
- 208 pagine
- Italian
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Le cure domestiche
Informazioni su questo libro
Quando le acque gelide del lago di Fingerbone si chiudono su un'altra anima, in città a occuparsi di Ruth e Lucille, le due bambine rimaste orfane, torna la giovane zia Sylvie. Sylvie indossa abitini leggeri sotto il cappotto informe, ama la luce e gli spazi aperti e viaggia per l'America sui treni merci. Sa che il miglior antidoto alla perdita è non avere e crede che la casa sia piú un luogo dell'anima che di regole e mattoni.
«Le cure domestiche è tuttora un capolavoro, un'indimenticabile dichiarazione di intenti immaginativi e letterari».
«The Guardian»
«Non è un romanzo da leggere in fretta, perché ogni sua frase è una delizia».
Doris Lessing
Ruth e Lucille non hanno mai visto Fingerbone, la cittadina del Midwest che ha dato i natali alla loro mamma Helen, né le acque fonde e cupe del lago intorno a cui sorge. Ma quel lago, che in passato è stato teatro di un tragico e spettacolare disastro ferroviario, divenendo luogo di eterno riposo per molti abitanti della zona, pretende un grande tributo dalle loro giovani vite. Lo esige il giorno in cui Helen decide di riconsegnare le bambine alle loro origini e, dopo aver affrontato il lungo viaggio da Seattle, le deposita sul portico della casa avita con un pacco di biscotti da sgranocchiare per ingannare l'attesa; quindi, senza una parola di commiato né una riga di spiegazioni, risale in macchina e va a gettarsi nel lago. La cura delle due orfane e dei loro cuori attoniti passa da quel momento nelle mani di parenti sconosciuti, mani ora tenere ed efficienti, ora timide e inette, fino alle lunghe mani ossute della sorella minore di Helen, Sylvie, mani nude e perennemente screpolate, mani che sanno carezzare ma non trattenere. Sylvie porta scarpette leggere in pieno inverno e una banconota da venti dollari spillata sotto il bavero del cappotto. Ama la luce e la natura, fa lunghe passeggiate senza orari, prepara pasti frugali e non particolarmente nutrienti. Dei cani ha la paura tipica dei vagabondi. Ruth e Lucille, cosà esperte di perdite e abbandoni, sanno di non poter fare affidamento sul suo restare: «Sylvie assomigliava a nostra madre, e inoltre si toglieva di rado il cappotto e ogni storia che raccontava aveva a che fare con un treno o con una stazione degli autobus». La stessa casa di famiglia, il nucleo originario cui Sylvie ha accettato di tornare per amore delle nipoti, con la sua gestione va rapidamente in rovina: una moltitudine di gatti e sporcizia, infiniti giornali e lattine vuote, un accumulo erroneamente scambiato per l'essenza di ogni cura domestica. Di fronte al modello aereo e sradicato della zia, le due sorelle, fino a quel momento una sola anima scagliata nel mondo, devono interrogarsi sul senso dell'appartenenza e del ritorno, venire a patti con la solitudine, e scegliere la loro idea - reale, metaforica e universale - di casa. Questi temi, dunque, variamente e luminosamente esplorati nella piú recente trilogia - Gilead, Casa e Lila - sono già al centro del romanzo che alla sua pubblicazione negli Stati Uniti, nel 1980, ha immediatamente consacrato Marilynne Robinson alla grande letteratura del mondo e, grazie alla sua sola dirompenza, ha saputo conservarle quella posizione per i quasi venticinque anni che l'hanno separato dalla successiva prova narrativa.
«Le cure domestiche è tuttora un capolavoro, un'indimenticabile dichiarazione di intenti immaginativi e letterari».
«The Guardian»
«Non è un romanzo da leggere in fretta, perché ogni sua frase è una delizia».
Doris Lessing
Ruth e Lucille non hanno mai visto Fingerbone, la cittadina del Midwest che ha dato i natali alla loro mamma Helen, né le acque fonde e cupe del lago intorno a cui sorge. Ma quel lago, che in passato è stato teatro di un tragico e spettacolare disastro ferroviario, divenendo luogo di eterno riposo per molti abitanti della zona, pretende un grande tributo dalle loro giovani vite. Lo esige il giorno in cui Helen decide di riconsegnare le bambine alle loro origini e, dopo aver affrontato il lungo viaggio da Seattle, le deposita sul portico della casa avita con un pacco di biscotti da sgranocchiare per ingannare l'attesa; quindi, senza una parola di commiato né una riga di spiegazioni, risale in macchina e va a gettarsi nel lago. La cura delle due orfane e dei loro cuori attoniti passa da quel momento nelle mani di parenti sconosciuti, mani ora tenere ed efficienti, ora timide e inette, fino alle lunghe mani ossute della sorella minore di Helen, Sylvie, mani nude e perennemente screpolate, mani che sanno carezzare ma non trattenere. Sylvie porta scarpette leggere in pieno inverno e una banconota da venti dollari spillata sotto il bavero del cappotto. Ama la luce e la natura, fa lunghe passeggiate senza orari, prepara pasti frugali e non particolarmente nutrienti. Dei cani ha la paura tipica dei vagabondi. Ruth e Lucille, cosà esperte di perdite e abbandoni, sanno di non poter fare affidamento sul suo restare: «Sylvie assomigliava a nostra madre, e inoltre si toglieva di rado il cappotto e ogni storia che raccontava aveva a che fare con un treno o con una stazione degli autobus». La stessa casa di famiglia, il nucleo originario cui Sylvie ha accettato di tornare per amore delle nipoti, con la sua gestione va rapidamente in rovina: una moltitudine di gatti e sporcizia, infiniti giornali e lattine vuote, un accumulo erroneamente scambiato per l'essenza di ogni cura domestica. Di fronte al modello aereo e sradicato della zia, le due sorelle, fino a quel momento una sola anima scagliata nel mondo, devono interrogarsi sul senso dell'appartenenza e del ritorno, venire a patti con la solitudine, e scegliere la loro idea - reale, metaforica e universale - di casa. Questi temi, dunque, variamente e luminosamente esplorati nella piú recente trilogia - Gilead, Casa e Lila - sono già al centro del romanzo che alla sua pubblicazione negli Stati Uniti, nel 1980, ha immediatamente consacrato Marilynne Robinson alla grande letteratura del mondo e, grazie alla sua sola dirompenza, ha saputo conservarle quella posizione per i quasi venticinque anni che l'hanno separato dalla successiva prova narrativa.
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Informazioni
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9788806180034eBook ISBN
9788858424490Capitolo settimo
Per quell’estate Lucille rimase ancora dalla nostra parte del mondo. E se eravamo il suo problema principale, eravamo anche il suo unico rifugio. Lei e io stavamo insieme, sempre, dappertutto. Talvolta se ne stava semplicemente zitta, talvolta mi diceva che non avrei dovuto guardare per terra quando camminavo (il mio portamento non mirava tanto a nascondere, quanto a riconoscere la mia altezza sempre piú esagerata, come a scusarmene), e talvolta cercavamo di ricordare nostra madre, benché ormai fossimo sempre piú in disaccordo e arrivassimo persino a litigare a proposito del suo aspetto. La madre di Lucille era ordinata, vigorosa e pratica, una vedova (il che è piú di quanto io sapessi o lei potesse dimostrare) che era rimasta uccisa in un incidente. Mia madre invece viveva una vita cosà semplice e circoscritta da non esigere alcuna attenzione da parte sua. Si curava di noi con una gentile indifferenza che faceva intuire che le sarebbe piaciuto essere ancora piú sola – era stata lei ad abbandonare e non viceversa. Quanto al suo tuffo nel lago, Lucille dichiarava che la macchina era rimasta impantanata, Helen aveva accelerato troppo e aveva perso il controllo del volante. E allora perché ci aveva lasciate dalla nonna, con tutte le nostre cose? E perché era uscita dalla carreggiata puntando verso il centro del prato? E perché aveva dato ai ragazzi che l’avevano aiutata non solo i soldi ma tutto il portafogli? Lucille una volta mi accusò di difendere Sylvie a spese di nostra madre. Dopo per un po’ rimanemmo silenziose, rimpiangendo che fosse stato fatto quel confronto. Perché ormai sapevamo, anche se questa certezza era tutt’altro che rassicurante, che Sylvie era una di noi. Nostra madre spazzava e spolverava, manteneva bianchi i nostri calzettoni, e ci dava le vitamine. Non avevamo mai sentito parlare di Fingerbone finché non ci aveva portate qui, non sapevamo niente di nostra nonna finché non ci aveva lasciate qui ad aspettarla, sulla sua veranda. Talvolta, invece di dormire Lucille e io stavamo a guardare nostra madre seduta sul divano con un piede ripiegato sotto il corpo, a fumare e a leggere «The Saturday Evening Post». Prima o poi, lei sollevava sempre gli occhi dalla pagina e si metteva a fissare il centro della stanza, talvolta cosà intensamente che una di noi si alzava con la scusa di un bicchiere d’acqua per controllare se c’era qualcuno nella stanza con lei. E alla fine le eravamo scivolate dalle ginocchia come una di quelle riviste piene di opinioni responsabili sulla disciplina e i pasti ben equilibrati. Sylvie non riusciva mai a sorprenderci veramente. Ormai, come talvolta ci capitava di intuire, noi eravamo parte del suo sogno. E, in tutte le nostre fughe da scuola, forse non arrivammo mai in un posto in cui lei non fosse già stata. E quindi non aveva bisogno di alcuna spiegazione per le cose che noi non potevamo spiegare.
Per esempio, una volta passammo la notte nei boschi. Era un sabato, per cui avevamo indossato le nostre tute, e ci eravamo portate le canne da pesca e un cesto che conteneva biscotti e panini insieme ai coltelli e alle esche. Ma non avevamo progettato di rimaner fuori la notte, per cui non avevamo preso le coperte. Camminammo per alcune miglia in riva al lago fino a una piccola insenatura dove l’acqua era bassa e immobile. Queste acque erano piene di pesci persici grassocci e stupidamente ansiosi di essere catturati. Solo i bambini si gingillavano con creature del genere, e solo noi di tutti i bambini arrivavamo a spingerci cosà lontano per prendere del pesce che mordeva l’esca con eguale avidità anche nel raggio di cinquanta metri dalla biblioteca pubblica. Tuttavia andammo laggiú, partendo da casa all’alba, e per strada si unà a noi una vecchia cagna grassa con un nero ventre nudo e dei cerchi bianchi intorno agli occhi. La chiamavano Zoppetta, perché quand’era ancora un cucciolo strascicava una zampa, e adesso che era vecchia ne strascicava tre. Ci trotterellò dietro tutta vivace, con un barlume di cameratismo nell’unico occhio buono. La descrivo con tanta dovizia di particolari perché a circa un miglio dalla città scomparve nei boschi come per seguire un particolare odore, e non ricomparve mai piú. Non era un cane notevole, e se ne andò dal mondo senza essere compianta. Tuttavia il triste ricordo che rimase a Lucille e a me di questa escursione fu in parte dovuto all’ultima fugace visione dei suoi grassi lombi e della sua coda ritta e semiparalizzata, che ci presentò mentre si arrampicava sulle rocce e si immergeva nelle polverose tenebre del bosco.
La giornata divenne piú calda. Ci facemmo degli alti risvolti ai jeans e ci sbottonammo la camicia in modo da annodarcela in vita. Per alcuni tratti camminammo su una stretta striscia di sabbia, ma molto piú spesso procedemmo zoppicando lungo spiaggette di sassi grigi e rotondi, grossi quanto una mela. Quando trovavamo dei sassi piatti li facevamo rimbalzare sull’acqua, quando trovavamo dei sassi a forma d’uovo li gettavamo in alto con un avvitamento al contrario, e quando l’acqua li inghiottiva dicevamo di aver tagliato la gola al diavolo. In alcuni punti erba e sterpaglia crescevano fin sul bordo, allora dovevamo procedere al guado su rocce viscide coperte di melma filamentosa, pallida e ondeggiante come capelli sott’acqua. Io caddi nel bagnato, con tutto il cesto, e allora mangiammo i panini, perché ormai erano zuppi. Non era ancora mezzogiorno, ma progettammo di arrostire il pesce persico su dei rametti verdi e di andare in cerca di mirtilli.
La spiaggia era invasa da detriti trascinati dalla corrente. C’erano tronchi con rigidi grovigli di radici, e ceppi completamente denudati della corteccia, affusolati e sottili come cavi elettrici. In alcuni punti erano tutti ammassati, carcassa su carcassa, come avorio e ossa in un cimitero di elefanti. Quando trovavamo dei ramoscelli, li spezzavamo in tanti pezzetti lunghi come un dito, e ce li ficcavamo in tasca per fumarli lungo il percorso.
Camminammo verso nord, con il lago sulla nostra destra. Se lo guardavamo, l’acqua sembrava allargarsi sulla metà del mondo. Le montagne, ingrigite e appiattite dalla distanza, sembravano i resti di una diga crollata, o il bordo sbrecciato di una pentola di ferro, sul punto di ebollizione, che distillava senza fine l’acqua trasformandola in luce.
Ma il lago ai nostri piedi era pura acqua chiara, che ricopriva sassi lisci o semplice melma. Pullulava di vita minuta, come un qualsiasi stagno, modesto nelle sue possibilità di trasformazione dell’ordinario quanto una pozza qualunque. Solo la calma persistenza con cui l’acqua toccava e ritoccava la riva, setacciando tutti i sassolini, nero brillante, e bianco, e nocciola, ci costringeva a ricordare che il lago era vasto, e alleato con la luna (perché la sua fredda vita luccicante non apparteneva a questa terra).
Il cielo era sbiancato da un’alta, regolare, luminosa pellicola, e gli alberi avevano un’oscurità serotina. La riva scivolava via in una lunga curva lenta, verso l’esterno, fino a una punta, oltre la quale tre isolette ripide, digradanti, prolungavano la curva della terra verso gli abissi del lago, come un’ellisse. La punta era alta e rocciosa, incoronata da abeti. Ai suoi piedi un’esile striscia di sabbia riassumeva la sua forma rozza in un’unica curva pura di calligrafica delicatezza, girando, ancora una volta, verso il lago. Attraversammo la punta alla base, scendendo poi dall’altro lato verso la spiaggia della baietta dove abboccava il pesce persico. Qualche centinaio di metri piú in là , una massiccia penisola delimitava l’orizzonte e vi si stagliava contro come una barricata. Solo oltre queste due distese di terra potevamo vedere il luccichio del lago in lontananza. L’acqua racchiusa fra queste due punte era lucente, scura, e stagnante, con canne sul bordo e ninfee nella secca, e girini, e pescetti d’acqua dolce, e piú al largo, di quando in quando, si sentiva il tonfo di un grosso pesce che saltava dietro alle mosche. Fuori della portata delle correnti e dei baluginii delle acque aperte, la superficie della baia sembrava quasi viscosa, membranosa, e qui le cose si ammassavano e si accumulavano come nelle ragnatele o sulle grondaie o negli angoli di una casa che non vengono spazzati. Era un luogo di disordine squisitamente domestico, caldo, immobile e ricolmo. Lucille e io ci sedemmo a tirare ciottoli alle libellule. Poi pescammo per un altro po’, aprendo il ventre di ciascun pesce appena pescato dalla gola fino alla coda e sventrandolo con i pollici, gettando le interiora sulla spiaggia per gli orsetti lavatori. Poi accendemmo un fuoco basso, e trapassammo alcuni pesci con un rametto verde, posandolo come uno spiedo tra due rami biforcuti. Questo era invariabilmente il nostro metodo, anche se nel peggiore dei casi lo spiedo crollava e il pesce cadeva nel fuoco, e nel migliore, che era meglio solo di poco, la pinna caudale si bruciacchiava e finiva in cenere prima che l’ultimo barlume di coscienza avesse abbandonato i suoi occhi. Ne mangiammo una gran quantità . In piú, trovammo dei mirtilli maturi sui cespugli che crescevano tra le rocce dietro la riva e mangiammo anche quelli. Questi riti predatorî ci occuparono fino al tardo pomeriggio, poi all’improvviso ci rendemmo conto che eravamo rimaste troppo a lungo. Se fossimo tornate indietro in fretta forse saremmo riuscite ad arrivare a casa prima che fosse completamente buio, ma il cielo era sempre piú rannuvolato e non riuscivamo a capire che ora fosse. Eravamo entrambe spaventate al pensiero di dover camminare per miglia e miglia lungo una riva ardua, con il bosco nero incombente sulla destra e a sinistra soltanto il lago. Se le nuvole avessero scatenato anche il vento e le onde, saremmo state costrette a entrare nel bosco, e il bosco di notte ci terrorizzava. – Restiamo qui, – disse Lucille. Trascinammo dei pezzi di legno fino a metà della punta. Usammo il fianco di un grosso sasso come parete d’appoggio, poi con il legno costruimmo un lato e il retro, e lasciammo l’altro lato aperto verso il lago. Staccammo i rami d’abete e ne facemmo il pavimento e il soffitto. Era una struttura bassa e rudimentale, costruita malamente. Due volte il tetto crollò. Dovevamo sederci con il mento appoggiato alle ginocchia per evitare di far crollare una parete. Rimanemmo sedute per un po’ una accanto all’altra, muovendoci con estrema cautela, grattandoci le caviglie e le scapole con la massima prudenza. Lucille strisciò fuori e incominciò a scrivere il suo nome coi ciottoli sulla sabbia di fronte alla porta. La sera parve raggiungere un equilibrio. Il cielo e l’acqua erano di un unico grigio luminoso. I boschi completamente neri. Le due lingue di terra che racchiudevano la baia erano come banchise di tenebre, che si riversavano nel lago da montagne traboccanti di tenebre, ma si bloccavano trasformandosi in pietra nell’etere brillante.
Strisciammo dentro la nostra capanna e cademmo in un sonno scomodo, senza mai dimenticare che dovevamo tenere i talloni attaccati alle natiche, sempre consapevoli delle zanzare e delle pulci della sabbia. Mi svegliai nel buio piú totale. Potevo sentire i rami al mio fianco e l’umido sulla schiena, e Lucille addormentata contro di me, ma non riuscivo a vedere niente. Ricordandomi che Lucille era entrata carponi dietro di me e si era sdraiata tra me e la porta, uscii faticosamente dal tetto scavalcando una delle pareti per trovarmi in un’oscurità altrettanto assoluta. Non c’era la luna. Di fatto, sembrava non ci fosse neanche il cielo. A parte il regolare luccichio dell’acqua e il fruscio dei boschi, c’erano i rumori singoli e isolati del lago, difficili da localizzare e quasi incorporei, e molto vicini alle mie orecchie, come i rumori di un sogno. C’erano fruscii e risolini sommessi, e i suoni di un avvicinarsi furtivo, la sensazione di un’intenzione inquietante, la cui realizzazione veniva inesplicabilmente differita. – Lucille, – dissi. L’avevo sentita alzarsi attraverso il tetto. – Che ora pensi che sia? – Non riuscimmo a capirlo. I coyote ululavano, e i gufi, e gli sparvieri, e le strolaghe.
Era cosà buio che gli animali scendevano in acqua a pochi metri da noi. Non riuscivamo a vedere di che cosa si trattasse. Lucille incominciò a tirar loro dei sassi. – E dire che dovrebbero sentire il nostro odore, – borbottò. Per un po’ cantò Mockin’ Bird Hill, poi si sedette accanto a me nella nostra fortezza distrutta, senza mai rimanere immobile, senza accettare che i nostri confini umani venissero invasi.
Lucille avrebbe raccontato questa storia in modo diverso. Avrebbe detto che mi ero addormentata, ma non fu cosÃ. Lasciai semplicemente che l’oscurità del cielo diventasse tutt’uno con l’oscurità nel mio cranio, nelle mie orecchie, nelle mie ossa. Tutto ciò che si presenta agli occhi è un’apparizione, un velo gettato sulle vere attività del mondo. I nervi e il cervello si lasciano ingannare, cosà noi ci sogniamo che questi spettri sciolgano le loro mani dalle nostre e si allontanino, la curva della schiena e le pieghe del cappotto cosà familiari da lasciar intendere che dovrebbero essere dotazioni permanenti del mondo, mentre in realtà nulla è piú deperibile. Anche se dico che mia madre era alta quanto un uomo, e che talvolta mi issava sulle sue spalle, in modo che potessi sbattere le mani sulle fredde foglie sopra le nostre teste, anche se dico che mia nonna cantava con voce gutturale mentre sedevamo sul suo letto e le allacciavamo le grosse scarpe nere, dettagli del genere sono semplicemente accidentali. Chi lo sa meglio di noi? E poiché i loro pensieri erano ripiegati su fantasmi diversi dai nostri, su altre oscurità da quelle che avevamo visto noi, perché mai noi, superstiti, dovevamo rimanere a frugare tra i detriti, tra quel piccolo disordine senza valore che era tutto quel che rimaneva dopo che loro erano svanite, e che solo la catastrofe rendeva percettibile? L’oscurità è l’unico solvente. Mentre era buio, a dispetto dell’andirivieni di Lucille e dei suoi fischiettii, e a dispetto di quel che dev’essere stato un sogno (perché persino Sylvie veniva a ossessionarmi), mi parve che non ci sarebbe stato alcun bisogno di reliquie, di resti, di residui, di memento, di lasciti, di ricordi, di pensieri, di piste, o di tracce, se solo l’oscurità avesse potuto essere perfetta e permanente.
Quando incominciò ad arrivare la luce (che ci venne preannunciata, come aveva detto Sylvie, dal boato dei boschi, e dalle grida degli uccelli, con ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Le cure domestiche
- Capitolo primo
- Capitolo secondo
- Capitolo terzo
- Capitolo quarto
- Capitolo quinto
- Capitolo sesto
- Capitolo settimo
- Capitolo ottavo
- Capitolo nono
- Capitolo decimo
- Capitolo undicesimo
- Il libro
- L’autrice
- Della stessa autrice
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