Quando ebbe finito, Franklin spinse il bancone sotto il varco, vi sistemò sopra una cassa e, spingendo da sotto mentre Jeannot tirava da sopra, aiutò la moglie a salire in superficie.
Nel vedere Rebecca – incinta, anche se non proprio grossa come lei – Martine scoppiò in lacrime. Provava un gran sollievo, confidò alla cognata, per non aver dovuto partorire sepolta sotto nove metri di neve. Nelle ultime settimane aspettava l’arrivo del bambino da un momento all’altro, e sulla poltrona troppo imbottita del bordello, con la scodella di minestra vuota accanto a sé e Rebecca di fronte, appesantita dallo stesso ventre gonfio che l’aveva gravata piú a lungo di quanto si aspettasse, le parve di sperimentare una sorta di salvezza.
Jeannot, Franklin e Pearl decisero che la soluzione piú sensata per tutti era quella di trasferirsi nel bordello mentre la neve continuava a sciogliersi. Jeannot non accennò alla perniciosità delle scorte alimentari quasi esaurite rimaste alla segheria – anche se, ne sono sicuro, lui e mia nonna non furono gli unici abitanti di Sawgamet a nutrirsi di carne umana per sopravvivere a quell’inverno – ma concordò sul fatto che sarebbe stato piacevole godersi un po’ di compagnia per qualche giorno. Quella sera organizzarono una specie di festa, con dolci e un’oca arrosto abbattuta da Pearl con un colpo di fucile.
L’indomani, Franklin aprí l’emporio a Pearl e alle ragazze del bordello, e li aiutò a calarsi giú attraverso l’apertura nel tetto. Comprarono ago e filo, seta, boccette d’inchiostro e acqua di colonia. Malgrado si sentisse quasi spezzare il cuore, il mio prozio chiese prezzi di poco superiori ai costi sostenuti per procurarsi le mercanzie, e condivise gratuitamente farina, zucchero, frutta sciroppata e tè con le ospiti del postribolo. In cambio, per parecchie settimane successive, le prostitute coccolarono sua moglie e sua sorella e cucinarono per loro.
Franklin, Jeannot e Pearl impiegavano le giornate collaborando per riportare alla luce i cinque accampamenti di cercatori che mostravano qualche segno di vita. Dove le miniere sotterranee erano protette da una copertura, Jeannot si apriva una strada con la scure. Gli uomini di solito emergevano adagio, con cautela, il volto esangue e gli occhi socchiusi come quelli delle talpe, spaventati da tanta luce. Avevano le guance infossate e gli abiti che pendevano dalle membra scheletrite, quasi avessero passato l’inverno a scavare nella propria carne anziché nelle viscere della terra. Erano deboli, e puzzavano talmente che prima di lasciarli entrare nel bordello la tenutaria insistette perché si lavassero in una grande tinozza di rame piazzata sul tetto della veranda. Ciascuno attese il suo turno, quindi si spogliò, aggiunse i vestiti alla pila di indumenti da bruciare e poi si strofinò per bene nell’acqua calda e pulita che le donne portavano su per le scale, una pentola dopo l’altra, e si passavano attraverso la finestra.
Dopo aver liberato dalla neve tutti e cinque gli accampamenti – quasi quaranta cercatori in totale – Jeannot, Franklin e Pearl si erano sentiti ripetere molte volte la stessa storia. Gli uomini erano rimasti a lavorare fino allo stremo delle forze nelle rispettive miniere, all’inizio senza neppure rendersi conto della terribile situazione cui sarebbero andati incontro, troppo esaltati dalla prospettiva dell’oro. In seguito, quando non c’era stato piú modo di fuggire, avevano cominciato a razionare gallette e fagioli, per poi ridursi a macellare i muli – se non peggio – e a succhiare il ghiaccio per avere l’illusione della sazietà. Riemergevano talmente deboli che spesso permettevano ai soccorritori di portarli al bordello in braccio come lattanti, e le donne li trattavano come tali; tornarono a pagarle solo alla fine di agosto.
La maggioranza dei minatori recuperò la salute, mi raccontò mio nonno, anche se ce ne fu uno che non riacquistò piú la vista. Faceva parte di un gruppo di cinque uomini che si erano tenuti al caldo grazie alla presenza di una sorgente termale scoperta per caso. Privi di combustibile per il fuoco, con candele e petrolio a sufficienza soltanto fino a gennaio, avevano trascorso quasi sei mesi nell’oscurità piú completa, mangiando gallette e fagioli crudi e imparando a non fidarsi delle voci dei compagni. Ben presto si era adottata l’abitudine di tastare la faccia di chi parlava nel tentativo di indovinarne intenzioni e sentimenti. Tornati in superficie, quattro di loro tennero le palpebre ben chiuse per difendersi dalla luce, socchiudendole solamente a poco a poco e per gradi nel corso di una settimana, ma Alfred, l’unico del gruppo, spalancò gli occhi per salutare il sole nell’attimo stesso in cui lasciò la miniera. Le sue pupille, avvezze alle tenebre, non distinsero tra la cecità del buio e quella provocata dal fulgore del giorno, e divennero lattiginose e irrimediabilmente prive della facoltà di vedere. Per quanto fosse un uomo piacevole malgrado la menomazione, mio nonno diceva che non sopportava di stargli vicino, e quando Alfred tornò all’Est per raggiungere la famiglia ne fu contento; i suoi occhi biancastri gli ricordavano l’odore di rancido e la pelle, livida come quella di un pesce, della strega che aveva rubato la voce a Flaireur la prima notte a Sawgamet; gli riportavano in bocca il sapore nauseabondo della carne di Gregory.
Jeannot e gli altri liberarono dalla neve anche una sesta miniera, dove però non c’erano superstiti a parte un mulo grasso e annoiato in mezzo agli scheletri ben ripuliti di una dozzina di cercatori. Nonostante Pearl avesse suggerito di uccidere la bestia e seppellirla laggiú insieme ai morti come in una specie di tomba, mio nonno lo convinse che avrebbero potuto aver bisogno dell’animale nei mesi successivi.
Terminati i lavori nelle zone minerarie, i tre compagni scorsero un filo di fumo ben oltre l’area in cui pensavano potesse esserci qualcuno, e scoprirono il colmo del tetto e il camino di una piccola capanna che spuntava appena dalla neve. Sgomberato lo spazio davanti alla porta abbastanza da aprirla, trovarono all’interno Xiaobo, il cinese assunto come domestico da Martine e Jeannot. Sembrava aver perso la ragione; era nudo, e cominciò a inveire contro i suoi salvatori, cercando di respingerli. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il ghiaccio fra le mani
  3. Copyright
  4. I. Ghiaccio
  5. II. Uccelli
  6. III. Casa
  7. IV. Boom
  8. V. Boschi
  9. VI. Angeli
  10. VII. Qallupilluit
  11. VIII. Neve
  12. IX. Sale
  13. X. Ceneri
  14. XI. Acqua
  15. XII. Fine
  16. Ringraziamenti