Il cervello di mio padre
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Il cervello di mio padre

  1. 30 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il cervello di mio padre

Informazioni su questo libro

Quando, esattamente, abbiamo perso la persona che abbiamo perso? E quando la potremo incontrare di nuovo, se nemmeno il ricordo è un terreno saldo su cui incontrarci? Perché la memoria, ci dice Franzen, non è l'archivio sicuro in cui tutto si conserva, ma una lastra fragile e pericolosa come il ghiaccio sopra un lago, in cui alcune cose rimangono imprigionate e altre, la maggior parte, non fanno che affondare.
Per tentare di dare un senso alla lotta del padre con l'Alzheimer, l'autore delle Correzioni non smette di interrogarsi su ciò che ci definisce individui, sulla natura dei legami familiari, sul funzionamento della memoria. Il cervello di mio padre è probabilmente il testo piú emozionante, intenso e doloroso di Jonathan Franzen: eppure, al termine del racconto, il lettore si scopre diverso, attraversato dalla pace di una serenità raggiunta.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
eBook ISBN
9788858407448

Jonathan Franzen

Il cervello di mio padre

Traduzione di Silvia Pareschi

Einaudi

Questo è uno dei miei ricordi. In un nuvoloso mattino di febbraio del 1996, ricevetti per posta da St Louis il pacco di San Valentino di mia madre, che conteneva una romantica cartolina d’auguri rosa, due barrette Mr Goodbar da un etto, un cuore cavo di filigrana rossa con un anello di spago per appenderlo, e una copia del referto del neuropatologo che aveva compiuto l’autopsia sul cervello di mio padre.
Ricordo l’intensa luce grigia di quel mattino invernale. Ricordo di aver lasciato le barrette, la cartolina e il ninnolo in soggiorno, di aver portato il referto dell’autopsia in camera da letto e di essermi seduto a leggere. Il cervello (cosí cominciava il referto) pesava 1255 grammi e presentava un’atrofia parasagittale con dilatazione sulcale. Ricordo di aver convertito i grammi in libbre e le libbre in equivalenti familiari, i vassoi di carne cellofanati del supermercato. Ricordo di aver rimesso il referto nella busta senza leggere nient’altro.
Qualche anno prima di morire, mio padre aveva preso parte a una ricerca sulla memoria e l’invecchiamento finanziata dalla Washington University, e uno dei benefit per i partecipanti era un’autopsia cerebrale gratuita. Presumo che la ricerca offrisse altri benefit sotto forma di controlli medici e terapie, cosa che aveva spinto mia madre, che adorava gli omaggi di qualunque genere, a insistere perché mio padre si offrisse volontario. La parsimonia era anche, con tutta probabilità, l’unico motivo cosciente per cui aveva inserito il referto dell’autopsia nel mio pacco di San Valentino. Stava risparmiando i trentadue centesimi del francobollo.
I miei ricordi piú nitidi di quel mattino di febbraio sono visivi e spaziali: la barretta Mr Goodbar gialla, il mio trasferimento dal soggiorno alla camera da letto, la luce del tardo mattino di una stagione lontana dal solstizio d’inverno quanto dalla primavera. Eppure so di non potermi fidare nemmeno di questi ricordi. Secondo le teorie piú recenti, che si fondano su un gran numero di ricerche neurologiche e psicologiche condotte negli ultimi decenni, il cervello non è un album in cui i ricordi vengono immagazzinati separatamente come fotografie inalterabili. Un ricordo è, invece, come afferma lo psicologo Daniel L. Schacter, una «costellazione temporanea» di attività – un’eccitazione inevitabilmente approssimativa dei circuiti neuronali che collegano un insieme di immagini sensoriali e dati semantici per creare la sensazione momentanea di un ricordo unitario. Immagini e dati sono raramente appannaggio esclusivo di un unico ricordo. In realtà, mentre stavo vivendo l’esperienza di quella mattina di San Valentino, il mio cervello si stava basando su categorie preesistenti di «rosso» e «cuore» e «Mr Goodbar»; il cielo grigio che vedevo dalla finestra mi era familiare in seguito ad altre mille mattine d’inverno; e io avevo già milioni di neuroni impegnati nel ritratto di mia madre – la sua tirchieria con i francobolli, il suo romantico attaccamento ai figli, la sua rabbia persistente nei confronti di mio padre, la sua bizzarra mancanza di tatto, e cosí via. Secondo i modelli piú recenti, dunque, il mio ricordo di quel giorno è formato da un insieme di collegamenti neuronali fra le regioni del cervello interessate, e da una predisposizione dell’intera costellazione ad accendersi – chimicamente, elettricamente – quando qualsiasi segmento del circuito venga stimolato. Pronunciate le parole «Mr Goodbar» e chiedetemi di associarle liberamente, e se non dirò «Diane Keaton» dirò senz’altro «autopsia cerebrale».
Il mio ricordo di San Valentino funzionerebbe in questo modo anche se lo stessi rivangando adesso per la prima volta. Ma il fatto è che ho ri-ricordato quella mattina di febbraio innumerevoli volte da allora. Ho raccontato la storia ai miei fratelli. L’ho presentata come un Bizzarro Episodio Materno ai miei amici che amano questo genere di cose. L’ho persino raccontata, mi vergogno ad ammetterlo, a persone che conosco pochissimo. Ogni ulteriore rievocazione e narrazione consolida la costellazione di immagini e nozioni che formano il ricordo. A livello cellulare, secondo i neuroscienziati, ogni volta imprimo il ricordo piú in profondità, rafforzando i collegamenti dendritici fra i suoi componenti e incoraggiando ulteriormente l’attivazione di quello specifico insieme di sinapsi. Una delle grandi virtú adattative del nostro cervello, la caratteristica che rende la nostra materia grigia assai piú intelligente di qualsiasi macchina finora inventata (l’ingombro hard disk del mio portatile o il World Wide Web che insiste a rievocare, nei minimi dettagli, un sito di Beverly Hills 90210 il cui ultimo aggiornamento risale al 20/11/98), è la nostra capacità di dimenticare quasi tutto quello che ci è successo. Del passato conservo ricordi generici, prevalentemente divisi in categorie (un anno trascorso in Spagna; diverse serate in ristoranti indiani in East Sixth Street), ma relativamente pochi ricordi di episodi specifici. Tendo a ritornare sui ricordi che conservo, e in questo modo li rafforzo. Essi diventano letteralmente – morfologicamente, elettrochimicamente – parte dell’architettura del mio cervello.
Il modello di memoria che ho descritto in questo compendio piuttosto approssimativo, da profano, stimola lo scienziato dilettante che è in me. Tale modello si adatta perfettamente alla qualità dei miei ricordi, confusi e vividi allo stesso tempo, e incute soggezione con la sua immagine di reti neuronali che si autocoordinano spontaneamente, con un parallelismo su vasta scala, per creare la mia fantasmatica coscienza e il mio fortissimo senso dell’io. Lo trovo affascinante e postmoderno. Il cervello umano è una rete formata da cento, forse addirittura duecento miliardi di neuroni, con migliaia di miliardi di assoni e dendriti che si scambiano milioni di miliardi di messaggi per mezzo di almeno cinquanta trasmettitori chimici diversi. L’organo con cui osserviamo e cerchiamo di capire l’universo è di gran lunga l’oggetto piú complesso che conosciamo in quell’universo.
E tuttavia è anche un pezzo di carne. A un certo punto, forse piú tardi in quello stesso giorno di San Valentino, mi sforzai ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il cervello di mio padre
  3. Il libro
  4. L’autore
  5. Dello stesso autore
  6. Copyright