Una giornata di Ivan Denisovic
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Una giornata di Ivan Denisovic

La casa di Matrëna. Accadde alla stazione di Cocetovka

  1. 336 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Una giornata di Ivan Denisovic

La casa di Matrëna. Accadde alla stazione di Cocetovka

Informazioni su questo libro

Pubblicata nel 1962 sulla rivista «Novyj Mir» e l'anno successivo in volume (100 000 copie immediatamente esaurite), l' Ivan Denisovic è stata la prima opera a raccontare la vita nel Gulag, e a farlo dal punto di vista della grande letteratura russa, nel solco di Tolstoj e Dostoevskij ma usando una prosa ellittica e spigolosa, piena di espressioni di registro basso. Un capolavoro stilistico messo a fuoco da questa nuova traduzione, basata sull'edizione definitiva riveduta e corretta dall'autore. Le precedenti derivavano dalla prima edizione del racconto, frutto di compromessi tra l'autore e gli apparati di censura. Non meno importanti gli altri due racconti che Solzenicyn riuscì a pubblicare nella breve finestra degli anni del disgelo: La casa di Matrëna e Accadde alla stazione di Kocetovka, che da sempre si accompagnano all' Ivan Denisovic. Le tre opere qui raccolte rivelano molto del rapporto, complicato, tra i russi e la loro terra. Una giornata di Ivan Denisovic si occupa della nostalgia per una terra espropriata nella collettivizzazione e dell'amore per il lavoro dei campi al quale il protagonista sostituisce il rispetto per una terra circoscritta da filo spinato, dove, nonostante tutto, mani callose e screpolate dal freddo cercano di costruire qualcosa di degno, che li riscatti dall'abbrutimento. Accadde alla stazione di Kocetovka affronta il dramma del patriottismo sovietico declinato in una toponomastica intesa come assiologia e usata per distinguere i buoni dai cattivi. La casa di Matrëna sposta invece l'attenzione del lettore sulle campagne: Solzenicyn abbandona i kolchoz per tornare al villaggio quale luogo deputato all'ambientazione delle vicende narrate. Da un certo punto di vista, come è stato detto, si tratta del «ritorno dall'Unione Sovietica alla Russia, dalla pianificazione del futuro alla nostalgia del passato».
dalla prefazione di Ornella Discacciati

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806224332
eBook ISBN
9788858426241

Una giornata di Ivan Denisovič

Alle cinque del mattino, come sempre, diedero il segnale della sveglia picchiando il martello contro un pezzo di rotaia appeso alla baracca-comando. Il suono intermittente penetrò a fatica i vetri, attutito dalle due dita di ghiaccio che li coprivano, e cessò in fretta: con quel freddo nemmeno il sorvegliante aveva voglia di stare a martellare a lungo.
Il segnale tacque, fuori era buio pesto, come nel cuore della notte, quando Šuchov si alzava per andare al bugliolo: e sí che un fascio di luce gialla proveniente da tre lampioni, due nella zona1 esterna e uno all’interno del lager, batteva proprio contro la finestra.
Chissà perché non erano ancora venuti ad aprire la baracca né si sentivano i detenuti di piantone caricare sulle stanghe il bidone che serviva da bugliolo per portarlo fuori.
Di solito Šuchov era già in piedi al segnale, all’adunata mancava un’oretta e mezza di tempo tutto suo, non dello Stato; chi conosceva la vita del lager sapeva che si poteva sempre impegnarlo per qualche lavoretto extra: cucire un paio di manopole da una fodera vecchia; passare a qualche ricco compagno di squadra i valenki2 asciutti: avvicinandoglieli al tavolaccio gli risparmi di girare scalzo a saltelloni tutt’attorno alla pila a sceglierseli; o, invece, fare una scappata ai depositi dove poteva servire qualcuno per spazzare o per i lavori di fatica; oppure ancora andare alla mensa a sparecchiare le scodelle portandole impilate fino all’acquaio – anche lí un boccone lo si rimedia, ma per questo incarico sai quanti volontari ci sono, senza contare che se nella scodella c’è ancora qualcosa non ce la fai a trattenerti: cominci a leccarla. A Šuchov erano rimaste ben impresse in mente le parole di Kuzëmin, il suo primo caposquadra, un vecchio lupo dei lager, uno che nel ’43 aveva già scontato dodici anni. Una volta, intorno al falò acceso in mezzo a un varco tra gli alberi, aveva detto ai nuovi arrivati dal fronte mandati come rinforzo alla sua squadra:
– Qui, ragazzi, è la legge della tajgà. Ma anche qui si può campare. Nel lager i primi a crepare sono quelli che leccano le scodelle, quelli che contano sul marcar visita in infermeria e quelli che vanno a spifferare ai capoccia3.
Sulla faccenda dello spifferare aveva esagerato. Sono proprio le spie a cavarsela, col sangue degli altri, però.
Di solito al segnale Šuchov era già in piedi, ma non quella mattina. Già la sera prima non stava bene, un colpo aveva i brividi, un colpo si sentiva tutto pesto. La notte non c’era stato verso di scaldarsi. Nel dormiveglia ora aveva male dappertutto, ora gli sembrava di sentirsi un pochino meglio. Non voleva che facesse mattina.
Ma, puntuale, mattina s’era fatta.
E poi, come scaldarsi lí che sui vetri si era formato uno strato di ghiaccio e in alto, sulle pareti della baracca – una baracca bella grande! –, lungo le linee di giuntura con il soffitto c’era tutta una bianca ragnatela. La brina.
Šuchov non si alzava. Giaceva sul tavolaccio piú alto del letto a castello con la testa avvolta nella coperta e, messa sopra, la giubba, i piedi infilati in una manica del giaccone imbottito ben rimboccata. Non vedeva niente, ma dai rumori capiva tutto quanto stava succedendo dentro la baracca e nell’angolo dove era alloggiata la sua squadra. Ecco che a passi pesanti giú per il corridoio i piantoni portavano via uno dei buglioli grandi, un centinaio di litri. Era considerato un lavoro da invalidi, robetta leggera, ma prova tu a farlo senza spargere merda tutto in giro. Ecco quelli della settantacinquesima squadra che sbattevano sul pavimento un mucchio di valenki portati dallo stenditoio. Ed ecco la nostra squadra fare lo stesso (anche alla nostra quel giorno toccava asciugare i valenki). Il caposquadra e il suo vice si infilarono i valenki in silenzio, facendo scricchiolare il tavolaccio. Il vice era pronto a dirigersi alla distribuzione delle razioni di pane, il caposquadra alla baracca-comando, dai ripartitori, quelli che smistano il lavoro nella zona.
Ma a Šuchov tornò in mente che quel giorno non era come tutti gli altri. Si decideva di che morte morire. A quanto pareva, volevano fregare alla sua squadra la costruzione dei laboratori per appioppare loro un nuovo obiettivo: la costruzione di un «Villaggio socialista». Peccato, però, che il «Villaggio socialista» non fosse altro che un campo aperto tra crinali innevati, e prima di farci qualcosa bisognava scavare le fondamenta, metterci i pali e tendere, con le proprie stesse mani, il filo spinato per impedire le fughe. Solo dopo si sarebbe cominciato a costruire.
Lí, sicuro come l’oro, per almeno un mese non ci sarebbe stato un buco per scaldarsi. E di falò neanche a parlarne: non c’è niente per accenderlo. L’unica salvezza è sgobbare con coscienza.
Il caposquadra era preoccupato, andava a metterci una pezza. Voleva infilare di straforo al posto nostro un’altra squadra, piú lenta. Certo, a mani vuote non ci si mette d’accordo. Serviva mezzo chilo di lardo per il ripartitore. Fai anche un chilo, va’.
Magari provare a marcare visita in infermeria, e schivare l’intera giornata? Tentar non nuoce. In quel momento il corpo era tutto un dolore.
E come se non bastasse chissà chi era di turno tra i sorveglianti.
Gli tornò in mente che quel giorno c’era Ivan la Pertica, un sergente dagli occhi neri, magro e lungo lungo. La prima volta che lo vedi ti fa addirittura spavento, ma quando lo conosci è il piú accomodante della sorveglianza interna al lager: non ti sbatte in cella di rigore né ti trascina di peso dal comandante del campo. Perciò si poteva restare coricati intanto che la nona baracca se ne andava in mensa.
Il tavolaccio cominciò a sussultare e a dondolare. Di colpo si stavano alzando in due: di sopra il vicino di Šuchov, Alëška il battista, e sotto Bujnovskij, un ex capitano di corvetta di secondo grado.
I vecchi di piantone, dopo aver portato fuori entrambi i buglioli, attaccarono a ingiuriarsi litigando sul turno per andare a prendere l’acqua bollente.
Bisticciavano come comari. Dal saldatore elettrico della ventesima arrivò un bercio:
– Ehi, mezze seghe, – e gli lanciò contro uno stivale, – ve la do io la pace!
Lo stivale sbatté con un rumore sordo contro la colonna. I due si azzittirono.
Nella squadra accanto, intanto, il vicecaposquadra brontolava a denti stretti:
– Vasil´ Fedoryč! Quelle canaglie della distribuzione stavolta ci hanno fregato: le razioni di pane erano novecento-quattro e sono diventate novecentotre. A chi ne tocca di meno?
L’aveva appena bisbigliato, ma era chiaro che tutta la squadra aveva sentito e alzato la guardia: a qualcuno la sera avrebbero tolto una fetta.
Nel frattempo Šuchov continuava a starsene sdraiato sul suo materasso di segatura. Se almeno si fosse capito dove andava a parare questo suo malessere: o brividi di freddo oppure dolori. Invece né carne né pesce.
Mentre il Battista pregava in un sussurro, Bujnovskij, appena rientrato dalla latrina, comunicò a tutti e nessuno ma con una certa malignità:
– Be’, tenete duro, marinai! Trenta sotto zero, sicuri come l’oro!
E Šuchov si risolse a marcare visita in infermeria.
Proprio in quel momento la mano prepotente di qualcuno gli strappò di dosso giubba e coperta. Šuchov si tolse il giaccone dalla faccia e si sollevò. Sotto di lui, con il capo alla stessa altezza del suo tavolaccio c’era un tipo sparuto, il Tataro.
Allora era lui di turno, anche se non gli toccava, e si era introdotto di soppiatto.
– Šč-854! – lesse il Tataro dalla pezza bianca sulla schiena della giubba di panno nero. – Tre giornate di cella di rigore con uscita al lavoro!
E non appena risuonò la sua voce strana, gutturale, subito in tutta la baracca semibuia, dove solo poche lampade erano accese e su una cinquantina scarsa di cimiciosi letti a castello dormivano un paio di centinaia di persone, tutti quelli che non erano ancora in piedi si spicciarono ad alzarsi e cominciarono a vestirsi in fretta e furia.
– Per che cosa, cittadino capo? – chiese Šuchov imprimendo alla sua voce piú pena di quanta in realtà non ne provasse.
Con uscita al lavoro era ancora mezza punizione e ne assestavano di ben peggiori e senza pensarci due volte. La cella di rigore vera e propria è quando non c’è l’uscita al lavoro.
– E tu, ti sei alzato al segnale, tu? Andiamo al comando, – spiegò il Tataro controvoglia, perché tanto a lui che a Šuchov e a tutti gli altri era perfettamente chiaro il motivo della punizione.
Il volto glabro e tristo del Tataro era impenetrabile. Si girò a cercarne un altro da punire, ma tutti ormai, chi nella semioscurità, chi sotto la lampada, chi al piano inferiore o superiore del letto a castello, tutti insomma stavano ficcando le gambe nei neri calzoni imbottiti con la pezza sul ginocchio sinistro oppure, già vestiti, si affrettavano a uscire intabarrati in cortile in attesa del Tataro.
Se gli avessero dato la cella di rigore per qualcos’altro, per qualche mancanza sul lavoro, non ci sarebbe rimasto cosí male. Ma a Šuchov la punizione faceva rabbia, perché lui era sempre tra i primi ad alzarsi. Con il Tataro, però, sapeva che c’era poco da stare a elemosinare. Cosí com’era, con indosso i calzoni imbottiti che non si era tolto la notte (anch’essi con una pezza sudicia e frusta con segnato il numero nero Šč-854 ormai sbiadito al punto da essere diventato quasi rosso sul ginocchio sinistro), continuando a supplicare per il solo gusto di farlo, Šuchov si buttò addosso il giaccone imbottito (sul quale le pezze erano due: una sul petto e una sulla schiena), scelse nel mucchio sul pavimento i valenki da indossare, si calcò il berretto in testa (sempre con la stessa pezza e numero sul davanti) e uscí appresso al Tataro.
Tutta la centoquattresima vide che lo portavano via, ma nessuno fiatò, tanto non serviva, e poi che cosa c’era da dire? Il caposquadra avrebbe potuto forse mettere una buona parola, ma era già andato via. Neppure Šuchov fiatò, non voleva innervosire ulteriormente il Tataro. Gli avrebbero tenuto da parte il rancio, avrebbero capito.
Cosí uscirono in due.
Fuori gelo e una nebbia che toglieva il fiato. Due enormi riflettori, su due grandi torrette poste agli angoli estremi, fendevano la zona incrociandosi. I lampioni illuminavano sia dentro sia fuori la zona. Tanta luce abbagliava le stelle.
Con i valenki che crepitavano sulla neve gli zek4 correvano affaccendati chi alle latrine, chi al deposito generale o a quello dei pacchi, chi a consegnare il proprio grano alla cucina individuale. Tutti tenevano la testa incassata nelle spalle, le falde del giaccone incrociate, e tutti sentivano freddo non tanto per il ghiaccio quanto al pensiero di dover passare l’intera giornata al gelo.
Eppure il Tataro nel suo vecchio pastrano con le mostrine blu unte e bisunte camminava con passo regolare, come se il gelo non lo toccasse.
Oltrepassarono l’alto steccato che circondava la cella di rigore, una prigione di pietra interna al lager; poi il filo spinato che proteggeva i forni per la panificazione dagli zek; poi l’angolo con la baracca-comando dove, legato a un palo con una spessa corda, c’era il pezzo di rotaia della sveglia, tutto coperto di brina; poi un altro palo dove, al riparo dal vento per non far vedere una temperatura troppo bassa, tutto brinato, pendeva un termometro.
Šuchov si accostò speranzoso alla colonnina bianco lattiginoso: con quarantuno gradi sotto zero non dovevano mandarli al lavoro. Solo che quel giorno non c’era verso di raggiungere nemmeno i quaranta.
Entrarono nella baracca-comando e si diressero immediatamente nella stanza dei sorveglianti. Lí per lí fu chiaro ciò che Šuchov aveva compreso già strada facendo: niente cella di rigore, ma solo una passata ai pavimenti della sorveglianza. Ora il Tataro comunicò uf...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La ferita Denisovič di Ornella Discacciati
  4. Nota all’edizione
  5. Nota bibliografica per il lettore italiano
  6. Ringraziamenti
  7. Una giornata di Ivan Denisovič
  8. La casa di Matrëna
  9. Accadde alla stazione di Kočetovka
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright