Vulcano non ha padre. È una divinità focosa, ma non irascibile. Il suo fuoco brucia solenne. È spesso considerato il corrispondente latino del greco Efesto, ma è un arbitrio e anche una forma di pregiudizio, per cosà dire, scolastico. Certo le convenzioni spesso semplificano, ma, qualche volta, complicano. E il pensiero convenzionale che Vulcano sia figlio di Giove e Giunone, un figlio particolarmente caratteriale, complica anziché semplificare. Perché in realtà Giove non è il padre di Vulcano, ma, secondo alcuni, è addirittura suo figlio. Le paternità hanno dalla loro che s’insinuano nel gioco infinito delle abitudini. Se la maternità non è discutibile, la paternità prende significato da una condizione di fiducia, ma anche da un preciso presupposto di diffidenza. S’intendeva questo con la formula mater certa. E intere culture hanno stabilito la loro consistenza in rapporto a questa formula. Eppure l’incertezza dei padri li ha resi piú degni del loro compito. Pater autem incertus è un modo impietoso di metterla giú, non c’è che dire. I figli passano, spesso senza nemmeno saperlo, un sacco di tempo a fare i conti con questa diffidenza. Ogni padre è tre fuochi insieme: quello dell’accoglienza, quello del sacrificio, quello della vendetta. I figli guardano ai padri esattamente nelle tre accezioni: compagni accoglienti delle madri, fumosi e sfuggenti, inflessibili e punitori. È assai raro che queste tre accezioni si manifestino tutt’e tre insieme nel corso di un’intera vita. Ci sono dei figli che crescono troppo in fretta e dei padri che non crescono mai. Ci sono aspettative che si divaricano fino all’incomunicabilità e complicità che permangono fino a quando i figli smettono di essere figli al cimitero, mentre assistono alla tumulazione del genitore. Ci sono, infine, dichiarazioni di guerra terribili, solenni, che si raffinano nel tempo, che non prevedono esclusioni di colpi. Né, tanto meno, sensi di colpa.
Non troppo tempo dopo, durante uno dei loro discorsi sempre oscillanti tra la lotta greco-romana e la tartare al coltello, Pietro aveva protestato perché suo figlio tirava in ballo quello che lui detestava chiamare il senso della Storia. Che era solo una maledetta accumulazione di dati che, troppo spesso, genera l’illusione di poter controllare vicende di per sé incontrollabili.
– Ho buttato via i miei soldi con te, – affermava. – Ancora questa faccenda della Storia come maestra di vita…
– Tu non avevi soldi, – tagliava il figlio, ricordandogli la sua storia. – Quella ricca era la mamma.
Ma Pietro Striggio non era di quelli che si lasciano demolire da una risposta ben data, anzi, l’arguzia del figlio lui l’ascriveva senza dubbio a sé. – Sempre a menarla con la Storia! Ma lo sai che il tuo insegnante, quando eri alle medie, pensando di farti, e farci, un complimento, affermava che ogni volta che t’interrogava era come se volessi fartela tu la Storia. Una Storia tutta tua.
– Forse se tu non avessi il vezzo di far finta che esista un mondo tra la traduzione letterale delle cose e le cose stesse, l’immagineresti anche tu.
– Perdona, ma l’immaginazione no. L’immaginazione è per i figli, quando sarai padre smetterai d’immaginare. Ecco, l’ho detto.
– L’hai detto cosa?
– «Quando sarai padre». Insieme a «Questa casa non è un albergo» avevo giurato di non dirlo mai. Eppure vedi? Te l’ho appena detto.
– Beh, questo ti rende improvvisamente comune, non è male come sensazione. Comunque senza quell’orpello della Storia io a questo punto non potrei proprio capire da dove vengo.
– Ma è cosà utile saperlo? La Storia, dici: i tuoi nonni si toccavano con la Cumparsita, io e tua madre con i Procol Harum, tu con cosa tocchi la tua donna?
– Ultimamente? Björk o Sam Smith, direi.
– Ah, e sono famosi?
– Molto famosi, direi.
– Devi sempre dire direi?
– Non so, lo dico sempre?
– SÃ, lo dici sempre.
– Ti va la pizza stasera?
– Mi va tutto, lo sai che io mangio tutto.
– Pensavo dovessi fare una dieta particolare.
– Che sciocchezza: ho un tumore terminale al cervello, mica allo stomaco.
La pizzeria Vulcano era un locale con pretese di eleganza. Gli arredi in formica rosata ricordavano vagamente il tono della tintura del procuratore Susini. Le sedie erano pesantissime, come se i proprietari si fossero preoccupati di fare in modo che nessuno dei clienti potesse spostarle o scappare portandosele dietro. Come al solito Sergio scelse un tavolo da cui potesse vedere il forno a legna. Aveva assicurato a suo padre che si trattava della migliore pizza di Bolzano. Striggio senior aveva ordinato una semplice Margherita. «Perché, – aveva sentenziato, – dalla Margherita si capisce tutto». Era chiaro che stava giocando a dar retta al figlio sulla linea dell’eccellenza. Ed era chiaro che ne avrebbe approfittato.
– Che poi, cosa significhi dire che questa pizza è la migliore di Bolzano è un mistero, – rifletté dando un’occhiata clinica alla pietanza fumante che un cameriere gli aveva messo davanti. Sergio, che aveva ordinato una Saracena con capperi e acciughe, fece un primo taglio a croce sul suo disco. I titani di Vulcano, bianchi di farina, in bocca al forno lavoravano a pieno regime. – Sarebbe come dire in Campania: mangerai i migliori canederli di Posillipo –. Dunque cominciò ad affettare la sua pizza.
– Sarebbe un’evoluzione straordinaria dei nostri rapporti se tu riuscissi a passare una mezz’ora senza affermare niente di direttamente, o indirettamente, razzista, – disse Sergio con la giusta dose di noncuranza.
Pietro Striggio dapprima tacque, come se non fosse nemmeno necessario registrare quella perorazione del politicamente corretto da parte del figlio. Quindi si apprestò enfaticamente ad assaggiare la sua Margherita. – Sentiamo la migliore pizza di Bolzano, – disse prima di metterla in bocca.
– Potevi ordinare i canederli! – sbottò Sergio.
– Eri tanto entusiasta della pizza, – rispose Pietro con un’aria assolutamente ingenua. – Razzista? – chiese a un certo punto, cosÃ, a vuoto.
– Razzista, – confermò Sergio. – Hai sempre avuto questa caratteristica di far sembrare razzista qualunque cosa tu dica. Il tono, credo.
– Ah, – fece quell’altro. – Cose del tipo che i negri, pardon i neri, hanno il ritmo nel sangue? – chiese divertendosi. Intanto affrontò un’altra fetta.
– Davvero spiritoso.
– La leggerezza, figlio mio, non è mai stata il tuo forte… – rifletté con la bocca piena.
– Ho passato gran parte della mia infanzia a cercare di resistere alla tua.
– Ah s� Mi stai dicendo che non mi avevi candidato per il titolo di padre dell’anno? Si era capito. Ma a te era impossibile farti ridere.
– In compenso era facilissimo farmi piangere.
– Facevi la femminuccia. Era tua madre, direi.
– Magari ero una femminuccia, non credi?
Pietro restò un tempo indefinito a fissare suo figlio. Poi ritornò a occuparsi del suo piatto. Sergio aspettò una risposta che non arrivava.
– Ti divertivi a mettermi in ansia, tifavi sempre per la squadra che giocava contro quella per cui tifavo io. E continuavi a dire «Ora segnano, ecco che segnano». E piú la cosa mi metteva in ansia piú continuavi.
Pietro aveva fatto in tempo a finire la sua pizza. – Era un modo per tenerti sulla graticola, – disse mentre si versava da bere, come se quella spiegazione fosse del tutto sufficiente. – Eri un ragazzino molto presuntuoso e ti piaceva far sentire inferiori le persone –. Bevve.
Sergio abbandonò le posate sul suo piatto. – Ma parli sul serio? Davvero dici queste stronzate? Mi piaceva far sentire inferiori le persone?
– Passavi il tuo tempo a covare risentimento, – lo sovrastò Pietro. – Te lo facevo notare, e speravo che tu avessi abbastanza palle per rispondermi! – Sergio non poteva credere che a parlare in quel modo fosse davvero suo padre. E quell’incredulità produsse una pausa pesantissima in cui Pietro s’insinuò: – Certo ti provocavo, ma il risultato non è stato male, mi pare…
– Se volevi produrre il tuo opposto devo concordare che non è stato male.
Pietro strinse le labbra come per organizzare una risata che non fece. – Fai sfreddare la pizza migliore di Bolzano, – disse.
Per una ragione sconosciuta era riuscito a smorzare la tensione. – Fanculo, – sussurrò Sergio spostando il piatto. Si era fatto spazio per appoggiare gli avambracci al tavolo.
Pietro afferrò quel piatto e lo sovrappose al suo, vuoto. – Se non la finisci… – disse. Sergio gli fece segno con una mano per dire: «Serviti pure». – Come procedono le tue indagini? – chiese. Che gli interessasse o meno la risposta era un mistero. – Dicono che queste cure fanno passare la fame, ma nel mio caso o hanno sbagliato cure o hanno sbagliato la malattia.
– Sospetto del padre, – rispose a freddo Sergio.
– Per un motivo preciso, per esperienza o per semplice intuizione?
– Non so, intuizione, direi.
– E le prove?
– Nessuna. Una sensazione: è un uomo freddo, uno con la mania del controllo, curato in modo un po’ maniacale, direi anaffettivo.
– Beh, – commentò Pietro, finendo quanto rimaneva della pizza di Sergio. – Potrebbe tranquillamente essere la tua descrizione, non trovi? – chiese. – Anaffettivo no, – corresse. – Non c’era animale abbandonato che non volessi portare a casa.
– SÃ, va bene, – glissò Sergio. – Vuoi dire che sono freddo e maniacale?
– Voglio dire che l’essere padre non significa automaticamente essere colpevole. Il fatto che tu ce l’abbia con me non deve influenzare il tuo punto di vista.
– Io non ce l’ho con te. E, per inciso, so fare il mio lavoro…
– Che, per inciso, è un lavoro che conosco bene.
Si stavano confrontando sul piano della competenza, adesso. Come quando Sergio aveva otto o nove anni e Pietro si era trovato a dover ammettere che non avrebbe mai finito il cruciverba senza di lui, che conosceva i nomi di fiumi mai sentiti prima, di località sconosciute come il Brabante o Taipei, che sapeva che magiaro vuol dire ungherese e che i daci erano gli antichi rumeni, che conosceva il nome dei re detti il Breve e il Bello.
– Pipino e Filippo –. La voce di Sergio sembrò tornata quella di lui bambino.
– Già , quelle due teste di cazzo di Pipino e Filippo… Proprio loro, – ripeté Pietro cominciando a sentire un leggero intorpidimento della vista.
– C’è qualcosa che devo dirti, anzi no, che voglio dirti, – bofonchiò Sergio a capo chino.
– Vuoi dire che non devi?
– Voglio dire che si tratta di una comunicazione che ho deciso io di farti, – insistette Sergio troppo concentrato nella sua confessione per badare a quello che stava succedendo davanti a lui.
– Una comunicazione che ti riguarda? – chiese Pietro brancolando per afferrare un bicchiere d’acqua.
Sergio tenne lo sguardo fisso sulla porzione di tavolo che poco prima aveva liberato dal suo piatto. – C’è una persona… – cominciò. Ma non poté proseguire.
Pietro cadde all’indietro in preda a uno spasmo incontrollabile. Sergio balzò in piedi per raggiungerlo. Era caduto sulla schiena rovesciando la sua pesantissima sedia, con le gambe in alto, come il monumento di un legislatore seduto nel suo scranno, abbattuto da una rivoluzione… Prima di chiudere gli occhi aveva fatto in tempo a notare l’orrendo effetto caverna del soffitto con tanto di stalattiti di gesso, e la bocca del forno che si spalancava come ad accogliere sacrifici umani.
A Sergio parve che ci fosse qualcosa di potentemente eroico in quell’uomo che era appena caduto. Era indifeso, ma non passivo, non dava l’idea di qualcuno a cui si potesse fare di tutto. Una donna che mangiava a qualche tavolino di distanza si avvicinò: – Sono un medico, – disse. – Non accalcatevi. Chiamate un’ambulanza –. Poi si chinò sul corpo di Pietro, gli mise due dita alla giugulare e assicurò che non si trattava di un probl...