I Buddenbrook (Einaudi)
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I Buddenbrook (Einaudi)

Decadenza di una famiglia

  1. 720 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I Buddenbrook (Einaudi)

Decadenza di una famiglia

Informazioni su questo libro

Il primo grande romanzo di Thomas Mann racconta la storia di una famiglia tedesca dell'Ottocento che, dopo anni di prosperità, è esposta a una tragica decadenza: le basi di un patrimonio e di una potenza che sembravano incrollabili sono sgretolate da una forza ostinata e segreta. Opera di ispirazione autobiografica, questo romanzo, capolavoro della letteratura europea, esprime compiutamente la concezione estetica e politica dello scrittore tedesco, il suo rimpianto per una mitica e solida borghesia, la coscienza della crisi di un mondo e di valori destinati inesorabilmente a scomparire.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806221331
eBook ISBN
9788858425817
Argomento
Literature
Categoria
Classics

Parte ottava

I.
Quando il signor Hugo Weinschenk, da qualche tempo direttore della Società d’assicurazione contro gli incendi, con la giacchetta abbottonata, i baffi neri e sottili che s’infoltivano sugli angoli della bocca dandogli un’espressione di virile serietà, il labbro inferiore un poco pendente, attraversava a passi elastici e sicuri l’androne per recarsi dagli uffici verso la strada a quelli verso il cortile, tenendo i pugni stretti davanti a sé e movendo leggermente i gomiti sui fianchi, era il prototipo dell’uomo attivo, imponente e in buona posizione.
Intanto Erika Grünlich, ormai ventenne, si era fatta una ragazza alta e florida, colorita e bella di salute e di vigore. Quando il caso voleva ch’ella scendesse le scale o s’affacciasse alla balaustra nel momento in cui il signor Weinschenk passava – e il caso lo voleva sovente – il direttore alzava il cilindro sui capelli neri e corti che incominciavano a brizzolarsi alle tempie, si dimenava maggiormente sui fianchi e salutava la fanciulla con uno sguardo stupito e ammirato degli occhi scuri, audaci e irrequieti... dopo di che Erika fuggiva via, andava a sedersi nel vano d’una finestra e piangeva per un’ora, di perplessità e di smarrimento.
La signorina Grünlich sotto la tutela di Therese Weichbrodt era venuta su molto costumata, e i suoi pensieri non andavano lontano. Ella piangeva per il cilindro del signor Weinschenk, per il suo modo di alzare e abbassare di scatto le sopracciglia quando la vedeva, per il suo portamento regale e per i suoi pugni ondeggianti. Invece sua madre, la signora Permaneder, vedeva piú in là.
L’avvenire della figlia l’angustiava da anni, perché Erika, a paragone delle altre ragazze da marito, era senza dubbio in svantaggio. La signora Permaneder non solo non frequentava la società, ma anzi ne era nemica. Il sospetto che il mondo elegante la tenesse in dispregio per via dei suoi due divorzi era diventato un po’ la sua idea fissa, ed ella vedeva scherno e ostilità dove probabilmente non v’era altro che indifferenza. Il console Hermann Hagenström, ad esempio, uomo leale, di idee larghe, reso dalla ricchezza benevolo e sereno, l’avrebbe certo salutata per istrada, se non glielo avesse vietato assolutamente il contegno di lei, che con la testa buttata indietro fingeva di non vedere «quella faccia da pasticcio di fegato d’oca» che secondo una delle sue espressioni energiche ella «odiava come la peste». Perciò anche Erika era rimasta lontana dall’ambiente dello zio senatore, non andava ai balli e aveva scarse occasioni di fare conoscenze maschili.
Tuttavia il desiderio piú ardente di Antonie, soprattutto dacché lei stessa, come diceva, aveva «chiuso la partita», era che sua figlia potesse appagare le speranze che la madre per sé aveva visto sfumare, e facesse un matrimonio vantaggioso e felice, tale da recare onore alla famiglia e far dimenticare le vicende materne. Specialmente poi al fratello maggiore, che negli ultimi tempi s’era mostrato cosí poco lieto e fiducioso, Tony si struggeva di dar la prova che la fortuna della famiglia non tramontava ancora, che era ancora lontana dalla fine... La sua seconda dote, i diciassettemila talleri che il signor Permaneder aveva cosí prontamente restituito, erano stati messi da parte per Erika, e non appena la signora Antonie, perspicace ed esperta, ebbe notato i teneri legami che si stavano annodando fra il direttore e sua figlia, incominciò a pregare il cielo che il signor Weinschenk venisse a farle visita.
Ed egli venne. Salí al primo piano, fu ricevuto dalle tre signore, nonna, figlia e nipote, si trattenne dieci minuti e promise di ritornare un pomeriggio a prendere il caffè per far due chiacchiere alla buona.
Anche questo avvenne, e si strinse piú intima conoscenza. Il direttore era nativo della Slesia, dove viveva ancora il suo vecchio padre; ma della sua famiglia pareva non occorresse tenere gran conto, Hugo Weinschenk doveva considerarsi un self-made man. Ne possedeva infatti la coscienza non spontanea, un po’ incerta, esagerata e diffidente; le sue maniere non potevan dirsi irreprensibili, e la sua conversazione era assai goffa. Del resto la sua giacchetta aveva un taglio da borghesuccio e in parecchi punti era lustra, i polsini coi grossi bottoni di giaietto non erano perfettamente freschi e puliti, e il dito medio della mano sinistra aveva l’unghia tutta disseccata e nera per chi sa quale incidente; vista abbastanza sgradevole, che tuttavia non impediva a Hugo Weinschenk di essere un uomo stimabilissimo, laborioso, energico, con dodicimila marchi di reddito annuo, e agli occhi di Erika poi era addirittura un bell’uomo.
La signora Permaneder aveva rapidamente esaminato e giudicato la situazione. Ne parlò a cuore aperto con la consolessa e col senatore. Era chiaro che gli interessi s’incontravano e si completavano. Il direttore Weinschenk, come Erika, erano privi di conoscenze; non potevano trovare migliori risorse che l’uno nell’altra, e sembravano veramente predestinati a unirsi. Se il direttore, che s’avvicinava ai quaranta e incominciava ad avere fra i capelli qualche filo bianco, voleva accasarsi in modo conforme alla sua posizione e ai suoi mezzi, il matrimonio con Erika Grünlich lo introduceva in una delle migliori famiglie della città e poteva giovargli nella sua professione e consolidarlo nella sua carica. Quanto al vantaggio di Erika, la signora Permaneder poteva dirsi che se non altro sua figlia sarebbe sfuggita al destino toccato a lei. Col signor Permaneder, Hugo Weinschenk non aveva la minima somiglianza, e da Bendix Grünlich si distingueva per la sua qualità di impiegato dal posto sicuro e dallo stipendio fisso, che non escludeva ulteriori avanzamenti.
Insomma c’era molta buona volontà da ambo le parti; le visite pomeridiane del direttore Weinschenk si fecero sempre piú frequenti, e in gennaio – il gennaio dell’anno 1867 – egli si permise di chiedere con poche parole concise, schiette e virili la mano di Erika Grünlich.
Da quel giorno in poi egli fece parte della famiglia, intervenne alle riunioni del giovedí, e fu accolto con molta premura dai parenti della fidanzata. Senza dubbio si rese subito conto di non essere troppo al suo posto in mezzo a loro; ma nascose quell’impressione sotto un contegno tanto piú baldanzoso, e la consolessa, lo zio Justus, il senatore Buddenbrook – escluse naturalmente le signorine Buddenbrook della Breite Strasse – eran disposti alla piú cortese indulgenza verso quell’attivo impiegato, verso quell’uomo rotto al duro lavoro e inesperto della vita di società.
Quell’indulgenza era necessaria; perché bisognava continuamente rompere con una parola briosa ed elusiva il silenzio che calava sui convitati quando il direttore, per esempio, si occupava con troppa audacia delle braccia e delle guance di Erika, o quando chiedeva se il tè era una cosa da bere o da mangiare, oppure quando emetteva l’opinione che Giulietta e Romeo fosse una tragedia di Schiller. Cose che egli diceva con vivace risolutezza, fregandosi spensieratamente le mani, appoggiato un po’ di sghembo allo schienale della seggiola.
Meglio che con tutti gli altri se l’intendeva col senatore, che sapeva condurre sicuramente con lui una conversazione di politica o d’affari senza che accadessero guai. Assolutamente disastrosi invece erano i suoi rapporti con Gerda Buddenbrook. La personalità di questa signora gli era tanto incomprensibile che non riusciva a trovare un argomento di conversazione con lei sufficiente a occupare almeno un paio di minuti. Sapeva che suonava il violino, e ne era rimasto profondamente impressionato, cosicché si limitava a rivolgerle ogni giovedí la domanda scherzosa: – Come sta il violino? – Ma dopo la terza volta la moglie del senatore non gli rispose piú.
Da parte sua Christian osservava il nuovo parente arricciando il naso e imitando il giorno dopo il suo modo di fare e di parlare. A Öynhausen il secondogenito del compianto console Johann Buddenbrook era guarito del reumatismo; ma gli era rimasta una certa rigidità delle articolazioni, e il «tormento» periodico al fianco sinistro, là dove «tutti i nervi erano troppo corti»; e anche gli altri disturbi di cui si sentiva vittima – difficoltà a respirare e a inghiottire, irregolarità nelle pulsazioni del cuore, e fenomeni di paralisi, o meglio paura dei medesimi – non erano affatto scomparsi. Anche il suo aspetto non era certo quello di un uomo non ancor quarantenne. Aveva il cranio quasi completamente calvo, solo sulla nuca e sulle tempie c’erano ancora pochi capelli radi e rossicci, e i piccoli occhietti tondi che si muovevano inquieti erano piú che mai infossati nell’orbita. Piú prepotente invece e piú ossuto che mai, il suo gran naso adunco sporgeva in mezzo alle guance scarne e terree, sopra i grossi baffi biondastri spioventi sulla bocca. E i calzoni di ottima stoffa inglese pendevano flosci intorno alle gambe stecchite e curve.
Dal suo ritorno abitava come prima una stanza nel corridoio del primo piano in casa di sua madre, ma stava piú al circolo che nella Mengstrasse, perché lí non gli rendevano troppo gradevole la vita. Riekchen Severin, succeduta a Ida Jungmann nel governo della casa e della servitú, una tozza campagnola di ventisette anni dalle guance rosse e screpolate e dalle labbra tumide, aveva capito, col senso pratico dei contadini, che non occorreva aver tanti riguardi per quel contafavole disoccupato, alternativamente sciocco o malato, del quale il senatore, la vera persona importante, non faceva nessun caso; e perciò non si preoccupava affatto delle sue necessità. – Oh, signor Buddenbrook! – diceva. – Adesso non ho proprio tempo di badare a lei! – Allora Christian la guardava arricciando il naso, come per dire «Non ti vergogni?» e se ne andava per la sua strada rigido e interito.
– Credi che io abbia sempre una candela in camera? – diceva a Tony. – Ben di rado! Per lo piú devo andare a letto con un fiammifero –. Oppure sospirava (perché la somma che gli poteva ancora dare sua madre per le spese minute era modesta): – Che brutti tempi!... Eh sí, tutto era diverso una volta! Cosa credi?... sovente devo farmi prestare cinque scellini per comprarmi il dentifricio!
– Ma Christian! – esclamava la signora Permaneder. – Che vergogna! Con un fiammifero! Cinque scellini! Non parlarne, almeno! – Era inorridita, sdegnata, offesa nei suoi sentimenti piú sacri; ma questo non mutava nulla...
I cinque scellini per il dentifricio Christian se li faceva prestare dal suo vecchio amico Andreas Gieseke, dottore in diritto civile e penale. Era un’amicizia fortunata, che gli faceva onore; perché l’avvocato Gieseke, quel suitier che sapeva conservare il decoro, nell’inverno scorso, quando il vecchio Kaspar Överdieck s’era dolcemente spento e il dottor Langhals ne aveva preso il posto, era stato eletto senatore. Ma non per questo aveva cambiato vita. Si sapeva che, pur possedendo dopo il suo matrimonio con una signorina Huneus una casa spaziosa nel centro della città, egli aveva anche nel sobborgo di Santa Gertrude un villino rivestito di verde e comodamente arredato, dove abitava tutta sola una signora ancora giovane e graziosissima, di origini misteriose. Sulla porta di casa si leggeva, in vaghe lettere d’oro, la parola «Quisisana», e in tutta la città la tranquilla villetta era conosciuta sotto quel nome. Christian Buddenbrook, il migliore amico del senatore Gieseke, aveva libero accesso a «Quisisana» e anche lí s’era sistemato come ad Amburgo con Aline Puvogel, e, in altre occasioni simili, a Londra, a Valparaiso e in tanti altri luoghi della terra. Aveva «raccontato qualche storiella», aveva «fatto qualche cortesia» e adesso frequentava la villetta verde con la stessa assiduità del senatore Gieseke. Se ciò accadesse col consenso e l’approvazione di quest’ultimo, non sapremmo dire; fatto sta che Christian Buddenbrook trovava a «Quisisana» senza costo di spesa gli stessi amabili svaghi che il senatore Gieseke era costretto a pagare col denaro sonante di sua moglie.
Poco tempo dopo il fidanzamento di Hugo Weinschenk con Erika Grünlich, il direttore offerse a Christian un impiego nella società d’assicurazioni, e infatti Christian lavorò per una quindicina di giorni nella Cassa Incendi. Ma purtroppo si dovette constatare che non soltanto il «tormento» al fianco sinistro, ma anche tutti gli altri disturbi indefinibili ne erano aggravati; e che inoltre il signor Weinschenk era un superiore molto violento, il quale per un errore che il futuro parente aveva commesso non s’era peritato di chiamarlo «tricheco»... e Christian fu costretto a lasciare l’impiego.
In quanto a Madame Permaneder, ella era felice; e la sua letizia si esprimeva in sentenze come questa: che la vita terrena può avere talvolta anche i suoi lati buoni. Ella rifiorí veramente in quelle settimane, che, piene di vivificante attività, di progetti svariati, di preoccupazioni per la casa e di febbre per il corredo, le ricordavano troppo chiaramente il tempo del suo primo fidanzamento perché ella non dovesse sentirsi ringiovanita, e animata dalle piú liete e illimitate speranze. Il suo viso e i suoi gesti ripresero in buona parte la graziosa petulanza di quand’era fanciulla; e anzi ella giunse a profanare la pia atmosfera di tutta una «serata di Gerusalemme» con una cosí sbrigliata allegria, che persino Lea Gerhardt lasciò cadere il libro dell’antenato e girò all’intorno i suoi grandi occhi ignari e diffidenti di sorda...
Erika non si sarebbe separata da sua madre. D’accordo col direttore, anzi per suo desiderio, s’era stabilito che la signora Antonie – almeno per ora – avrebbe abitato coi Weinschenk, per assistere nella direzione della casa la figliola inesperta; e proprio questo le dava la squisita sensazione che un Bendix Grünlich, un Alois Permaneder non fossero mai esistiti, che tutti gli insuccessi, le delusioni, le sofferenze della sua vita fossero cancellate e sparite, e che le fosse concesso ricominciare da capo con novelle speranze. Esortava, sí, Erika a ringraziare Iddio che le concedeva di sposare l’uomo amato, mentre lei, sua madre, aveva dovuto soffocare in nome del dovere e della ragione la prima tenera inclinazione del cuore; e nel registro di famiglia scrisse con mano tremante di gioia il nome di Erika accanto a quello del direttore... ma era lei, lei Tony Buddenbrook, la vera sposa. Era lei che palpava un’altra volta con mano esperta tappeti e portiere, che sfogliava cataloghi di mobili e di oggetti casalinghi, che visitava e prendeva in affitto un appartamento «signorile». Era lei che doveva abbandonare di nuovo la pia e vasta casa paterna e cessare di essere soltanto una signora divorziata; a lei si presentava ancora una volta la possibilità di rialzare la testa e di incominciare una vita nuova, tale da destare l’attenzione di tutti e da contribuire al lustro della famiglia... E poi, non era un sogno? le dilette vestaglie riapparivano all’orizzonte! due vestaglie per lei e per Erika, di morbida stoffa operata, con larghi strascichi e file serrate di fiocchi di velluto, dalla gola fino ai piedi!
Intanto le settimane passavano, e il periodo del fidanzamento volgeva alla fine. La giovane coppia aveva fatto poche visite, perché il signor Weinschenk, assorbito da un serio lavoro, e inesperto della vita mondana, intendeva consacrare le sue ore di riposo all’intimità familiare. Un pranzo di fidanzamento aveva riunito nella gran sala in casa del senatore i fidanzati, Thomas, Gerda, Friederike, Henriette e Pfiffi Buddenbrook con la piú prossima parentela; di nuovo tutti trovarono assai strano che il direttore non la smettesse di accarezzare il décolleté di Erika... E giunse il giorno delle nozze.
Il matrimonio fu celebrato, come una volta, quand’era la signora Grünlich che portava i fiori d’arancio, nella galleria a colonne. La signora Stuht della Glockengiesserstrasse, quella che frequentava i migliori ambienti, aveva aiutato la sposa a disporre le pieghe della veste di raso bianco e i ramoscelli di mirto; il senatore Buddenbrook era il primo testimonio, e l’amico di Christian, il senatore Gieseke, il secondo; due antiche compagne di scuola di Erika facevano da damigelle d’onore; il direttore Hugo Weinschenk aveva un aspetto virile e imponente, e pestò una volta sola il lungo velo di Erika avanzando verso l’altare improvvisato; il pastore Pringsheim, con le mani congiunte sotto il mento, celebrò con tutta l’estasi solenne che gli era propria, e ogni cosa si svolse secondo l’uso e il decoro. Quando furono scambiati gli anelli e risuonarono nel silenzio i due «sí», quello grave e quello acuto, entrambi un po’ rochi, la signora Permaneder sopraffatta dal passato, dal presente e dall’avvenire ruppe in un pianto sonoro (era ancora il suo pianto infantile, schietto e impulsivo) mentre le signorine Buddenbrook, fra le quali Pfiffi che portava per la grande occasione una catena d’oro al pince-nez, sorridevano un po’ acide come sempre in simili casi... Madamigella Weichbrodt invece, Therese Weichbrodt, negli ultimi anni diventata ancora piú minuta, Sesemi, che portava al piccolo collo scarno il medaglione ovale col ritratto della madre, disse con quella esagerata energia che vuol dissimulare una commozione profonda: «Sii falice, cora bombina!»
Nella cerchia delle bianche figure che in atteggiamenti serenamente immutati spiccavano sulla tappezzeria azzurra, fu poi offerto un banchetto tanto solenne quanto sostanzioso, verso la fine del quale gli sposi novelli scomparvero per iniziare il loro viaggio verso alcune importanti metropoli... Era circa la metà di aprile; e nelle due settimane successive la signora Permaneder, aiutata dal tappezziere Jacobs, compí uno dei suoi capolavori: l’arredamento signorile dello spazioso alloggio al primo piano d’una casa nella Bäckergrube, le cui stanze riccamente ornate di fiori accolsero la coppia al ritorno dal viaggio di nozze.
E incominciò il terzo matrimonio di Tony Buddenbrook.
Sí, non si poteva dire altrimenti; il senatore stesso aveva usato questa definizione un giovedí, quando i coniugi Weinschenk non erano presenti, e la signora Permaneder l’aveva accettata con compiacenza. Infatti tutte le cure per la casa gravavano su di lei, ma ella ne rivendicava per sé anche la gioia e l’orgoglio, e un giorno incontrando inaspettatamente per la strada la consolessa Julchen Möllendorpf nata Hagenström, la guardò in faccia con un’aria cosí trionfante e provocante che quella si risolse a salutare per prima... Gioia ed orgoglio si traducevano in gravità solenne quando accompagnava in giro i parenti che venivano a visitare la casa nuova, mentre Erika stessa durante quelle visite si comportava quasi come un ospite compreso di ammirazione.
Tirandosi dietro lo strascico della vestaglia, con le spalle un po’ sollevate, la testa buttata indietro, in mano il mazzo delle chiavi legato con un nastro di raso (andava pazza per i fiocchi di raso), la signora Antonie mostrava ai visitatori i mobili, le portiere, la porcellana trasparente, la lucida argenteria, i grandi quadri a olio acquistati dal direttore: nature morte di roba commestibile e donne svestite, perché tale era il gust...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I Buddenbrook
  3. Introduzione di Cesare Cases
  4. I Buddenbrook
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Parte terza
  8. Parte quarta
  9. Parte quinta
  10. Parte sesta
  11. Parte settima
  12. Parte ottava
  13. Parte nona
  14. Parte decima
  15. Parte undicesima
  16. Il libro
  17. L’autore
  18. Dello stesso autore
  19. Copyright