Dunque no, dissi a mio zio l’anno seguente, quando mi chiese se volessi di nuovo quel lavoro; e che sí, certo, anche quell’anno avrei voluto guadagnarmi qualche soldo, perché c’era questa idea di fare agosto a camminare in montagna, una cosiddetta alta via, con alcuni amici, e quel che potevano darmi i miei non bastava di certo. Però, magari potevo fare il manovale, cosí imparavo anche qualcosa, visto che studiavo da geometra. Non l’avessi mai detto. Aveva un amico impresario, se volevo, ci avrebbe parlato. E fu cosí che, appena finito l’anno scolastico, di nuovo in bilico fino all’ultimo e di nuovo sorprendentemente promosso, mi ritrovai apprendista muratore, cosí sul mio libretto di lavoro.
Contro ogni mia aspettativa, passai quel mese di luglio perennemente al chiuso, dentro un palazzo del centro storico di Vicenza, a stuccare le tracce in cui idraulici ed elettricisti avevano appena finito di infilare i loro tubi, o meglio ad assistere il vecchio muratore, già in pensione, che, cosí lui, si era assunto il compito per fare un favore all’impresario, che era sempre in crisi perché aveva piú lavoro che uomini, e naturalmente anche per prendersi quattro soldi, visto che era in pensione, ma si sentiva ancora di lavorare. Però con calma, non sempre tutto di corsa come una volta; e se al padrone andava bene cosí, bene; e sennò che trovasse qualcun altro; cosa non facile, diceva, perché al giorno di oggi nessuno vuol piú fare il muratore. Quanto a me, bastava che facessi quel che lui mi diceva e saremmo andati senz’altro d’accordo. Ricordo che la sua faccia mi sembrava fuori posto, molto piú vecchia del corpo, asciutto, tonico, ma al tempo stesso incredibilmente rigido. Salire e scendere dall’impalcatura, accucciarsi, piegare la schiena, sollevare un peso, spalare la sabbia nella betoniera, tutti i movimenti che faceva erano controllati, sempre uguali, estremamente economici, organizzati in sequenze accuratamente coreografate in anni e anni di lavoro, in una continua, quotidiana ripetizione, che aveva finito per modificare il suo corpo in funzione del lavoro, usurandone inesorabilmente le giunture. La lentezza dei gesti era compensata dalla costanza, che riduceva al minimo i tempi morti.
Mi insegnò a fare la malta, dosando sabbia, calce e cemento, che andavano mischiati prima in terra, e solo poi spalati nel tamburo della betoniera elettrica, dove già era stata versata la giusta quantità d’acqua; a sorvegliare l’impasto, correggendolo, se del caso, in modo che non fosse troppo grasso – eccesso di calce – né troppo magro – troppo poca calce. Poi, dovevo vuotare la betoniera nella carriola, che andava prima bagnata, in modo che la malta non si attaccasse al fondo, agganciare la carriola al gancio del montacarichi elettrico e infine, utilizzando l’apposita tastiera, sollevarla fino al piano dove lui stava lavorando, per poi salire, sganciarla e portargliela. Mentre lui provvedeva a tappare i buchi, io raccoglievo la malta che finiva a terra e la rimescolavo con quella fresca e, appena vuotata una carriola, scendevo a prenderne un’altra e cosí via. La sera, all’orario stabilito, come mi aveva insegnato, lavavo accuratamente la betoniera e tutti gli attrezzi. Un mese di lavoro piuttosto noioso e ripetitivo, sempre al chiuso, a fare malta dalla mattina alla sera, in compagnia di un vecchio muratore che brontolava tutto il tempo. Se non fosse per le passeggiate sui tetti del centro di Vicenza, non ci sarebbe niente da ricordare.
Ogni giorno, dopo mangiato, lui si stendeva su un pacco di pannelli isolanti, poggiava la testa sulla giacca da lavoro, appositamente arrotolata, si calava il basco sugli occhi, e dormiva per circa un’ora. A me il compito di fare la guardia, nel caso fosse arrivato qualcuno. A quell’ora, dall’una alle due, era molto improbabile, ma era bene non fidarsi. Me lo ripeteva ogni volta, prima di stendersi. Il primo giorno esplorai il palazzo, dalle cantine al sottotetto, stanza per stanza, facendo piano, per non svegliarlo. A ogni rumore sospetto, tendevo l’orecchio e restavo immobile qualche secondo, in ascolto. Non arrivò nessuno. Alle due lui si alzò, puntuale come un orologio, e riprendemmo il lavoro. Lo stesso il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Iniziai a portarmi da casa un libro e, in quell’ora morta, mi sedevo su un doppio bimattone, vicino alla porta d’ingresso, poggiavo la schiena sul muro e leggevo. Ma era rischioso: a un certo punto iniziavo a leggere senza leggere, le parole si confondevano, le palpebre si facevano pesanti e la testa anche di piú, fino a cadere di lato. Qui mi svegliavo con un sobbalzo, subito mi alzavo in piedi e restavo in ascolto. Tutto tranquillo, a parte il cuore che batteva nelle orecchie. Ma chissà, un giorno magari la testa, anziché cedere di schianto, si piegherà dolcemente di lato, e proprio quel giorno, arriverà qualcuno. Meglio non rischiare, meglio non sedersi; meglio non portare nessun libro. Avrei voluto lavorare, ma da solo, senza di lui, non c’era niente che potessi fare. Certo non potevo preparare la malta. Il rumore della betoniera l’avrebbe svegliato. Lavare gli attrezzi era un lavoro da fare la sera, prima di andarsene; lavarli anche a metà giornata non aveva nessun senso, non piú di quanto ne avesse continuare ad aggirarsi per quel palazzo vuoto. Anche guardare dalle finestre mi era presto venuto a noia. A quell’ora, in piena estate, per quella stradina stretta, chiusa al traffico, come il resto del centro storico, non passava nessuno. Sputavo giú comunque, ma non era la stessa cosa. A un certo punto, non trovai altra soluzione per ingannare il tempo, che uscire sul tetto, attraverso uno dei lucernari, da cui, fino a quel momento, avevo solo sporto la testa. Camminare sui coppi non era un problema. Arrivai sul colmo e mi guardai intorno. Fu una rivelazione. Lasciai vagare lo sguardo e mi accorsi per la prima volta dell’abnorme quantità di statue che popolano il cielo della città. Ma ciò che piú mi colpí fu rendermi conto che i tetti erano comunicanti, che avrei potuto spingermi molto in là, in un senso come in un altro, semplicemente camminando sui tetti dei palazzi. Da dove mi trovavo, avrei potuto facilmente raggiungere piazza dei Signori e, dalla parte opposta, corso Palladio. I dislivelli non sembravano impossibili da superare. La cosa andava verificata. Quel primo giorno mi accontentai di questo, e ridiscesi subito. Stare sul tetto non era esattamente il posto ideale per accorgersi se arrivava qualcuno. L’indomani, appena il tipo si calò il basco sugli occhi, non persi tempo e uscii sul tetto, impaziente com’ero di dare inizio alle mie esplorazioni. Dopo un po’, passando i giorni e non essendo mai arrivato nessuno, mi dimenticai che dovevo fare la guardia e mi ritrovai a impiegare tutta l’ora morta camminando avanti e indietro sui tetti. All’epoca, rischiare la vita per niente era uno dei miei passatempi preferiti. Nonostante il caldo, mi piaceva stare lassú, e di tanto in tanto scendere lungo una falda, per sporgermi nel vuoto a guardare giú; e ogni giorno mi spingevo un po’ piú in là, rischiando sempre un po’ di piú. Mi passò per la testa che, calcolando bene la rincorsa, sarei stato in grado di saltare da una parte all’altra della strada. In certi punti non sembrava impossibile.
Per fortuna rimandai sempre e, prima che potessi risolvermi a tentare, avendo guadagnato abbastanza per pagarmi l’alta via, mi licenziai e, come da istruzioni, mi recai nell’ufficio dell’impresario, cioè l’amico di mio zio, per ritirare il dovuto. Lo trovai ad aspettarmi seduto alla sua scrivania, sulla quale erano sparse, aperte e in bella vista, delle riviste pornografiche. Perché non gli dài un’occhiata, disse, intanto ti preparo la busta e le carte da firmare? Imbarazzato, non sapendo come reagire, cominciai a sfogliarle, mentre, con la coda dell’occhio, non lo perdevo di vista un momento. Lui si alzò, prese da un cassetto le famose carte, e si posizionò in piedi di fianco a me, dicendomi che ne aveva delle altre, e che nell’altra stanza aveva anche un proiettore con dei filmini, e se volevo potevamo guardarne qualcuno insieme, anche subito. No grazie, dissi alzandomi di scatto, mia madre mi aspetta, se non mi vede arrivare si inquieta; e se poteva darmi la mia busta, dissi, e farmi firmare quel che dovevo firmare. Peccato, disse lui, non sai cosa ti perdi. Non volevo affatto saperlo. Magari passi uno di questi giorni, disse dandomi quel che mi spettava. Certo, dissi, perché no? Presi i miei soldi e me ne andai di corsa.
Se fino ad allora la mia promozione era stata ogni anno appesa a un filo, mai filo fu piú sottile di quello che mi tenne sospeso in quell’ultimo anno di geometri. Avevo collezionato cosí tante assenze e ottenuto una media cosí scarsa, specie nelle materie considerate fondamentali, come topografia, costruzioni, estimo, che mi aspettavo di non essere nemmeno ammesso agli esami di maturità. A dire il vero un po’ ci speravo. Almeno, cosí pensavo, mi sarei risparmiato l’umiliazione degli esami, dove ero certo che, se fossero uscite le materie sbagliate, sarei stato certamente bocciato; e le materie sbagliate sarebbero uscite di sicuro, perché erano proprio quelle materie di cui sopra, a ragione ritenute fondamentali per un geometra, che erano state per me le piú ostiche in assoluto, tanto che le avevo per cosí dire abbandonate, date per perse, o meglio: avevo dato per perso me stesso rispetto alla possibilità anche solo di capire di che cazzo si trattasse. Ancora oggi non riesco a spiegarmi come sia stato possibile che io fossi prima ammesso, e poi addirittura promosso a quei maledetti esami di maturità, specie dopo che, agli orali, mi era stato mostrato il mio compito di italiano, materia che avevo portato come facoltativa. Ora, se c’era una materia in cui andavo bene, anzi benissimo, era italiano, al punto che, se ero arrivato fino a lí, lo dovevo solo ed esclusivamente ai miei temi di italiano e all’effetto da essi prodotto sui vari insegnanti di italiano che in quegli anni si erano succeduti, insegnanti che mi avevano sempre immancabilmente difeso, perorando la mia causa nei consigli di classe, dandomi voti talmente alti da riuscire ad alzare la mia media generale, che altrimenti sarebbe crollata ben sotto il minimo richiesto. Se c’era qualcosa che tutti, io compreso, davano per scontata, era che il mio tema di italiano sarebbe stato all’altezza della mia fama, e mi avrebbe permesso di cavarmela. Peccato che il tema di attualità, cioè quello che sceglievo sempre e immancabilmente, e che infatti scelsi anche agli esami di maturità, fosse sul terrorismo. Niente di strano visto che si era nel 1979. E dato che ci veniva chiesto di esprimere a riguardo un’opinione, io l’avevo espressa; e come mio solito, con tutta la stupidità di cui non sono mai riuscito a liberarmi, l’avevo fatto in modo diretto, senza infingimenti, per cosí dire, e senza minimamente preoccuparmi delle conseguenze. Dal quattro al cinque, questo il voto. Ero attonito, non potevo crederci. Nell’infinita arroganza che, nelle questioni di scrittura, superava la mia timidezza, chiesi se fosse possibile vedere il compito. Il foglio protocollo, che avevo riempito quasi interamente, era intonso. Gli unici segni rossi erano due virgole. Un classico: quando non ci sono errori di sintassi o di ortografia, si sentono in dovere di correggere la punteggiatura. Ma, dissi, non c’è nessun errore. Non è questione di errori, disse il capo della commissione, ma di contenuto. Di contenuto? Sí, disse, di contenuto. Trovai addirittura la forza di protestare: Com’è possibile, dissi, prima chiedere un’opinione, e poi, una volta che l’opinione viene espressa, e, a quanto potevo vedere, espressa correttamente, valutare negativamente l’opinione in sé? Il presidente di commissione, visibilmente infastidito, mi zittí dicendo che dovevo ritenermi fortunato, visto che si era addirittura discusso se fosse o meno il caso di denunciarmi per apologia di reato. Secondo lui c’erano gli estremi, ma considerata la mia giovane età, avevano deciso di lasciar perdere. Peccato non avere una copia di quel tema: sarei davvero curioso di rileggerlo ora. Per quel che ricordo, niente di cosí terribile, solo che, come Sciascia, pur non avendo all’epoca ancora letto Sciascia, dicevo, cioè scrivevo, che non ero con le Brigate Rosse, ma certo non ero con lo Stato; e poi avevo scritto anche che, tutto sommato, pur non appoggiando i terroristi, trovavo positivo, anzi sano, che determinate categorie di persone, abituate a dire e a fare il cazzo che volevano senza dover rispondere a niente e a nessuno, si trovassero ora ad aver paura anche solo a uscire di casa; e poi, adesso che mi viene in mente, avevo anche scritto che non credevo affatto alla cosiddetta non-violenza, e che, se si decide di scendere in piazza, bisogna essere pronti a scontrarsi con la polizia, altro che porgere loro dei fiori!; per quanto mi riguarda, ricordo di aver scritto, l’unico modo di porgere dei fiori a un poliziotto è gettandoli dalla finestra, possibilmente in un vaso; e, a proposito di Moro, del suo rapimento e della sua uccisione, ebbene del fatto in sé non scrissi nulla; ma che fosse un eroe, come qualcuno diceva, o un martire, come diceva qualcun altro, o addirittura un santo, no, su questo non ero affatto d’accordo; al contrario: un uomo di potere come tanti altri, uno dei tanti grigi e famigerati uomini di potere democratico-cristiani che imperversavano in quegli anni; uno che, alla fine, voleva solo salvarsi, non certo un eroe, ma uno che, per salvarsi, era disposto a scrivere e a dire qualsiasi cosa, non certo un martire, né un santo; i martiri, come mi avevano insegnato le suore all’asilo, si rifiutavano di cedere e preferivano morire, non senza prima essere stati torturati a lungo e orrendamente, motivo per cui diventavano poi santi; e che Moro non fosse un santo, ricordo di aver scritto, lo provava anche il fatto che il suo segretario, che tra l’altro era di Vicenza, fosse ora indagato per questioni di tangenti eccetera. Forse avevo un po’ esagerato? Ma esagerato rispetto a che cosa? Le mie tesi erano ben esposte e scritte in modo assolutamente corretto. Dunque perché dal quattro al cinque? Esiste forse, oltre alla grammatica, una grammatica politica, per cosí dire, a cui bisogna attenersi per scrivere correttamente? Ancora oggi, quando ci penso, quel voto mi brucia, addirittura mi indigna. Resta il fatto che certe cose, oggi come allora, non si possono scrivere, o almeno non senza avere intorno una qualche rete di consenso, cosa di cui l’autore è sprovvisto. Di certo ne era del tutto privo allora, al cospetto della commissione esaminatrice che doveva decidere se fosse o no maturo.
A quel punto, ero certo che sarei stato bocciato. Discussi senza convinzione la mia ricerca su Ungaretti – oggi si direbbe tesina –, e me ne tornai a casa con la coda tra le gambe, anzi bene infilata su per il culo, pensando a come avrebbero reagito i miei, non appena il mio fallimento fosse stato reso pubblico. Probabilmente, pensavo, avrebbero insistito perché ripetessi l’anno, forti dell’argomento con cui mi avevano convinto a restare fino agli esami, mentre io volevo ritirarmi già alla fine del primo disastroso quadrimestre, e cioè: visto che ormai ero arrivato fino a lí, tanto valeva fare uno sforzo, ripetere l’anno e portare a casa quel benedetto diploma. Ma malgrado l’esito disastroso del compito di italiano, con mia somma sorpresa, alla fine venni promosso; con la votazione minima, ma promosso. Ora dovevo solo pensare a godermi quell’ultima estate, finita la quale, di nuovo mi aspettava una scelta: iscrivermi all’università, o entrare definitivamente nel cosiddetto mondo del lavoro. E per passare bene il poco tempo che mi restava, prima di essere costretto a scegliere tra due prospettive per me ugualmente angoscianti, e magari riuscire anche a fare quel viaggio ad Amsterdam su cui, con un amico, avevo fantasticato tutto l’inverno, mi servivano soldi, cioè, tanto per cambiare, mi serviva un lavoro; e mi serviva subito, immediatamente. Quei maledetti esami, che avevano prolungato di un mese l’anno scolastico, prolungando cosí anche la consueta incertezza, presto trasformatasi in vera e propria angoscia, mi avevano anche impedito di cercare per tempo il consueto lavoro estivo. Tornare a fare il manovale nell’impresa dell’amico di mio zio naturalmente era escluso.
Nella strada parallela alla mia, da un lato interamente occupata da case operaie semidiroccate, un’impresa aveva da poco dato inizio ai lavori di ristrutturazione. Perché non vai a chiedere, mi disse mia madre, al massimo ti diranno di no. Cosí, malgrado la mia cronica timidezza, ma forte dell’esperienza dell’anno precedente, mi recai nel cantiere dietro casa e mi presentai direttamente all’impresario, che proprio in quel momento era sul posto. Sí, dissi, avevo una certa esperienza, visto che l’anno precedente avevo lavorato come manovale presso un’altra impresa; e sí, dissi ancora, certo che avevo voglia di lavorare. Lui mi squadrò, e disse che, visto che in quel periodo avevano preso due o tre lavori proprio a Cavazzale, due braccia in piú gli avrebbero fatto comodo; e che potevo cominciare anche subito, cioè la mattina seguente alle sette e mezza, esattamente lí, dove eravamo ora. Naturalmente in nero, disse, almeno all’inizio. Nessuna obiezione. Ci stringemmo la mano, anzi lui strinse la mia e quasi me la stritolò, e me ne tornai a casa tutto contento.
L’indomani, all’ora stabilita, mi feci trovare pronto, fresco, riposato e tranquillo. Avevo già fatto il manovale l’anno prima, ed ero convinto di sapere cosa mi aspettava. Naturalmente mi sbagliavo. Stavolta non si trattava di seguire un pensionato, che lavorava per fare un favore al padrone, la cui lentezza mi permetteva di stare agevolmente al passo, avanzando anche del tempo per cazzeggiare sui tetti. Ancora una volta si trattava di seguire un uomo solo, ma giovane e, oltretutto, il fratello, nonché socio, dell’impresario con cui avevo parlato. Però il lavoro, almeno all’inizio, mi piaceva, mi entusiasmava addirittura, visto che si trattava di demolire tramezzi e scorticare muri con lo scalpello elettrico, e niente al mondo mi dava all’epoca altrettanta soddisfazione che demolire qualcosa. I problemi iniziarono la seconda settimana, quando, dopo aver demolito, cominciammo a ricostruire. Ci raggiunse in cantiere un altro muratore e io dovevo servire entrambi. In piú, niente betoniera, che era impegnata altrove, e un’altra non ce n’era; perciò, dovevo fare la malta in terra, mischiandola direttamente con il badile; e niente carrucola per portare la carriola al primo piano, dove i miei uomini stavano lavorando. Appena pronta la malta, dovevo riempire due secchi e portarli su per le scale a mano, versarli nella cassa, e poi subito ridiscendere, ripetere l’operazione e subito risalire. Inoltre, i tipi lavoravano a una velocità tale, che non avevo neanche il tempo di pensare, e, appena finito un impasto, dovevo immediatamente prepararne un altro, e avanti cosí tutto il giorno. La sera avevo le mani piene di vesciche ed ero talmente esausto, che trovai appena la forza di mangiare e poi subito a letto, dove mi addormentai immediatamente, per risvegliarmi il giorno dopo con tutti i muscoli che mi facevano male. Mi ci volle un po’ ad abituarmi, ma dopo circa una settimana non avevo piú dolori e lavoravo spedito come mai prima. Venne il momento di scavare nei muri le tracce che elettricisti e idraulici avevano segnato, e io non vedevo l’ora di poter usare di nuovo l’adorato scalpello elettrico. E ancora una volta mi sbagliavo. Andava fatto tutto a mano. I nuovi tramezzi interni erano troppo sottili, e usando lo scalpello elettrico c’era il rischio di passarli da parte a parte, ma proprio per questo, essendo di tavelle, scavarli a mano non era un problema. I vecchi muri però, erano di mattoni pieni. A forza di battere, la sera non sentivo quasi piú le braccia, e la mattina mi svegliavo con le mani contratte, tanto che non riuscivo a distendere le dita, se non con un certo sforzo. Fu un sollievo quando, dopo qualche giorno, l’impresario venne in cantiere e mi disse che, dal giorno seguente, ci sarebbe stato bisogno di me in un altro cantiere, nella nuova zona residenziale. Erano un po’ indietro con i lavori, e, entro la fine della settimana successiva, bisognava a tutti i costi gettare l’ultima soletta, altrimenti avrebbero sforato sui tempi, e si sarebbero trovati costretti a pagare una penale che avrebbe vanificato il lavoro fatto fino a quel momento. Cosí, dal giorno dopo, eccomi finalmente all’aperto, sotto il sole dalla mattina alla sera, a segare e inchiodare tavole, a sollevare travi, a posare travetti in latero-cemento e relative pignatte, sotto la direzione attenta di un carpentiere, di cui ricordo anche il nome, Bortolo, tanta fu l’impressione che mi fece, essendo in grado di piantare fino in fondo un chiodo, di quelli lunghi, con due soli colpi di martello. Ogni volta che andava a Campo Marzo, a Vicenza, per la festa dell’8 di settembre, dove all’epoca c’era, tra gli altri, un padiglione dove si vinceva un premio se, con al massimo tre colpi di martello, si era in grado di piantare completamente un chiodo su una tavoletta di legno, bastava che lui si presentasse al chiosco in questione, dove lo conoscevano bene, e, purché se ne andasse il prima possibile, al primo chiodo, piantato non con tre, ma con due colpi di martello, gli davano subito il premio che voleva. La velocità con cui lavorava era impressionante. Si infilava una manciata di chiodi in bocca, poi ne prendeva uno tra le dita, e con la sola forza della mano lo «puntava» nel legno; due o tre colpi di martello, e il chiodo era piantato fino in fondo. Finito di armare il solaio, cominciammo a preparare e a posare i ferri di armatura, come da disegno. Il giorno della gettata, finimmo a metà pomeriggio, giusto in tempo per riuscire a gettare prima di sera. Per l’occasione, tutti gli operai della piccola impresa di costruzioni erano sul posto, per seguire al meglio le operazioni. Il mio compito, cosa che mi riempí di orgoglio, era di tenere il tubo di gomma, attraverso il quale veniva pompato il calcestruzzo, orientando il getto dove mi avrebbero indicato. Per un po’ tutto andò per il verso giusto, io pompavo il calcestruzzo, mentre gli altri seguivano livellando il getto. Poi, improvvisamente, senza alcun preavviso, il solaio cedette di schianto proprio sotto i miei piedi. Per pochi interminabili secondi, prima che i miei compagni si rend...