Quel lunedà 7 aprile 2014, sul Tgv Parigi-Rennes delle 7.09, arrivo alle 9.12, mi sentivo come ci si può sentire un lunedà di corte d’assise. Il giorno precedente avevo rivisto 1974, une partie de campagne, il film di Raymond Depardon sulla campagna presidenziale di Valéry Giscard d’Estaing. Mi estasiava l’immagine del candidato che, stretto sul sedile posteriore di un’auto, disciplinava con il pettine la sua unica ciocca di capelli che una brezza maliziosa faceva sventolare. Intorno a lui la Francia era giovane, i ragazzi portavano giacche attillate e il seno nudo delle ragazze premeva sotto le t-shirt. Assomigliavano tutte ad Agnès Le Roux.
La giovane donna è scomparsa nell’autunno del 1977. Il cadavere non è mai stato ritrovato.
Nel palazzo di giustizia di Rennes si processava un vecchio dal colorito cereo, la faccia invasa da una folta barba bianca, che era accusato di averla assassinata. Già attendevo il momento in cui, varcata la porta, avrei lasciato fuori i sussulti del mondo per interessarmi solo di ciò che accadeva lÃ, nello spazio al tempo stesso angusto e immenso dell’aula.
Il processo a Maurice Agnelet entrava nell’ultima settimana. I banchi della stampa, dove all’inizio ci affollavamo ancora, si erano sguarniti. Eravamo rimasti in pochi ad appassionarci a quel caso e alla sua peculiare atmosfera da coste del Mediterraneo, alla personalità sconcertante di un imputato di settantasei anni che affrontava per la terza volta corte e giurati e al mistero della scomparsa della sua amante, la cui voce supplichevole incisa su un vecchio registratore a nastro – si sentiva il «clac, pshh» del tasto premuto con l’indice – risuonava nell’aula. Una voce d’epoca, come lo si direbbe di un mobile, con sfondo di pantaloni a zampa d’elefante, sciarpe lavorate ai ferri, khol sugli occhi, Berlioz sui biglietti da dieci franchi, Racine su quelli da cinquanta e Corneille sui cento.
Avrei ritrovato il drappello dei cronisti giudiziari irriducibili. Sapevo che, come ogni mattina di ogni processo, uno di loro sarebbe arrivato presto in aula, si sarebbe seduto all’estremità della prima fila, avrebbe aperto il quaderno a quadretti con la spirale per annotare, in alto a sinistra, la data e l’ora esatte, minuto piú minuto meno, della ripresa del procedimento. Per nulla al mondo si sarebbe perso quegli istanti indefiniti, quei minuti sospesi, quando gli avvocati non hanno ancora indossato la toga, quando la cancelliera appoggia i fascicoli sulla scrivania, quando da entrambi i lati della sbarra ci si prepara, a volte si scherza, prima che il campanello che annuncia l’ingresso della corte inchiodi ognuno al proprio ruolo.
Mi ha mandato un messaggio per dirmi di venire subito, di corsa.
Rivedo i volti tesi e sbigottiti quando sono entrata. Il presidente della corte d’assise, Philippe Dary, aveva appena annunciato che il giorno precedente il figlio maggiore dell’imputato, Guillaume Agnelet, si era presentato dal procuratore della sua città , Chambéry, in Savoia, per rilasciare una deposizione. Senza alzare gli occhi dai due fogli appoggiati sul banco, il presidente leggeva.
«Ho voluto incontrarla per farla partecipe del mio caso di coscienza riguardo al processo di mio padre. Sono convinto che sia l’assassino di Agnès Le Roux. Sono giunto a questa conclusione in seguito alle rivelazioni che mi hanno fatto sia mio padre sia mia madre».
Poi il resoconto di tre episodi specifici, terribili.
E infine queste parole: «Il passo che compio oggi mi costa moltissimo. So che questa testimonianza sancirà la rottura con la mia famiglia, cioè con mia madre e mio fratello. Temo anche la reazione di mio padre che, in un modo o nell’altro, cercherà probabilmente di vendicarsi. Sono pronto ad andare a testimoniare di fronte alla corte d’assise di Rennes nei prossimi giorni».
Seguà un gran clamore. La deflagrazione in diretta e in pubblico di una famiglia e dei suoi segreti. E noi, dietro, pigiati nei banchi del pubblico, aspettavamo solo di vedere come e fino a che punto l’avrebbe ridotta a brandelli. Quel giorno ho conosciuto lo spavento. Un sudore gelido, un sussulto incontrollabile che scaturisce da dentro, un lungo trasalimento.
Quattro giorni dopo la corte d’assise di Ille-et-Vilaine ha dichiarato Maurice Agnelet colpevole di omicidio e lo ha condannato a vent’anni di reclusione. A trentasette anni dalla scomparsa della giovane donna il caso Le Roux aveva trovato il suo epilogo giudiziario. A sparigliare le carte era intervenuta un’altra storia. Una storia che si svolgeva parallelamente, che era durata quasi altrettanto a lungo, e nessuno ne aveva saputo niente, nessuno aveva intuito niente.
Quel figlio che accusava il padre, io lo conoscevo. L’avevo visto battersi al suo fianco per sostenerne l’innocenza. Volevo capire. Avevo il palcoscenico senza le quinte. La luce senza le ombre. L’istante, non il decorso.
Ho scritto una lunga lettera a Guillaume Agnelet. Mi ha risposto.
La prima volta che l’ho rivisto, sulla banchina di una stazione, ho intuito subito che era impaurito quanto me. Non eravamo piú protetti dalle mura di un palazzo di giustizia, dal ruolo che assegnava a ognuno di noi. Lui, figlio di imputato, testimone, che rispondeva di fronte alla corte alle domande del presidente, del pubblico ministero e degli avvocati. Io, giornalista, seduta in silenzio fra altri in un banco alle sue spalle. All’improvviso lo spazio sembrava troppo vasto, troppo luminoso. Non c’erano piú uscieri, né il silenzio compatto che accompagna il rituale dell’udienza, né lo scenario di pietra e legno antico, né l’atmosfera di tragedia che ti schiaccia e al tempo stesso ti innalza. C’era solo una stazione affollata di gente frettolosa. E in mezzo Guillaume Agnelet, con uno zainetto in spalla, che mi tendeva la mano.
Ci sono stati altri incontri. Ogni volta ho provato la stessa, identica, tensione nell’avvicinarmi il piú possibile agli abissi che aveva attraversato. Nel ripercorrere dal principio insieme a lui gli anni, poi i giorni e infine le ore che hanno preceduto la deposizione.
È il figlio di mezzo. Il maggiore era geniale e strabiliava suo padre. L’ultimo era disabile e monopolizzava sua madre. All’inizio la famiglia viveva allo stretto al primo piano di cours Saleya 13, a Nizza, un vecchio edificio color ocra lungo il mercato dei fiori, che ospitava l’abitazione e lo studio dell’avvocato Maurice Agnelet. L’avvocato si compiaceva della propria silhouette riflessa nello specchio, delle lunghe gambe inguainate nel velluto rasato, del leggero maglioncino girocollo che gli ricordava l’epoca in cui fantasticava di diventare seminarista e del sobbalzo di sbigottimento e indignazione che provocava, ai bei tempi, il suo arrivo al palazzo di giustizia, a piedi nudi nei sandali che sbucavano da sotto la toga. Attraeva i maschi e piaceva alle donne, si attendeva molto dalle sue amicizie massoniche, adocchiava la presidenza della Lega dipartimentale per i diritti dell’uomo e apprezzava il fatto che sua moglie, Anne, chiudesse gli occhi sulle sue infedeltà notturne.
Guillaume era affascinato dalla spessa porta imbottita dello studio di suo padre e dalla cartella di coccodrillo con la serratura a codice che aveva portato a casa dalla Svizzera. Ma soprattutto adorava la sua moto, una vecchia Bmw 750 che Maurice Agnelet aveva comprato a un’asta di mezzi dismessi dalla polizia, con la quale a volte andava a prenderlo all’uscita da scuola. Il bambino si arrampicava dietro, le gambette di sette anni troppo corte per arrivare ai predellini. Con la faccia schiacciata contro la schiena di suo padre aspettava il momento in cui, superati i sobborghi della città , la strada si restringeva e serpeggiava sulla montagna. All’approssimarsi di ogni curva, nell’odore di pini arsi dal sole e nel soffio del vento, Guillaume sentiva la moto rallentare, inclinarsi come se stesse per finire nel fosso e poi raddrizzarsi per effetto dell’accelerazione. Chiudeva gli occhi, impaurito e deliziato, contando i tornanti che mancavano, stringeva piú forte suo padre alla vita; non si era mai sentito tanto vicino a lui quanto in quei momenti.
La loro casa si trovava proprio in fondo alla strada del monte Macaron. Il capanno da cantoniere dove un tempo passavano le domeniche era diventato una grande villa con terrazza che dominava tutta la baia di Nizza. Anne portava i capelli lunghi e sciolti, bruciava candele in vasetti di vetro colorato ascoltando Jean Ferrat, Georges Moustaki o Joan Baez e proibiva ai figli di avvicinarsi al telaio a due pedali che troneggiava in salotto. Presto ci sarebbero state una piscina e feste alle quali Maurice Agnelet, diventato venerabile della sua loggia e consigliere municipale, avrebbe invitato ogni anno sempre piú persone.
In giardino i tre bambini giocavano a scendere, urlando, dallo scivolo di metallo rosso che cominciava a scolorirsi al sole. Thomas inventava battute che lo facevano ridere molto. «Qual è la differenza fra un aereo e un gelato? Risposta: l’aereo vola e il gelato cola». Jérôme, il maggiore, godeva di un privilegio che Guillaume gli invidiava. Una volta alla settimana suo padre lo portava al cinema a vedere film «da grandi». Aveva promesso agli altri due che poi sarebbe toccato anche a loro.
Ma poi c’è stato «il caso». Guillaume aveva otto anni. Non ricordava che la sorridente ragazza bruna con gli occhi neri che un giorno, riaccompagnando a casa Maurice in auto, gli aveva comprato un gelato si chiamava Agnès. È stato solo molto piú tardi che quel nome ha invaso la sua vita.
La giovane donna apparteneva a una ricchissima famiglia della Costa Azzurra. Il padre, Henri Le Roux, era morto lasciando a moglie e figli le sue azioni del Palais de la Méditerranée, il monumentale edificio art déco sulla Promenade des Anglais, sede del secondo casinò di Francia. Fedele alla promessa fatta al marito, Renée Le Roux aveva preso le redini del Palais e si preoccupava di difendere il patrimonio di famiglia dagli assalti del proprietario del casinò concorrente, Jean-Dominique Fratoni. L’uomo era colluso con la mafia, godeva dell’appoggio del sindaco Jacques Médecin, che voleva trasformare Nizza in una Las Vegas francese, ed era pronto a qualunque colpo basso per estendere il proprio impero.
Fratoni aveva trovato in Maurice Agnelet, fratello di loggia, un prezioso alleato. L’avvocato aveva appena ricevuto il benservito da Renée Le Roux, il suo studio languiva, era animato da un profondo rancore. Soprattutto, era diventato l’amante della figlia di lei, Agnès, da quando quest’ultima lo aveva consultato in merito al proprio divorzio.
Dei quattro figli Le Roux Agnès era la ribelle. Detestava quel mondo del gioco e dei tappeti verdi che le garantiva la ricchezza e voleva affrancarsene pur reclamando la sua parte di eredità . Sognava di fondare un giornale di cui aveva scelto il titolo, «Bleu», e sperava che il suo denaro avrebbe convinto Maurice Agnelet a lasciare moglie e figli per vivere con lei. Quando Maurice le aveva suggerito di negoziare con Fratoni, Agnès aveva seguito ciecamente i suoi consigli. Aveva accettato, per tre milioni di franchi, di vendergli segretamente i poteri che deteneva in seno al consiglio d’amministrazione del Palais de la Méditerranée.
Il 30 luglio 1977 la giovane donna aveva votato contro sua madre e le aveva fatto perdere la presidenza del casinò a vantaggio dell’odiato rivale. Tre mesi dopo era scomparsa. Ben presto la polizia e la giustizia si sarebbero interessate ai maneggi del bizzarro e seducente avvocato.
I bambini hanno intuito che qualcosa non andava quando, nell’estate del 1979, la madre ha annunciato che sarebbero andati a vivere sull’altra sponda del Mediterraneo, in Marocco, senza il padre. Ma a quell’età non ti poni troppe domande, e poi il Marocco non era una terra totalmente straniera, la madre gliene aveva parlato spesso, era là che era nata ed era cresciuta fino all’età di quindici anni. Anne li ha caricati tutti e tre su un’auto piena di valigie, scatoloni di giocattoli imballati alla meglio e carabattole domestiche e il viaggio attraverso la Spagna è durato tre giorni. Thomas, con la sua schiena malata, sedeva davanti, Jérôme e Guillaume, sdraiati dietro sopra i bagagli, quasi contro il tettuccio, cantavano Brassens a squarciagola.
La famiglia si era stabilita in rue Oukaimeden, nel quartiere cosiddetto dei «Petits Blancs» di Rabat, l’Agdal. La casa, stretta e bianca, si affacciava su un giardino circondato da una siepe di nespoli. Anne dormiva di sopra, i tre ragazzi si spartivano le due camere da letto al pianterreno, Guillaume e Thomas da un lato, Jérôme dall’altro. Ogni ...