(Le coincidenze accadono ma non sono mai perfette).
Quando torniamo a Roma ci immergiamo nell’ombra di un cielo basso, un’aria impestata di pioggia.
Eravamo semiammalati entrambi. Accaldati, stanchi, di cattivo umore. Fiora in realtà aveva cominciato a sentirsi male dalla sera del matrimonio. In mezzo alla notte, si era alzata tre-quattro volte per andare in bagno. Eravamo passati dal bene al male. Com’eravamo passati dal bene al male?
Era tardi, ho accompagnato Fiora direttamente al lavoro, le ho chiesto se voleva che le tenessi le valigie, ma lei ha detto non fa niente, mi ha salutato di fretta, non dicendo nulla.
Sul treno del ritorno avevo ricevuto una chiamata a carico del destinatario da parte di un numero sconosciuto. Era Božena. In un italiano dislessico mi aveva informato che Lubomir era finito in galera, ma aveva evitato di comunicarmi – o io non avevo capito – un altro dato significativo, di cui mi sono accorto una volta tornato a casa: la porta del mio appartamento era sfondata.
Io ho giusto poggiato le mie valigie, e ho chiamato Božena varie volte prima che lei rispondesse, poi mi sono sorbito altri sà e no senza alcun legame con le mie domande, e allora ho cercato di farmi spiegare semplicemente dov’era. Sono uscito di corsa senza riuscire a chiudere né accostare la porta, e senza ricordarmi di trovare un ombrello o un impermeabile. Božena mi aveva dato appuntamento a un distributore Agip a Casal Lumbroso: una piazzola vicino a un parco dove lei si era sistemata in uno scavo archeologico abbandonato per l’estate. Mi sono succhiato il Raccordo Anulare in venti minuti, e quando l’ho vista, sospesa e smagrita, ripararsi dalla pioggia sotto l’ombra della tettoia del benzinaio, sul ciglio della piazzola, mi è venuto il dubbio che stesse là a battere.
Mi ha detto che Lubo l’aveva chiamata la mattina del giorno prima all’alba e le aveva detto che era in galera.
– E perché?
– Non mi ha detto.
– C’ho la porta di casa sfondata.
– …
– La porta rotta, – gliel’ho mimato. – Spaccata. Sono venuti i ladri? O lo cercava la polizia? Ora dove sta lui?
– Non mi ha detto.
– Che vuol dire non ti ha detto. Sta a Rebibbia, o a Regina Coeli?
– Non mi ha detto.
L’ho maledetta a mente: fanno bene a menarvi. Non riuscite neanche a capire dove sta il vostro uomo se lo sbattono in galera. – Ma perché mi hai chiamato? – le ho solo chiesto, anche se sapevo che la risposta erano soldi: per interposta persona, ma soldi. E invece mi ha detto che Lubo le aveva chiesto di cercargli un avvocato.
– Lui non vuole ufficio.
– Non vuole l’avvocato d’ufficio?
– No piace. Ufficio, poi lui galera.
– Lui già galera, – avevo balbettato pure io. – Ma che ha fatto, si può sapere? Perché l’hanno arrestato, non si sa?
– Non mi ha detto.
Mi sono rimesso in macchina. Non le avevo domandato neanche se a lei servisse qualcosa. Provavo a pensare a chi potessi chiedere per un avvocato. Per un bel po’ ho rimandato l’unica risposta che avevo in mente, poi sconfitto ho chiamato mio padre. Gli ho chiesto come stava, la casa, mio fratello, l’Italia che va in rovina, riprendere i lavori per via Livata. Gli ho raccontato in modo frettoloso e distaccato del matrimonio e poi gli ho chiesto se conosceva un avvocato – un piacere per un mio amico.
Mio padre ha retto il gioco della neutralità e mi ha dato nome e numero di telefono: un tale Boldrini. Io mi sono ricordato a quel punto di avere i brividi di febbre, o forse erano le telefonate con mio padre a scaldarmi il sangue.
Ho chiamato Fiora che non mi ha risposto (chissà perché le compagnie telefoniche utilizzano sempre rassicuranti voci femminili per dire che il cliente non è raggiungibile), poi ho chiamato l’avvocato; agitato, tremando. E l’avvocato Boldrini mi ha rimbalzato mandandomi per sms un altro numero da contattare: un collega del suo studio, Franco Gambale. Questo Gambale mi ha risposto come se avessimo fatto le elementari insieme: – Franco, sÃ. Franco Gambale. Stai a chiamà la persona giusta! Te do del tu, ma me devi seguà un attimo sennò finisci pure te in galera che manco te n’accorgi. Allora, devi annà ar tribunale de sorvejanza. Mò te do stai?… A Casal Lumbroso?… E che ce fai llà ? Che, stavi andà a cercà un po’ de compagnia?… Scusa, eh, ma se manco fai ’na battuta… tra tutti ’st’assassini, ’sti spacciatori, ’sti violentatori… Comunque: er tribunale sta a piazzale Clodio. Trentuno. Segna, trentuno. Terzo piano, giudice di sorvejanza. Je chiedi: ’st’amico mio quanno l’hanno carcerato? L’hanno portato in questura o direttamente in galera?… Nullo sai?… Okay… Too fai dÃ, e ti fai dà er permesso pe’ vedello… Che probabilmente quello non è che te lo dà subito… Primo perché devi… – e ha continuato a spiegarmi, ridacchiando, dandomi di gomito con la voce.
Sono tornato rapidamente a casa, il tempo di cambiarmi i vestiti dell’agitazione, e sono corso a piazzale Clodio. L’ufficio del giudice stava chiudendo. C’era una fila tutta di uomini che avevano l’aria di essere pratici del posto. Il giudice, un corpo da negoziante di Roma Nord (ben piantato, olivastro) mi ha posto le domande rituali, e mi ha firmato una carta. Ho riprovato a sentire Fiora. Ho guidato fino a Rebibbia, sotto una pioggia martellante, e una luce scura che obbligava a accendere i fari.
Mi hanno fatto transitare attraverso vari atri e cancelli, mi hanno perquisito un paio di volte, fino a quando sono stato ammesso a una specie di casa cantoniera e là ho avvistato Lubo. Lubo il vecchio. Era piantato su una sediola tipo elementari. Aveva una faccia sbattuta, e anche uno sguardo smarrito, come se l’avessero sedato o avesse dormito molto poco. Vedendolo, ho smesso in un istante di essere arrabbiato.
Gli ho chiesto cosa fosse successo, cos’era quella faccia da scampato. E che era successo alla porta di casa mia. Mi ha risposto che l’avevano chiamato per un lavoro fuori Roma, e gli avevano messo a lavorare accanto il fratello di un ragazzo ucraino con cui si era insultato qualche sera prima. A metà giornata il nuovo arrivato, un pischello di nemmeno vent’anni, s’era finito le birre comprate per pranzo («Me stai a segu�»), Lubo gli aveva fatto un pistolotto, e quello – sbronzo di brutto – gli aveva sputato sui piedi («Voleva già menà , e io l’avevo capito. Era venuto a lavorà pe’ famme incazzà »).
– E la porta?
– M’è presa male.
– Dovevi sfondarla.
– Te la rimetto a posto in du’ ore.
Poi mi ha chiesto come stava Božena, io gli ho girato i contatti dell’avvocato («Gambale? Mai sentito»). Mi aveva spiegato che se lo processavano per direttissima, se questo Gambale era un avvocato decente, il pomeriggio del giorno dopo era probabile che già potesse uscire. Non ho capito perché, ma mi sembrava una buona notizia.
– Magari domani no, che ’sto sfatto de stanchezza, ma damme du’ giorni e l’ammazzo a calci. A quell’ucraino di merda.
Ho ripercorso i corridoi a ritroso, cercando di immaginarmi la suggestione di sguardi che avevano quelle pareti per chissà quante persone. Le pareti delle prigioni. I neon eccessivi. La morte degli occhi.
Fuori invece era buio. Una notte anticipata e anche abbastanza fredda. Con la mia camicia da mare, mi portavo sottopelle questa sensazione di essere disarmato.
Mi sono andato a prendere un tè, un tè caldo nel baretto piú vicino all’uscita del carcere. C’era un uomo anziano con una macchia in fronte che pareva un grosso buco cicatrizzato. Mi è venuto in mente il kit che il Comune di Roma regala alle persone quando escono di galera: una cartina della città , una tessera dell’autobus, pacchi di fazzoletti… Cosa ti può essere utile quando devi ricominciare sul serio da capo?
Ho chiamato Fiora, ma c’era ancora la voce femminile, squillante, quasi materna, che mi ripeteva che la persona che cercavo non era raggiungibile. Come se qualcuno avesse gettato l’amo a vuoto, in un pantano. La persona che cerchi si è persa, è distante, la preghiamo di richiamare piú tardi.
Sono rientrato a casa distrutto, con quel sonno che amplifica la sensibilità dei denti, delle gengive. Ho immaginato che Fiora si fosse scordata il caricabatteria in Francia. Era assurdo per un medico avere il cellulare staccato, ma poteva capitare. E poi mi sono messo a letto, cercando di non pensare a niente. Come facevo quand’ero bambino, che chiudevo gli occhi e mi concentravo a fissare le immagini torbide che si formavano nel retro delle palpebre chiuse.
La mattina dopo stavo meglio e ho chiamato ancora Fiora al cellulare e a casa, ma inutilmente. Al cellulare la voce, a casa nessuno. Potevo pregare? Non ho pregato. Mi sono solo inquietato, o meglio: mi sono sentito a disagio.
Ho cominciato a pigiare sui numeri del cellulare come su un joypad. Piú ero veloce, insistente, piú mostri mentali avrei ucciso.
Mi sono infilato dei vestiti appena colti dallo stendino, e sono uscito correndo direttamente all’ospedale.
Era metà mattina e non pioveva da un pezzo, ma era come se avesse appena smesso. L’umidità era diventata calore e l’aria era sospetta. Le nuvole erano state trasportate in cielo con delle funi, prima o poi qualcuno avrebbe potuto anche riavvolgerle. Erano creature mostruose: cellule di vapore acqueo che si erano avvicinate tra loro fino a formare prima dei filamenti e poi grandi forme bernoccolute, tumori bianchi e grigi in mezzo al cielo di luce ovattata. Come i tumori, immaginavo, sarebbero cresciute in fretta, si sarebbero espanse nel cielo, gonfiandosi e deformandosi. E quando avessero riempito l’intera volta celeste, già me lo vedevo, sarebbero cominciate a calare, a piombare come una massa soffice e vischiosa sulla terra. Avremmo potuto chiuderci in macchina? Ripararci nelle case? O le nuvole avrebbero sfasciato anche quelle – tetti e pareti? E arrivate fino al suolo si sarebbero allungate verso il mare per mescolarsi agli oceani, un nevoso brodo primordiale da cui non sarebbe potuto nascere piú nulla…
Accanto al Policlinico c’era il solito caos di uomini e macchine. Ho parcheggiato nei posti riservati alle partorienti. Mi sono guardato nello specchietto retrovisore, e ho chiuso la macchina. Gli stessi occhi tutta la vita, ho pensato. Anche se i nostri sentimenti, le nostre scelte piú importanti cambiano, abbiamo a che fare sempre con gli stessi occhi tutta quanta la vita. Forse aveva ragione quel tizio che chiedeva a Fiora di farsi un’operazione alle iridi.
Sono passato dalla porta laterale del pronto soccorso. Che era semivuoto, e freddo per un condizionatore tenuto al massimo. Ho chiesto a un portantino di Fiora Olivetti. Mi ha risposto di domandare dentro. Ho bussato e si è affacciata una donna segaligna con una mascherina sulla bocca. Non si capiva se era un malato o un medico. Le ho chiesto della dottoressa Olivetti.
– Chi è lei?
Chi ero io?
– Giuseppe, – ho risposto. – Del Moro. La cercavo per…
– È in ferie, – mi ha detto la donna, con la voce afflosciata dalla mascherina. – Si è presa una settimana di ferie.
– …
– …
– Ma stava male? – ho spiccicato la domanda meno insensata che potessi fare.
– Non lo so, – mi ha detto, riaccostando in fretta la porta. – Comunque è in ferie fino alla prossima settimana.
Poi si è scusata.
E mi ha salutato....