La spiaggia
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La spiaggia

  1. 136 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La spiaggia

Informazioni su questo libro

Tra le amare baldorie paesane in Piemonte e l'oziosa vita di spiaggia in Liguria, prendono corpo, in questo romanzo pubblicato nel 1942, i temi della narrativa pavesiana: l'amicizia, le radici, le descrizioni di paesaggi indimenticabili. Doro si è sposato, ha lasciato Torino per Genova e da troppo tempo non vede un suo vecchio amico, un professore piú che trentenne. Ma in un giorno d'estate, Doro ritorna. A quanto dice, gli è semplicemente venuta voglia di rivedere il suo paese, eppure l'amico di un tempo non gli crede: lo accompagna per i luoghi della loro giovinezza e intanto prova a scavare sotto quella scorza taciturna ed evasiva, alla ricerca di un dramma intimo. Il professore continuerà a cercare quel dramma anche quando seguirà Doro al mare, e soprattutto quando incontrerà la moglie del suo amico, Clelia: una donna volubile e affascinante. Troppo forse, perché il suo matrimonio funzioni. Un romanzo intenso e malinconico sui misteriosi e ambigui sentimenti che lasciano gli individui soli dinanzi al loro ineluttabile destino.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806234010
eBook ISBN
9788858408858

La spiaggia

Il testo de La spiaggia, qui riprodotto, è quello scelto ed emendato per il volume di C. Pavese, Tutti i romanzi cit.

I.

Da parecchio tempo eravamo intesi con l’amico Doro che sarei stato ospite suo. A Doro volevo un gran bene, e quando lui per sposarsi andò a stare a Genova ci feci una mezza malattia. Quando gli scrissi per rifiutare di assistere alle nozze, ricevetti una risposta asciutta e baldanzosa dove mi spiegava che, se i soldi non devono neanche servire a stabilirsi nella città che piace alla moglie, allora non si capisce piú a che cosa devono servire. Poi, un bel giorno, di passaggio a Genova, mi presentai in casa sua e facemmo la pace. Mi riuscí molto simpatica la moglie, una monella che mi disse graziosamente di chiamarla Clelia e ci lasciò soli quel tanto ch’era giusto, e quando alla sera ci ricomparve innanzi per uscire con noi, era diventata un’incantevole signora cui, se non fossi stato io, avrei baciato la mano.
Diverse volte in quell’anno capitai a Genova e sempre andavo a trovarli. Di rado erano soli, e Doro con la sua disinvoltura pareva benissimo trapiantato nell’ambiente della moglie. O dovrei dire piuttosto ch’era l’ambiente della moglie che aveva riconosciuto in lui il suo uomo e Doro li lasciava fare, noncurante e innamorato. Di tanto in tanto prendevano il treno, lui e Clelia, e facevano un viaggio, una specie di viaggio di nozze intermittente, che durò quasi un anno. Ma avevano il buon gusto di accennarne appena. Io, che conoscevo Doro, ero lieto di questo silenzio, ma anche invidioso: Doro è di quelli che la felicità rende taciturni, e a ritrovarlo sempre pacato e intento a Clelia, capivo quanto doveva godersi la nuova vita. Fu anzi Clelia che, quand’ebbe con me un po’ di confidenza, mi disse, un giorno che Doro ci lasciò soli: – Oh sí, è contento, – e mi fissò con un sorriso furtivo e incontenibile.
Avevano una villetta in Riviera e sovente il viaggetto lo facevano là. Era quella la villa dove avrei dovuto esser ospite. Ma in quella prima estate il lavoro mi portò altrove, e poi devo dire che provavo un certo imbarazzo all’idea d’intrudermi nella loro intimità. D’altra parte, vederli, come sempre li vedevo, nella loro cerchia genovese, passare trafelato di chiacchiera in chiacchiera, subire il giro delle loro serate per me indifferenti, e fare in sostanza tutto un viaggio per scambiare un’occhiata con lui o due parole con Clelia, non valeva troppo la pena. Cominciai a diradare le mie scappate, e divenni scrittore di lettere – biglietti d’auguri e qualche cicalata ogni tanto, che sostituivano alla meglio la mia antica consuetudine con Doro. A volte era Clelia che mi rispondeva – una rapida calligrafia snodata e amabili notizie scelte con intelligenza fra la cangiante congerie dei pensieri e dei fatti di un’altra vita e di un altro mondo. Ma avevo l’impressione che fosse proprio Doro che, svogliato, lasciava a Clelia quell’incarico, e mi dispiacque e, senza nemmeno provare grandi vampe di gelosia, mi staccai da loro dell’altro. Nello spazio di un anno scrissi forse ancora tre volte, ed ebbi un inverno una visita fugace di Doro che per un giorno non mi lasciò un’ora sola e mi parlò dei suoi affari – veniva per questo – ma anche delle vecchie cose che c’interessavano entrambi. Mi parve piú espansivo di una volta e ciò, dopo tanto distacco, era logico. Mi rinnovò l’invito a passare una vacanza con loro nella villa. Gli dissi che accettavo, a patto però di vivere per conto mio in un albergo e trovarmi con loro soltanto quando ne avessimo voglia. – Va bene, – disse Doro, ridendo. – Fa’ come vuoi. Non vogliamo mangiarti –. Poi per quasi un altr’anno non ebbi notizie e, venuta la stagione del mare, per caso mi trovai libero e senza una mèta. Toccò allora a me scrivere se mi volevano. Mi rispose un telegramma di Doro: «Non muoverti. Vengo io».

II.

Quando l’ebbi davanti estivo e abbronzato che quasi non lo conoscevo, l’ansia mi si mutò in dispetto. – Non è il modo di trattare, – gli dissi. Lui rideva. – Hai litigato con Clelia? – Macché.
– Ho da fare, – diceva. – Tienimi compagnia.
Passeggiammo tutta la mattinata, discorrendo persino di politica. Doro faceva discorsi strani, diverse volte gli dissi di non alzare la voce: aveva un piglio aggressivo e sardonico che da tempo non gli avevo piú veduto. Provai a chiedergli dei fatti suoi con l’intenzione di tornare su Clelia, ma lui subito si mise a ridere e disse: – Lasciami stare la bottega. Ce ne infischiamo, mi pare –. Allora camminammo un altro poco in silenzio, e io cominciai ad aver fame e gli chiesi se accettava qualcosa.
– Tanto vale se ci sediamo, – mi disse. – Tu hai da fare?
– Dovevo partire per venire da voi.
– Allora puoi tenermi compagnia.
E si sedette per primo. Sotto l’abbronzatura girava a volte intorno gli occhi bianchi, irrequieti come quelli di un cane. Adesso che l’avevo di fronte me ne accorsi, come pure che pareva sardonico in gran parte soltanto per il contrasto dei denti con la faccia. Ma lui non mi lasciò il tempo di parlarne e disse subito:
– Quanto tempo che non siamo insieme.
Volli vedere fin dove arrivava. Ero seccato. Anzi accesi la pipa per fargli capire che avevo il tempo dalla mia. Doro tirò fuori le sue sigarette dorate, e ne accese una e mi soffiò in faccia la boccata. Tacqui, aspettando.
Ma fu soltanto col buio che si lasciò andare. A mezzodí mangiammo insieme in trattoria, affogando nel sudore; poi ritornammo a passeggiare, e lui entrò in diversi negozi per darmi a intendere che aveva da fare commissioni. Verso sera prendemmo la vecchia strada della collina che tante volte in passato avevamo percorso insieme, e finimmo in una saletta tra di casa d’appuntamenti e di trattoria che da studenti c’era parsa il non-plus-ultra del vizio. Facemmo la passeggiata sotto una fresca luna estiva che ci rimise un poco dall’afa del giorno.
– Sono in campagna quei tuoi parenti? – chiesi a Doro.
– Sí, ma a trovarli non vado lo stesso. Voglio star solo.
Questo da Doro era un complimento. Decisi di far la pace con lui.
– Scusa, – gli dissi piano. – Al mare ci potrò venire?
– Quando vuoi, – disse Doro. – Ma prima fammi compagnia. Voglio scappare ai miei paesi.
Di questo discorremmo cenando. Ci serviva, squallida e maltruccata, una figlia del padrone, forse la stessa che in passato ci aveva tante volte attirato lassú, ma vidi che Doro non badò a lei né alle sorelle piú giovani che comparivano di tanto in tanto a servire certe coppie negli angoli. Doro beveva, questo sí, con molto gusto e incitava me a bere e s’infervorava a parlare delle sue colline.
Ci pensava da un pezzo, mi disse; erano – quanto? – tre anni che non le rivedeva, voleva prendersi una vacanza. Io ascoltavo, e quel discorso accendeva me pure. Anni e anni prima che lui si sposasse, avevamo fatto, a piedi e col sacco, il giro di tutta la regione, noi soli, spensierati e pronti a tutto, tra le cascine, sotto le ville, lungo i torrenti, dormendo a volte nei fienili. E i discorsi che avevamo tenuto – a pensarci arrossivo, o mi struggevo quasi incredulo. Avevamo allora l’età che si ascolta parlare l’amico come se parlassimo noi, che si vive a due quella vita in comune che ancor oggi io, che sono scapolo, credo riescano a vivere certe coppie di sposi.
– Ma perché non fai la gita con Clelia? – dissi senza malizia.
– Clelia non può, non ne ha voglia, – balbettò Doro, staccando il bicchiere. – Voglio farla con te –. Questa frase la disse con forza, corrugando la fronte e ridendo, come faceva nelle discussioni infervorate.
– Insomma, siamo tornati ragazzi, – brontolai, ma forse Doro non sentí.
Una cosa non potei mettere in chiaro quella sera: se Clelia era al corrente della scappata. Da qualcosa nel contegno di Doro avevo la sensazione che no. Ma come tornare su un discorso che l’amico lasciava cadere con tanta caparbietà? Quella notte lo feci dormire sul mio sofà – ebbe un sonno piuttosto agitato – e io pensavo come mai, per comunicarmi una cosa tanto innocente come il progetto di una gita, aveva atteso fino a sera. M’irritava pensare che forse ero soltanto il paravento di un litigio con Clelia. Ho già detto che di Doro fui sempre geloso.
Stavolta prendemmo il treno – di buon mattino – e arrivammo che non faceva ancora caldo. In fondo a una campagna dove gli alberi apparivano piccini tant’era immensa, sorgevano le colline di Doro: colline scure, boscose, che allungavano le loro ombre mattutine sui poggi gialli, sparsi di cascinali. Doro – m’ero proposto di tenerlo d’occhio – prendeva ora con molta calma la gita. Ero riuscito a fargli dire che sarebbe durata al massimo tre giorni. Lo avevo anche dissuaso dal portarsi la valigia.
Scendemmo guardandoci intorno, e mentre Doro che conosceva tutti entrava nell’Albergo della Stazione, io mi fermavo sulla piazza solitaria – tanto solitaria che guardai l’orologio sperando fosse già mezzodí. Non erano ancora le nove, e allora studiai con attenzione l’acciottolato fresco e le case basse, dalle persiane verdi, dai balconi fioriti di glicini e gerani. La villa che in passato era stata di Doro si trovava fuori del paese sullo sperone di una valle aperta alla pianura. Ci avevamo passato una notte durante la gita famosa, in un’antica stanza dalle sovrapporte a fiori, lasciando al mattino i letti sfatti e senza darci altro disturbo che richiudere il cancello. Il parco che la circondava, non avevo avuto il tempo di passeggiarlo. Doro era nato in quella casa – i suoi ci stavano tutto l’anno e c’erano morti – e sposandosi l’aveva venduta. Ero curioso di vedere la sua faccia davanti a quel cancello.
Ma quando uscimmo dall’albergo a passeggiare, Doro s’incamminò da tutt’altra parte. Traversammo la ferrata e discendemmo il corso del fiume. Era chiaro che si andava in cerca di un posto d’ombra come in città si va al caffè. – Credevo andassimo alla villa, – borbottai. – Non siamo venuti apposta?
Doro si fermò, squadrandomi. – Che ti credi? Che io faccia il ritorno alle origini? Quello che importa ce l’ho nel sangue e nessuno me lo toglie. Sono qui per bere un po’ del mio vino e cantare una volta con chi so io. Mi prendo uno svago e basta.
Volevo dirgli: «Non è vero», ma tant’è stetti zitto. Diedi un calcio a una pietra e tirai fuori la pipa. – Lo sai che canto male, – dissi a denti stretti. Doro alzò le spalle.
Mattino e pomeriggio ci passarono in tranquillo vagabondaggio, per le salite e le discese del poggio. Pareva che Doro facesse apposta a infilare sentierucoli che non portavano in nessun luogo ma morivano nell’afa su un greto, contro una siepe, sotto un cancello chiuso. Risalimmo anche un pezzo dello stradone che traversava la valle, verso sera quando il sole già basso sulla pianura la riempiva tutta di pulviscolo e le gaggie cominciavano a tremolare alla brezza. Mi sentivo rivivere, e anche Doro divenne piú loquace. Parlò di un certo contadino che ai suoi tempi era famoso per cacciare di casa le sorelle – ne aveva parecchie – e poi fare il giro delle cascine dove queste cercavano rifugio, presentandosi fuori di sé ed esigendo un pranzo di riconciliazione. – Chi sa se è ancora vivo, – disse Doro. Stava in una cascina che di laggiú si vedeva. Era un ometto secco che parlava poco e tutti lo temevano, però aveva una cosa: non voleva sposarsi perché diceva che gli sarebbe rincresciuto dover scacciare anche la moglie. Qualcuna delle sorelle era poi scappata davvero, suscitando in paese la soddisfazione generale.
– Cos’era? un uomo rappresentativo? – dissi.
– No, un uomo nato per tutt’altro, uno spostato, uno di quelli che imparano a esser furbi perché fanno una vita che non li contenta.
– Tutti dovrebbero esser furbi, allora.
– Infatti.
– Si è poi sposato?
– Macché. Si tenne una sorella, la piú robusta, che gli faceva dei figli e lavorava la vigna. E stavano bene. E forse stanno ancora bene.
Doro parlava con un tono sarcastico, e parlando girava gli occhi sulla collina.
– L’hai mai raccontata questa storia a Clelia?
Doro non mi rispose; fece la faccia di chi pensa ad altro.
– Clelia è tipo da divertirsi a sentirla, – continuai. – Tanto piú che non è tua sorella.
Ma in risposta non ebbi che un sorriso. Doro, quando voleva, sorrideva come un ragazzo. Si fermò posandomi la mano sulla spalla. – Ti ho mai detto che un anno ho portato qui Clelia? – disse. Allora mi fermai anch’io. Non dissi nulla e aspettavo.
Doro riprese: – Credevo di avertelo detto. Me l’aveva chiesto lei stessa. Ci passammo in macchina con degli amici. Eravamo sempre in gita a quei tempi.
Guardò me, e guardò dietro me la collina. Fece per rimettersi a camminare. Mi mossi anch’io.
– No che non me l’hai detto, – borbottai. – Quand’è stato?
– Mica molto, – disse Doro. – L’altr’anno.
– E te l’ha chiesto lei?
Doro fece di sí col capo.
– Però hai perduto troppo tempo, – dissi. – Ce la dovevi portar prima. Perché quest’anno l’hai lasciata al mare?
Ma Doro sorrideva già in quel suo modo. M’indicò con gli occhi la costa ripida della piú alta collina e non rispose. Salimmo taciturni fin che ci fu luce, e di lassú ci fermammo a dare un’occhiata alla pianura, dove ci parve di scorgere nella voragine del pulviscolo anche il ciuffetto scuro della villa proibita.
Quando fu notte, all’albergo cominciarono a spuntare facce cordiali. C’era il biliardo e si giocava. Coetanei di Doro – certi impiegati e un manovale tutto schizzato di calce – lo riconobbero e gli fecero festa. Poi venne anche un signore anziano, con la catena d’oro al gilè, che si disse felice di fare la mia conoscenza. Mentre Doro giocava e motteggiava, questo vecchio prese il caffè con la grappa, e confidenzialmente, piegandosi sul tavolino, si andò informando degli affari di Doro e mi raccontò tutta la storia della villa comprata da un certo Matteo quand’era un semplice fienile, con tutti i beni circostanti, e questo Matteo era non so che antenato, ma poi il nonno di Doro aveva cominciato la speculazione di vendere a pezzi il terreno per costruire la casa, e alla fine era rimasta quella gran villa senza piú beni, e lui l’aveva predetto all’amico, ch’era il padre di Doro, che un bel giorno i figlioli avrebbero venduto anche la casa lasciando lui nel cimitero come un vagabondo. Parlava un bonario italiano insaporito di dialetto; non so...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La spiaggia
  3. Nota introduttiva di Laura Nay e Giuseppe Zaccaria
  4. La spiaggia
  5. Appendice
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright